Attualità

Le Quirinarie di Studio

Appunti per probabili e improbabili futuri Presidenti della Repubblica in ordine sparso, visto che se ne parla. Tutti i nomi proposti da Michele Masneri su queste colonne durante il mese scorso, un divertissement quirinalizio.

di Michele Masneri

Nel suo discorso di fine anno, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha formalizzato la sua intenzione di lasciare il Quirinale, ufficializzando ciò che si sapeva già da qualche tempo. Nel corso del mese di dicembre il nostro Michele Masneri ha tratteggiato i profili di alcuni più o meno (o, in alcuni casi, per niente) papabili a succedere all’ex migliorista. Per chi se li fosse persi li riuniamo qui in una singola pagina: si va dall’«ancora fichissimo» Claudio Martelli al kulturkritiker Alberto Arbasino, passando addirittura per Renato Pozzetto e il “guercio” Massimo Carminati.

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Luigi Zanda

Uomo d’ordine. Luigi Enrico Zanda Loy, capogruppo Pd al rottamando Senato della Repubblica, settantadue anni, figlio di Efisio Zanda Loy, detto «il gelido», già prefetto di Nuoro e Genova, poi celebre capo della Polizia negli anni Settanta. Zanda figlio, detto invece «il cernia», per la chioma compatta, si laurea in legge e poi approda all’ufficio legale dell’Iri (per i più piccini, conglomerata pubblica che faceva politiche economiche, panettoni e automobili di Stato). Poi braccio destro di Francesco Cossiga al ministero degli Interni e poi a Palazzo Chigi durante il rapimento Moro (mentre Romano Prodi, secondo l’abusata leggenda, faceva le sedute spiritiche). Appartenente alla più misteriosa delle aristocrazie italiche, quella sarda, se avesse una gobba, avrebbe una scatola nera di tutto rispetto. Invece è molto diritto e distinto. Fa baciamani perfetti.

Ottimi rapporti con quel che resta dei salotti romani e col capitalismo più pensoso e progressista (è stato consigliere d’amministrazione e vicepresidente del gruppo Espresso, è stato l’unico politico a presenziare agli ottant’anni di Carlo De Benedetti, di cui è amico, nella deep Langa). Ottimi rapporti anche con Francesco Rutelli, che lo incaricò a presidente e ad della macchina del Giubileo. Ferocemente antiberlusconiano – è stato uno dei principali fautori del voto palese per la decadenza del Cav – è però renziano ante litteram, con una proposta di legge per la valutazione dei dipendenti pubblici, e recentemente si è schierato a favore dell’introduzione della responsabilità civile dei giudici.
Al bar del Senato mangia sobriamente al bancone, spesso piattini molto sobri di crescenza. Fino a pochi mesi fa abitante del romano rione Monti, poi trasferitosi al più normcore Corso Vittorio Emanuele. Ha una Panda come il sindaco Marino: ma non prende multe.

 

Barbara Palombelli

Centrista, tendenza sampietrino. Sulla sua rubrica del Foglio (l’Osservatrice romana) si scaglia contro le pratiche segregazioniste del sindaco Marino, reo di deportare le auto fuori dal centro storico evocando antenati illustri scappati dal Tridente con le prime feroci pedonalizzazioni. Rivorrebbe la prima repubblica, piazza Navona con le auto, e forse anche il Papa re. Ha cominciato all’Europeo diretto da Mario Pirani, poi al Giornale, Panorama, Corriere e Repubblica. È stata licenziata da Domenica In dopo un articolo antipatizzante su Mastella. Cita spesso i suoi antenati, tra cui dei papi. Quando Rutelli era sindaco, le espropriò alcune terre di famiglia sull’Appia Antica. «Quando parlo con lei di Francesco Rutelli non so mai se sto parlando con la moglie o con la notista politica che da trent’anni conosce come le sue tasche il palazzo romano» scrive Bruno Vespa nel suo Donne di cuori. Come coi Clinton, si avrebbero «due presidenti al posto di uno». Ne soffrirebbe naturalmente Capalbio, a cui lo spostamento della coppia presidenziale alla tenuta di Castelporziano toglierebbe una delle presenze fisse dell’Ultima Spiaggia (lei in costume due pezzi e cappello ad ampie falde, lui in slippino sottile).

