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Vita e morte del monopattino da Toninelli a Salvini

Da simbolo della smart city a oggetto di scontro politico: breve biografia del più divisivo dei mezzi di trasporto.

di Stefano Piri

Nel suo ultimo film Il sol dell’avvenire c’è un momento in cui Nanni Moretti fa il verso alla sequenza della Vespa in Caro Diario («c’è una cosa che mi piace fare più di tutte…») veleggiando per le vie di Roma in monopattino elettrico. È una scena che si può vivere in molti modi: easter egg dolciastro, bonaria autoparodia, o anche – la mia lettura preferita – monito sulla nostalgia, che è sempre, prima d’ogni altra cosa, un po’ ridicola.

Un anno dopo l’uscita del film, con un carpiato emblematico di questi tempi convulsi, quello che il regista romano usava come significante di una contemporaneità sgraziata rischia di diventare, a sua volta, modernariato dell’anima. Il monopattino potrebbe sparire per legge dalle nostre strade, non per proscrizione diretta ma – un po’ come Al Capone che alla fine fu incastrato per evasione fiscale – per un arzigogolo: il nuovo codice stradale – una stele manzoniana di colpe, aggravanti, moniti e castighi che si potrebbe utilizzare come test di Rorschach per mappare le più profonde e oscure pulsioni del governo – prevede infatti l’obbligo del casco. Una disposizione forse assennata, con gli incidenti anche mortali in aumento esponenziale di anno in anno, ma talmente poco pratica che a quanto pare potrebbe indurre i grandi player del settore, in particolare quelli del noleggio e dello sharing, a ritirarsi in buon ordine.

Ci mancheranno? Se Hegel vide lo spirito del mondo in Napoleone a cavallo, noi possiamo dire di aver intravisto quello del decennio dell’Expo in certi milanesi in monopattino: un’efficienza inesorabile, fondamentalmente molesta, sebbene non più rumorosa del ronzio di una zanzara. Brutto e funzionale come la cartoleria da ufficio, costringe il suo utilizzatore a una postura ieratica, che può essere autorevole o sofferente a seconda del grado di adesione del soggetto al sistema di valori rappresentato dal monopattino stesso: l’aziendalizzazione dei marciapiedi, la diffusione alla via pubblica di un senso di moderato stress competitivo, che darwinianamente minaccia la lentezza, l’ingombro, l’inefficienza.

Ma il monopattino è stato anche il simbolo di qualcosa di più significativo, perfino nobile, di un’idea di mobilità urbana sostenibile, del concetto pervasivo e inafferrabile di “smart city”, mai riuscito davvero a staccarsi dalle slide di infiniti power point per prendere vita in tre dimensioni, di un’utopia metropolitana carbon free forse deludente rispetto a certi render con monorotaie e taxi-droni, ma proprio in quanto tale più credibile.

«Parte anche in Italia la rivoluzione della mobilità urbana sostenibile», ebbe a dichiarare nel 2019 il ministro Danilo Toninelli, vero e proprio padrino politico del monopattino in Italia, al punto che ancora oggi, tornato a fare il pendolare per una compagnia di assicurazioni tra Cremona e Milano (ci piacerebbe immaginare appunto in monopattino, l’inconfondibile profilo chiomato che ogni mattina solca le nebbie della SP 415 Paullese, invece purtroppo a quanto pare in treno), ne fa la propria bandiera. E fu poi il governo Conte II, a testimonianza della perdurante fascinazione dei Cinque Stelle per certe forme di francescanesimo hi-tech, a lanciare tra scoppiettanti ironie un “bonus monopattino” da 500 euro, che contribuì non poco alla proliferazione degli insettoni a due ruote sulle nostre strade.

Ma si sa, in Italia il progresso non tarda mai a manifestare le proprie ombre, anzi ne è spesso preceduto e sgambettato come Peter Pan. Lo spazio pubblico è spazio di tutti, cioè da noi di un latente ma furioso conflitto di tutti contro tutti, e così circa due ore dopo l’approvazione del bonus sui magazine online e sui social iniziano a spopolare geremiadi sulla prepotenza dei monopattini, che invadono marciapiedi, disarcionano ciclisti, sbriciolano alluci e causano tamponamenti con veroniche simili a quelle con cui Zidane mandava a vuoto i difensori avversari, lagnanze talvolta condite da quelle che sembrano leggende – si può ben dire – metropolitane.

Lo sharing, concetto per il quale non a caso utilizziamo un termine straniero, di un idioma invasore, diventa lo specchio delle nostre peggiori tendenze antisociali. I relitti di monopattino punteggiano il paesaggio urbano come resti di una piaga minore già dimenticata, una pioggia di rane, un raduno di Hell’s Angels imborghesiti, un’invasione aliena sventata in mezza giornata dall’Amsa. Talvolta sono semplicemente abbandonati, ma spesso vandalizzati con un accanimento sinistro, e anche affascinante: insoddisfazione per il servizio? Protesta pedonale? Puro e semplice desiderio di veder bruciare il mondo? La Scandinavia, dove del resto va detto che l’obbligo del casco ce l’hanno da sempre ma se ne fottono tutti, pare lontanissima. Il tema degli incidenti su questo tipo di mezzi però è reale: dai 564 sinistri del 2020 ai 3.365 del 2023 la tendenza è inequivocabile. Arriva quindi la carezza del legislatore, a proteggere col casco le nostre delicate, e talvolta ardenti, testoline, e in sovrappiù ad aggiungere l’obbligo di targa e assicurazione per ciascun mezzo.

«3.000 posti di lavoro a rischio», tuona all’AGI Andrea Giaretta, vice presidente per Southern and Western Europe and Middle East di Dott, un colosso del settore con 9 mila monopattini solo nel nostro Paese. E cita l’esempio di Parigi, che eliminando i monopattini in sharing – con limitatore di velocità e freni più potenti, quindi nel complesso più sicuri – non ha ottenuto altro, a quanto pare, che aumentare la mortalità. Le beghe italiane, per complesse che sembrino in partenza, alla fine si prosciugano tutte in un pendolo tra queste due angosce primarie della psiche nazionale, in rigoroso ordine crescente di gravità: morte e disoccupazione.

Il tema, come si suol dire, è ormai politico. Salvini promette di far sparire i monopattini dalle nostre strade, col piglio del sindaco di Gotham City quando parla della criminalità, Joker-Toninelli dalla sua carrozza di seconda classe promette battaglia, e ne approfitta per far sapere che la politica non gli manca per niente, si capisce, mai stato così felice come da quando è tornato a fare l’assicuratore, ma molte persone – in particolare persone in monopattino – gli fanno sapere che sentono la sua mancanza nelle istituzioni. Nel frattempo entrambi i fronti srotolano le giurisprudenze, e mormorano di sentenze della Corte Europea che “parlano chiaro”: segnale pessimo.

Immagine di copertina: foto di Thierry Monasse/Getty Images