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07:22 domenica 22 giugno 2025
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L’inverno non esiste

Nel suo libro appena uscito per Guanda Adam Gopnik ricostruisce l'invenzione culturale di una stagione considerata non troppo tempo fa un «orrido regno».

20 Gennaio 2016

L’inverno che ha fatto da ponte tra il 2014 e il 2015 è stato descritto come uno dei più caldi di sempre. L’inverno in corso, a sua volta, è stato e rimane piacevolmente temperato, nonostante il termometro dell’iPhone (ma abbiamo imparato a non fidarci troppo del termometro dell’iPhone e delle sue previsioni) segni in questi giorni 2 gradi e minacci, al calare del sole, minime di meno 5. A cadenza regolare – appunto, stagionale – i quotidiani e, prima di loro, gli scienziati ripetono: un inverno caldo è pericoloso, la calotta polare artica si sta sciogliendo, le città costiere sono in pericolo. Leggo le notizie, annuisco: è vero, le prove sono schiaccianti: di recente ho letto un’intervista a Giovanni Soldini in cui il velista racconta del salvataggio di Isabelle Autissier nel febbraio del 1999, e parla della geografia della navigazione, dicendo: «Io la Autissier l’ho salvata a 55° sud, oggi nel Pacifico non si va più di 45°, perché gli iceberg si sciolgono ed è pieno di pezzi di ghiaccio in più». Tuttavia, mentre scrivo, posso girarmi a guardare la finestra e immaginare quei 3 gradi di fuori, e sentirmi estremamente grato del riscaldamento che fa segnare 20 gradi interni, e mi permette di scrivere queste righe nel sicuro abbraccio del comfort, e sentirmi così lontano, empaticamente, dalle lastre di ghiaccio che si staccano dal Polo Sud e vanno alla deriva verso il nord dell’Oceano. È una colpa? In un certo senso sì, in un altro senso no.

Strong Winter Storm Bears Down On Northeastern US

L’ultima neve su Milano, nel momento in cui scrivo, è scesa la notte del primo gennaio 2016. Era una bella serata per la neve: la prima del nuovo anno, durante una cena con alcuni amici, il giorno dopo Capodanno, senza necessità se non il riposo. Milano Sud si è imbiancata in un attimo: le auto, i marciapiedi, i rami dei pini, i balconi con i fiori. Le frasi dette al riparo del vetro delle finestre: «Ha preso, ha preso». Quando penso alla neve, e anche quando vedo la neve al riparo di un vetro e di un riscaldamento, c’è un’immagine quasi archetipica che mi appare: è la copertina “Perfect Storm” di un New Yorker del febbraio 2010, è una delle più famose del magazine, disegnata da Tomer Hanuka. Mostra due figure – un ragazzo e una ragazza – di spalle, in un letto disfatto, in un ambiente che i colori e i dettagli (un termosifone sullo sfondo) riescono a rendere caldo anche alla vista, che guardano la neve scendere su New York e imbiancare le brownstone dirimpetto. Loro sono quasi svestiti, in una poco celata – e ancora più calda e confortevole – atmosfera di post-sesso. Hanuka, a proposito dell’illustrazione, ha detto: «La neve è intrinsecamente nostalgica. Ti spinge a viaggiare indietro nel tempo e pensare alla tua vita. Credo che abbia a che fare con il modo in cui avvolge la realtà, è come se cancellasse il presente un puntino alla volta. E questo lascia spazio al passato». La neve è quindi, per Hanuka (ma anche per noi “occidentali”, in modi sfaccettati anche se mai troppo dissimili) un momento per la riflessione, per la serenità, per le emozioni. Naturalmente tutte queste azioni si possono fare se si è al caldo, al riparo dalla neve stessa. «Il vetro della finestra» scrive Adam Gopnik nel suo ultimo libro, L’invenzione dell’inverno (Guanda, traduzione di Isabella C. Blum), «è la lente attraverso cui l’inverno moderno viene sempre contemplato».