Ha detto a Claudio Sabelli Fioretti: «Facendo la giornalista sono entrata al Quirinale un miliardo e mezzo di volte. E se Dio vuole preferisco andare al cinema o a Trastevere. Quando mi dai un paio di jeans, una camicetta, un pezzo di pizza al taglio e un po’ di sole in una piazza di Roma, mi basta e mi avanza». Però già nel 2006 prese due voti per l’elezione al Quirinale (al terzo scrutinio). Ha un suo lato irregolare. Se «la politica italiana è la prosecuzione dei licei romani con altri mezzi» (copyright Andrea Minuz), lei ha fatto lo scientifico Righi, e non il classico Tasso («perché c’erano più maschi»). Dice: «Della destra mi piace la fiducia negli italiani. Una cosa che la sinistra sembra aver dimenticato»; e «mi piacciono i cattivi. Mi piaceva Craxi». È cavaliere al merito della Repubblica (su iniziativa di Francesco Cossiga). Da non sottovalutare la competenza giuridica assente in altre candidate, derivante dalla conduzione di Forum. Ha un alleato in Roberto D’Agostino («Sono affetto da palombellismo. È la mia ideologia politica, il cinismo romano – perché escludere, quando si può aggiungere? – l’andreottismo letta-letta, tra destra e sinistra, meglio il centro-tavola, la convinzione che qualsiasi problema si può risolvere attovagliati al Bolognese»). Ha quattro figli. Il primo scrive su Dagospia. Ha scritto che Renzi sembra Mariotto Segni. Purtroppo ha le Hogan.

 

Claudio Martelli

Ragazzo immagine. Settantuno anni, nato a Gessate (Milano), giovane assistente di Lettere alla Statale viene cooptato da Bettino Craxi nel 1976, a Roma, come poi Silvio Orlando nel Portaborse di Nanni Moretti (1991) a lui ispirato. Alloggia all’hotel Raphaël: qui, nella imprescindibile autobiografia Ricordati di vivere (Bompiani, 2013), memorie di fuorisede in tempi pre-casta, con Martelli che torna dalle notti brave nella sua stanza singola mentre Bettino ha la suite di sopra, e accanto c’è Francesco Forte che scrive la sua Scienza delle Finanze. Poi Martelli fa il ministro della Giustizia, e soprattutto il locatario di una villa sull’Appia Antica, vicini di casa Valentino e Lollobrigida e Zeffirelli, villa scelta perché «a un passo dall’aeroporto di Ciampino», per voli di Stato molto frequenti in tempi pre-spending review.

«Un risparmio di tempo per me che dovevo volare come minimo due volte la settimana. Per l’affitto e per le spese ci volevano molti soldi, ma anche noi eravamo molti e benestanti, pieni di fantasia e di amici». E di scenografi: la villa viene arredata «su bozzetti dello scenografo della Scala Gianni Quaranta», e di Mario Garbuglia, collaboratore di Visconti. Gli arredi sono del magazzino “Dedalo”, che rivende pezzi di set di Cinecittà. («Che splendida sensazione vivere tra i mobili e i tendag­gi di Senso e del Gattopardo! Che bello lavorare e vivere insieme con gli amici che sono compagni di lavoro, alter­nare ozii e negozi, sentirsi padroni di sé e utili agli altri!»). Il copyright Appia dei Popoli è di Ottaviano Del Turco. Le spese sono invece a carico di Rosi Greco, morosa di lotta e di governo, erede di un gruppo romano della maglieria. Lei nelle memorie martelliane è «la discola»: «L’aria da discola, l’andatura da cerbiatto in bilico sulle lunghe gambe, incedeva elegante, bellissima nel suo tubi­no nero, al braccio di un giovin signore. Vedendola scin­tillare tra i tavoli del ristorante e gli sguardi degli uomini, rimasi incantato col cucchiaio per aria». Claudio Martelli è ancora fichissmo, perché, come sostiene Bret Easton Ellis, «ognuno di noi resta bloccato all’età in cui accede alla celebrità». Ha diretto anche MondOperaio, ma, secondo una celebre battuta, riteneva fosse una bestemmia.

 

Marianna Scalfaro

Cattolica molto adulta. Sessantotto anni, la «signorina di ferro», come presero a chiamarla gli uscieri del Quirinale, mise piede alla Presidenza insieme al padre il 25 maggio 1992 in un’elezione particolarmente imprevedibile in epoca di trattative che non osavano ancora dichiarare il loro nome. Figlia-badante, originariamente la “first daughter” si chiamava Gianna Rosa ma venne ribattezzata col nome della madre, che morì 17 giorni dopo averla data alla luce. Vegliò poi «silente ma non assente» sul settennato del papà Oscar Luigi, come disse in una rarissima intervista a Marzio Breda del Corriere. Al Quirinale «capii subito che avrei rischiato d’essere schiacciata dai formalismi. Mi sentivo ripetere di continuo: Si è sempre fatto così. Lì dentro erano pezzi storici perfino i tovaglioli rammendati e i centrotavola cui mancava solo il nastro per il caro estinto».

