PARIGI - Settembre 1977: la redazione di Charlie Hebdo (Photo by Roger Picherie/Paris Match via Getty images)
Philippe Lançon, La traversata (edizioni e/o) Trad. di Alberto Bracci Testasecca
Mentre noi hashtaggavamo inferociti #JeSuisCharlie, in molti casi senza aver mai sentito prima il nome della rivista satirica francese né tantomeno averne letto un numero, Philippe Lançon era in una camera d’ospedale con un buco nella mascella. Un terzo del suo volto era sparito.
Lui racconta di non essersene reso conto subito, e che tutto quello che ricorda di quella riunione di redazione finita in attentato terroristico è l’essersi ritrovato steso per terra, con una guancia sulla moquette, dopo aver mangiato dei biscotti. Di fronte a lui c’è un collega morto, gli si vede il cervello, e solo quando qualcuno gli passa un telefono davanti Lançon riesce a specchiarsi per un secondo, e a realizzare che gli manca metà faccia. La traversata è uscito in Francia nel 2018, dove ha vinto il premio Femina e quello Renaudot, e arriva ora in Italia per e/o tradotto da Alberto Bracci Testasecca. È un libro colto, pieno di pezzi di storia di Francia e di vita del suo autore, critico culturale per Libération e Charlie. Lançon parla di giornalismo, di critica, di cerchie di intellettuali e di satira, ma parla soprattuto del suo corpo, del personale medico, di chi entra ed esce dalla sua stanza – il fratello, i genitori, l’ex moglie, la fidanzata, i colleghi – e dei campanelli suonati dai pazienti che a un certo punto della notte lo riportano alla brutalità della sua situazione. Riflette spesso su quello che gli stivali neri dei fratelli Kouachi hanno cancellato: 12 colleghi, tanto per iniziare, e un certo modo, molto europeo, molto francese, di sentirsi al centro del mondo. Non c’è rabbia nel libro di Lançon, semmai un’ironia amara molto diversa dal nichilismo gaudente di Charlie. L’intellettuale è immobilizzato, privato della parola e costretto a cercare nuovamente il senso di tutto quello che lo circonda: a volte prende in giro la sua incredibile voglia di vita, ma in realtà è sollevato che, almeno quella, nessuno l’abbia cancellata. (Silvia Schirinzi)
R. O. Kwon, Gli incendiari (Einaudi) Trad. di Giulia Boringhieri
Nata in Corea del Sud e cresciuta negli Stati Uniti, R.O. Kwon ha impiegato esattamente 10 anni per scrivere questo libro, una storia d’amore tra due teenager disillusi – il bravo ragazzo Will che, dopo aver investito tutta la sua giovinezza nella preghiera e nella religione, improvvisamente ha smesso di credere (un’esperienza che lo accomuna all’autrice, che dice di aver iniziato a scrivere il libro per indagare la sua crisi di fede) e l’indisciplinata, bellissima Phoebe, ex aspirante pianista che ha rinunciato al suo sogno di diventare un genio musicale. Un libro velocissimo, che somministra a un lettore ignaro, che fin dalle prime pagine si ritrova appassionato a una storia d’amore alla Dawson’s Creek (Kwon dice di aver imparato come si comportano i teenager americani proprio guardando quella serie), illuminanti riflessioni sulla fede, il fondamentalismo e l’ideologia. La miccia che scatena la catena di eventi che condurrà all’esplosione finale è la comparsa del misterioso John Leal, capo di una setta religiosa del college, che racconta di essere stato rinchiuso in un campo di prigionia, torturato e costretto ad assistere a violenze impensabili e convince Phoebe ad entrare a far parte del gruppo. A unire i brevi capitoli è il tema ricorrente del fuoco e dell’incendio, inteso anche in senso metaforico, come la capacità degli esseri umani di infiammarsi per qualcosa o per qualcuno e poi spegnersi all’improvviso. Gli incendiari è bastato a convincere il New York Times a inserire R.O. Kwon (che scrive per il New York Timesstesso ma anche per il Guardian, The Paris Review, Buzzfeed e altri) tra le scrittrici più interessanti e innovative degli ultimi anni. (Clara Mazzoleni)