Il riscaldamento centralizzato, come molte invenzioni fondamentali per la specie umana, non viene in principio pensato per la specie umana

Il saggio di Gopnik spiega come il ruolo dell’inverno si sia, in brevissimo tempo, trasformato, nelle vite e nelle arti e nelle rappresentazioni del mondo moderno. Prima dell’Ottocento il rapporto delle società con l’inverno era molto lontano da quello rappresentato dalla copertina del New Yorker, da quello che immaginiamo tutti, o quasi, quando contempliamo la neve. «Nella lunghissima prospettiva della storia», scrive Gopnik, «amare l’inverno può sembrare perverso». L’inverno era, per usare le parole di Samuel Johnson nella poesia “Passeggiata d’inverno”, un luogo di «cupi orizzonti» o, per essere più chiari, «l’orrido regno».

Provate a pensare ora, mentre leggete queste righe, a sensazioni provate quasi ogni giorno, ogni inverno della vostra vita: come ai piedi freddi appena arrivati a casa, e poi a un letto anche lui freddo ma da scaldare, e al contatto, e al lento trasformarsi del freddo in calore. È una delle sensazioni più belle, credo, che un uomo del 21° secolo possa provare, ed è una sensazione legata all’inverno, perché il freddo è un elemento necessario alla sua realizzazione. È anche una sensazione estremamente nuova. Grazie a cosa possiamo provare questa sensazione, grazie a cosa abbiamo potuto costruire un intero apparato letterario, artistico, poetico e immaginifico fondato sul comfort, come la copertina del New Yorker, la coziness di una tazza di tè tra le mani davanti a Netflix (Netflix invece del camino del primo ‘900), e via dicendo? La risposta è: riscaldamento centralizzato.

Cold Weather System Brings Snow To New York Area

Il riscaldamento centralizzato, come molte invenzioni fondamentali per la specie umana, non viene in principio pensato per la specie umana. I destinatari iniziali di quel caldo, di quel comfort, nella prima metà dell’Ottocento, erano ortaggi e alberi da frutta, tenuti al riparo dai rigori all’interno delle serre. Dopo l’applicazione ai luoghi interni abitati da uomini e donne del tepore artificiale, l’Europa scopre la villeggiatura in montagna. In particolare, scopre la miglior montagna d’Europa: la Svizzera, in cui iniziarono ad arrivare in molti, tra cui, sopra tutti, William Turner e il critico d’arte John Ruskin. Al riparo dal gelo, l’inverno alpino diventa qualcosa per cui sbalordirsi, non più qualcosa da temere. Appena un secolo prima l’inverno portava gelate, carestie e morte, mentre ora Ruskin scrive: «La luce del sole è deliziosa, la pioggia rinfresca, il vento rinvigorisce, la neve esalta (…); il brutto tempo non esiste, esistono solo diversi tipi di bel tempo».

L’inverno, scrive Gopnik, diventa così pittoresco e “innocuo”, lontano dal sublime romantico di Burke e Friedrich, che si trasforma in «un altro tipo di primavera, una primavera per esteti che trovano il verde d’aprile troppo comune». Gli esteti, in questo caso, sono Monet, Sisley, Pissarro, ma esistono ancora, in ogni gruppo, tra gli amici di chiunque. Da parte mia, ho passato un periodo di fascinazione per l’inverno, per i suoi rigori, i suoi bianchi, e anche se in scrittori come James Salter le scene d’inverno sono così meravigliosamente voluttuose – risvegli pigri la domenica, luce bianca che filtra dalle crepe sottili delle tapparelle, neve che crepita sotto i passi dei cani che corrono in giardino, una specie di eterna vacanza in cottage modernisti avvolti in coperte Pendleton – continuo a preferire il verde d’aprile e la bicicletta in città in maglietta, e i gelati, e le birre fredde e i bagni freddi, e le domeniche al mare e i piedi nudi, un immaginario così banale eppure così comodo. Certo che sono libidinosi gli inverni russi scritti da Nabokov in Parla, ricordo, ma Nabokov faceva parte del famoso 1% già nel 1899, e Nabokov scriveva così bene da saper abbellire quegli inverni ben oltre la realtà dei fatti (e poi, si sa, la nostalgia).