Atmosfere da Piero Chiara e Lattuada, dunque, in cui la Signorina si muove come una sorella Tettamanzi di Venga a prendere il caffè da noi, tra cimeli, culti, le mele di Einaudi, minestrine, e tante preghiere, e naturalmente «gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica». In attesa di un Ugo Tognazzi ispettore delle Entrate che non venne mai a conquistarla, se non nelle sembianze misteriche di Adolfo Salabé, architetto-dandy e proprietario di boutique-hotel, gentiluomo di Sua Santità in quota Servizi. Con lui venne fotografata «mentre andavamo a scegliere delle tappezzerie per il Quirinale», e si fecero molte illazioni, e la Signorina restò molto male, mentre forse era solo il tentativo disperato di rinfrescare il Palazzo, con le sue tubature dei condizionatori a vista e i rifacimenti repubblicani con linoleum (se il referendum del ’46 fosse andato in altro modo, però, chissà che interior decoration, vista la passione di Umberto II per passamanerie e luci calde e fredde). A Giovanni Paolo II che la interrogava se la sua religiosità fosse in linea con quella paterna, ebbe a dire che «non siamo omologati, Santità». Dopo il settennato con papà, vive in zona residenziale-lugubre di Forte Bravetta. Ha ancora la scorta.

 

Luciano Violante

Riserva della Repubblica. Non ce l’ha fatta a essere eletto alla Corte Costituzionale; forse non ce la farà neanche al Quirinale. Magistrato a Torino in gioventù, fece eseguire la prima condanna a un signore che aveva detto «piciu» a un vigile urbano. È stato ventinove anni alla Camera («più di quanto è durato il fascismo»). «Sono nato in Etiopia, in un campo di concentramento inglese. Mio padre l’ho conosciuto quando avevo cinque anni, me lo presentarono il giorno di Pasqua del 1946. Alla stazione». Alla definizione di «garantista» preferisce quella di «legalitario». Ha appena pubblicato un saggio per Einaudi, Il dovere di avere doveri, contrappasso e controcanto a quello di un altro papabile, Stefano Rodotà (Il diritto di avere diritti, Laterza, 2013). Marco Travaglio lo odia e lo definisce «il participio presente». Ha casa a Cogne.

 

Alberto Arbasino

Riserva della Repubblica. Il nostro scrittore e kulturkritiker più intelligente, con curriculum da grand commis più di tanti professionisti: laureato e assistente in diritto internazionale con Roberto Ago, già esperto di diritto del Mare (potrebbe dare una mano sul caso Marò). Studente estivo a Harvard ai seminari di Henry Kissinger e George Kennan, è stato anche deputato, per una legislatura, tra gli indipendenti del partito Repubblicano (in commissione Cultura, finì poi in depressione, come biasimarlo). Se non presidente, almeno senatore a vita, questo lo pretendiamo. Sul serio.

 

Donna Vittoria Leone

Femme fatale. Già consorte del più sputtanato dei nostri presidenti, l’unico che abbia però ispirato narrazioni perfide e bestseller in epoche pre-House of Cards, in Giovanni leone, la carriera di un presidente di Camilla Cederna, poi ritirato e vituperato; lì, storie d’amori minorili; il matrimonio «portato», come si dice a Napoli, tra il papà della nubenda diciassettenne e quello dell’avvocato e giurista in ascesa, trentasettenne. Al Quirinale, poi, camere separate, boschi di querce secolari disboscati per far posto a una piscina e a un eliporto nuovo di zecca «per far atterrare il presidente Ford» (mentre Nixon era atterrato in pieno ’68 direttamente su piazzale del Quirinale chiuso al traffico). E macchine del fango pre-Photoshop; pacchi con foto compromettenti di Donna Vittoria inviate ai deputati per posta; e una crociera sulla motonave Tiziano in acque greche nel 1971 alla vigilia dell’elezione al Colle viene infiltrata da agenti del Sifar che puntano allo scoop di Donna Vittoria in déshabillé, o magari con qualche marinaretto, ma lei si corica sempre molto presto, e gli unici scoop sono il presidente in pectore a cantare canzoni e raccontare barzellette al tavolo del capitano. Poi un Quirinale delle Libertà, con «hostess squillo della agenzia Hostess Club», «ex vedettes di Macario», e naturalmente «i tre monelli», Mauro, Paolo, Giancarlo, figli presidenziali (e un celebre motoscafo all’Argentario chiamato Mapagià, dalle loro iniziali). Mauro, detto «’o principino» o «il vicepresidente», ordinario di diritto penale e insignito della Légion d’Honneur a 25 anni, sempre presente agli incontri politici del padre. Quando Moro (presidente del Consiglio) sale al Colle, si ritrova il ragazzo. «Ma che, nun lo volite, o guaglione?», dice il Presidente della Repubblica. Moro: «No».

