Leonard Michaels – Sylvia (Adelphi) trad. V. Vergiani
Le relazioni tra gli esseri umani sono tutte uguali. Seguono il medesimo schema, sempre: quello che le fa differire è l’intensità con cui vengono vissute. È per questo che Sylvia fa paura. È un libro breve e forte (direi “intenso”, se non fosse una parola così abusata nei confronti dei libri, che spesso sono bellissimi senza essere intensi) e racconta, banalmente, di una relazione che va a pezzi. Sono cose ordinarie, piccole, cattive: i litigi, i fastidi, i nervi che sfrigolano ed esplodono. Di chi è la colpa è una questione più terziaria che secondaria. Quello che c’è di centrale, in Sylvia, è la quantità di odio presente in ogni storia di coppia. Una relazione è come un pianeta, ogni pianeta ha la sua atmosfera particolare: il diossido di carbonio è necessario alla vita, in certe quantità. Quando supera quelle quantità è troppo, e la impedisce. Non credo di aver mai ritrovato descrizioni di litigi così puntuali, in un libro (forse qualcosa in James Salter, ma più probabilmente no), che sappiano mostrare al lettore con precisione quando si spezza il filo dell’equilibrio e si precipita verso la pazzia. Come: «Un pomeriggio, seduto sui gradini di casa in attesa che Sylvia tornasse dall’università, la vidi in lontananza che camminava piano. Quando s’accorse che la stavo guardando, rallentò ulteriormente. La suola del suo sandalo destro si era quasi staccata e sbatteva a ogni passo. Finalmente arrivò dinanzi a me e mi mostrò un chiodo che le si era conficcato nella suola. Era tornata a casa camminando sul chiodo, con la suola che sbatteva e il piede che sguazzava nel sangue. Cos’altro avrebbe potuto fare? Sorrise debolmente, dolorante, ma di buonumore Dissi che avrebbe potuto far riparare il sandalo o camminare scalza o chiamare un taxi. C’era una nota di impazienza nella mia voce, non potevo annullarne l’effetto. Per giorni e giorni Sylvia continuò ad andare in giro per Cambridge premendo il piede sul chiodo e sanguinando. Si rifiutava di mettere altre scarpe. Supplicai, discussi con lei. Finalmente lasciò che la portassi a far riparare il sandalo. Gliene fui grato. Lei no. Non fui perdonato». Naturalmente, l’odio e la follia, in Sylvia, sono presenti in quantità soffocanti. Ma funzionano comunque: sono uno specchio, sono gli stessi che conosciamo tutti. Naturalmente, lei si uccide. Naturalmente, la storia raccontata è una storia vera. (Davide Coppo)
Il maltempo di quella mattina aveva regalato a Nemo un meschino brivido di piacere: se non altro, pioveva. Perché bisognava aggiungere una cosa: non solo quel giorno era il compleanno del suo grande nemico, non solo Nemesio il Vecchio arrivava trionfante al giro di boa – cento anni “da protagonista”, come avrebbero titolato tutti i giornali che Nemo non avrebbe acquistato – ma nel tardo pomeriggio il Comune avrebbe reso onore a uno dei suoi figli più illustri (e longevi, certo) con l’inaugurazione di una mostra antologica nella cornice di Palazzo Reale, a due passi dal Duomo, proprio dietro il muro delle sale dove Nemo lavorava come maschera. Era l’ultima consacrazione. O così si sperava. Una retrospettiva con tutte le tappe salienti della sua sfolgorante carriera, intitolata dall’assessore alla cultura in un momento di straripante originalità Sulle spalle di un gigante. Vita e opere di Nemesio Viti. Nemo non poteva non immaginare una versione tutta sua: Sulle palle di un gigante. In primis per la faccenda dello sperma vecchio. E poi perché padre e figlio si detestavano.
Ci dissero che la nostra insofferenza beffarda non bastava; doveva volgersi in collera, e la collera essere incanalata in una rivolta organica e tempestiva: ma non ci insegnarono come si fabbrica una bomba, né come si spara un fucile. Ci parlavano di sconosciuti: Gramsci, Salvemini, Gobetti, i Rosselli; chi erano? Esisteva dunque una seconda storia, una storia parallela a quella che il liceo ci aveva somministrata dall’alto? In quei pochi mesi convulsi cercammo invano di ricostruire, di ripopolare il vuoto storico dell’ultimo ventennio, ma quei nuovi personaggi rimanevano “eroi”, come Garibaldi e Nazario Sauro, non avevano spessore né sostanza umana. Il tempo per consolidare la nostra preparazione non ci fu concesso: vennero in marzo gli scioperi di Torino, ad indicare che la crisi era prossima; vennero col 25 luglio il collasso del fascismo dall’interno, le piazze gremite di folla affratellata, la gioia estemporanea e precaria di un paese a cui la libertà era stata donata da un intrigo di palazzo; e venne l’8 settembre, il serpente verdegrigio delle divisioni naziste per le vie di Milano e di Torino, il brutale risveglio: la commedia era finita, l’Italia era un paese occupato, come la Polonia, come la Jugoslavia, come la Norvegia. In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più disperazione che speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci. Ci separammo per seguire il nostro destino, ognuno in una valle diversa.
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