Nel frattempo, mentre alcuni europei e americani e canadesi iniziavano a scrivere poesie sulla dolce neve, preparando la strada per le odierne copertine del New Yorker e per i dischi dei Fleet Foxes e per i film di John Cusack e Kate Beckinsale, altri europei e americani e canadesi si misero in testa, affascinati dall’inverno come sfida, di scoprire i poli, sia a nord che a sud. Presero il mare, finanziate da pubblico e privati, centinaia di spedizioni per “arrivare al polo”. Qualsiasi altro scopo era escluso: non c’erano ricchezze da trafugare, nazioni da conquistare, mercati da colonizzare. Eppure una volta scoperto che il “passaggio a nord-ovest” era impraticabile, le spedizioni continuarono. Principalmente, per piantare una bandiera: non offrirono nulla alla scienza, né alla storia, fortunatamente. Almeno, non nel senso peggiore.

Cold Weather System Brings Snow To New York Area

La trasformazione più importante che ha portato il nuovo inverno, l’inverno reinventato e spogliato dal terrore, non riguarda tuttavia né le canzoni dei Fleet Foxes né le copertine del New Yorker né i film di John Cusack e Kate Beckinsale, prodotti, se consideriamo la popolazione mondiale o anche solo occidentale, estremamente di nicchia: riguarda il Natale. Con Natale qui non intendo la nascita di Gesù in quanto concetto religioso – Gesù di Nazaret, se nacque, non nacque probabilmente il 25 dicembre – ma il natale moderno: lo scambio di doni, le renne, le carole, Babbo Natale, il tacchino o il capitone, il Circolo polare artico e la neve. I padri immaginifici del Natale moderno furono Dickens con Canto di Natale (in cui Gesù non viene mai citato), che introdusse in una cultura quasi-di-massa (il libro vendette molto, anche per l’epoca) concetti come lo scambio di regali e la necessità di essere «tutti più buoni», e Thomas Nast, illustratore statunitense, creatore del Babbo Natale come ancora oggi lo conosciamo.

Nulla, insomma, di ciò che oggi associamo all’inverno è naturalmente associato all’inverno. A ben vedere, nulla è associabile all’inverno naturalmente, in quanto “inverno” è un concetto artificiale, un nome che abbiamo dato a un dato periodo dell’anno in cui, a diverse latitudini, l’inclinazione dell’asse della terra fa sì che… e così via. Allo stesso tempo, l’invenzione dell’inverno come stagione di comfort è anch’essa in un certo senso fittizia: il sentimento di tepore che leghiamo a una tazza di tè tenuta tra le mani mentre la neve cade dietro la finestra non c’entra nulla con l’inverno, ma c’entra con noi. In fondo credo che chi dice «amo l’inverno» menta, forse non sapendo di mentire, a sua discolpa. Quello che vuole dire, in realtà, è: «Amo sfuggire all’inverno», sapendo che quello resiste lì fuori, mentre io me ne sto qui dentro. Amare l’inverno è amare le comodità che l’inverno vorrebbe sottrarci, è prendere in giro l’inverno: e in fondo è bello, e sono belle le copertine del New Yorker e i graphic novel come Blankets ed è ancora più bello riuscire a riviverli mentre la neve copre Milano Sud il primo giorno del nuovo anno.

Nell’immagine di testata, la tempesta di neve a New York nel 2003 (Mario Tama/Getty Images); nel testo, un uomo sullo Staten Island Ferry; neve su un marciapiede di NY; una coppia sulla subway, sempre a NY (tutto Spencer Platt/Getty Images)
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