 

Massimo Carminati

Anche noto come «er guercio» o «er cecato», causa ferita in conflitto a fuoco e successivo look alla Google Glass. Finalmente un uomo di destra al Quirinale, a suggellare la pacificazione nazionale, nel solco del famoso discorso di Violante sui ragazzi di Salò del 1996. Con expertise guadagnati poi sul campo, in trattative Stato-mafia veramente efficaci e senza tentennamenti.

 

Daniela Di Sotto, già Fini

Ah, se parlasse. Nell’ora delle cronache romane marziane, è l’intervista che tutti sognano e nessuno (probabilmente) avrà. Perché Daniela Di Sotto, già Fini, conserva un codice d’onore fascio-bon ton e mai ha parlato o parlerà dei camerati romani che sbagliano; lei però li conosceva bene, in quanto già addetta alla tipografia del Secolo d’Italia nella romana via del Boschetto, oltre che già fidanzata e sposa di uno Spartaco Mariani alias Folgorino.

Folgorino dirà poi all’Espresso di averla conosciuta alla sezione Msi del Quadraro, lei «tosta ma anche molto femminile; insomma una de bosco e de riviera». Folgorino poi sarà sostituito nel cuore nero di Daniela da Gianfranco Fini (nella descrizione del rivale, «vestiva in trench o in cappotti di pelle nera. Era emarginato, distaccato. Diceva di abitare a Torre Argentina e invece abitava a Monteverde. Pensavamo fosse una spia della polizia. Una sera volevamo dargli una lezione, lui scappò e si nascose in un sottoscala, mi dice: “che colpa ne ho se non ho il vostro coraggio?”» – ma forse Folgorino è accecato dalla gelosia).

Daniela Di Sotto gioca a calcio a cinque, è iscritta al Circolo Canottieri Lazio (quello di Gianfranco Funari alias Cesare Previti in Simpatici & Antipatici, film di Christian De Sica del 1998), mangia solo «cibo poco condito, pesce, verdura e frutta», secondo un’intervista del 2007. Segreto di bellezza? «Fumo poco e mi sottopongo a punturine di vitamine». Quanto vale il sesso per lei? «Il 45%”. Ray Ban a goccia, jeans e pelliccia all’Olimpico, abbronzatura da Lampados, Daniela (per tutti: Danielona) Fini ha conosciuto l’apoteosi in calessino da parata a Londra, quando il marito era ministro degli Esteri in missione presso la regina; «è sempre stata la nostra coatta preferita, è una vera, nel Msi e nella Lazio ci ha sempre creduto, e ora sull’ex marito è impeccabile, non dice una parola». (Maria Laura Rodotà).

 

Romano Prodi

Ciclista. Due volte presidente del Consiglio, ministro dell’Industria, presidente dell’Iri, presidente della Commissione europea. Ha prestigiosi incarichi internazionali, e ogni volta che dice d’essere definitivamente fuori dalla politica italiana qualcuno lo prende in parola.

 

Silvia Costa

Con quel curriculum può dire ciò che vuole. Già giornalista del Popolo, Consigliere comunale a Roma, dal 1976 al 1985, viene eletta alla Camera dei deputati per la Democrazia Cristiana in tre legislature, dal 1983 al 1994. Attiva in varie commissioni (Interni, Cultura e Vigilanza Rai). Con il Governo Ciampi è Sottosegretario all’Università, Ricerca Scientifica e Tecnologica. Presiede per diversi anni fino al 2000 la Commissione Pari opportunità del Consiglio dei ministri; parlamentare europeo dal 2009. Ha aderito al Pd nel 2007. Democristiana in purezza, è una politica con la faccia da presentatrice. È fiorentina, potrebbe contare qualcosa.

 

Salvatore Rossi

Intellettuale della Magna Grecia. Direttore generale della Banca d’Italia da un anno, dopo essere stato a capo del prestigioso Servizio Studi; una laurea in matematica all’Università di Bari, diversi libri poco polverosi pubblicati presso l’editore organico Laterza. Membro del consiglio di amministrazione della Fondazione Giovanni Agnelli; ha fatto parte del Gruppo dei saggi in materia economico-sociale ed europea istituito nel 2013 da Napolitano. Uomo spiritoso, di forti letture; tendenza centrosinistra, non si sa se con trattino o senza. Probabilmente dalemiano. I suoi detrattori lo accusano d’essere troppo poco tecnico e molto immaginifico (però in definitiva Ciampi era laureato in Lettere). Sarebbe il primo presidente coi capelli dai tempi di Cossiga.

 

Chicco Testa

Diminutivo. Scuole dalle Orsoline, poi dai Salesiani, Enrico Testa da Bergamo è il Bel Ami calato dalla Macroregione che si è impossessato della Capitale a colpi di gin tonic. Ha battuto ogni record di presidenze: Enel, Assoelettrica, Roma Metropolitane (oltre che consigliere di amministrazione di decine di aziende). Giornalista, deputato (nel Pci-Pds), è stato promotore del no al nucleare nel referendum del 1987, oggi è nuclearista convinto. Ha inventato Legambiente, e contribuito alla diffusione della camicia bianca molto prima di Renzi. Laureato in filosofia alla Statale di Milano (come Claudio Martelli), nella Capitale sfiancata dalle inchieste ma soprattutto dalla fine di Maria Angiolillo il suo è probabilmente il salotto più importante. «Enrico Berlinguer si iscrisse giovanissimo alla direzione nazionale del Pci, diceva Giancarlo Pajetta, Chicco Testa si è iscritto giovanissimo alla classe dirigente italiana» secondo Giorgio Meletti. Fuma molte sigarette, come Donna Clio Napolitano. Dunque sarebbe una perfetta first lady nel segno della continuità, a fianco del vero presidente, la fidanzata sellerona ed espansiva Annalisa Chirico.

 

Bruno Tabacci

Per una riconciliazione nazionale con la DC (forse superflua, a questo punto). Già segretario della Democrazia cristiana lombarda, nel 1987 divenne presidente della regione su indicazione di De Mita. Incappato in Tangentopoli, due volte indagato, due volte assolto. Cattolico adulto, ogni tanto viene fotografato in Ferrari con Angiola Armellini, “lady mattone”, figlia di Renato, costruttore romano, una specie di Romolo Catenacci di C’eravamo tanto amati. Elegante e roccioso insieme, è lo Sean Connery della Balena Bianca.

 

Mario Sarcinelli

Per una riconciliazione nazionale col Porto delle nebbie. Da vicedirettore generale e capo della Vigilanza della Banca d’Italia, venne fatto arrestare nel 1979 da una Procura di Roma insolitamente attiva. Aveva mandato gli ispettori al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, e la cosa non piacque né ad Andreotti né a Sindona né a Gelli.

 

Renato Pozzetto

Per una riconciliazione nazionale con la Macroregione. Il nostro Bill Murray di Laveno Mombello, potenzialmente. Ha rappresentato al cinema tematiche scomode in anticipo sui tempi, anche: l’alienazione urbana e il rapporto tra città e mondo rurale (Il ragazzo di campagna, 1984); la condizione dei senzatetto e l’aumento delle disuguaglianze (Un povero ricco, 1983) e il rapporto tra comunità gay e proletariato politicizzato, ben prima di recenti pellicole inglesi (La patata bollente, 1979).

 

Dario Franceschini

Per una riconciliazione nazionale con la barba. Ferrarese, e poi esquilino, Dario Franceschini, già numero due alle primarie del Pd 2009, è anche sudamericamente scrittore, autore di romanzi come Nelle vene quell’acqua d’argentoLa follia improvvisa di Ignazio Rando, e risiede da poco in una delle traverse di via Merulana dedicate ai poeti (Leopardi, Alfieri, Foscolo). Molto stimato dal quartiere, lo si vede felice insieme alla neosposa in democratiche Conad e Oviesse. In caso di ascesa al Colle, in molti avrebbero già pronto il pezzo: dal presidente monticiano (Napolitano) al normcore esquilino (altri preferirebbero esprimersi sulla consorte esuberante, che riporterebbe antichi fasti alla Vittoria Leone). Pare che la Lega punti seriamente su di lui. Noi ci speriamo comunque, per far salire le quotazioni del quartiere.

 

Giancarlo Caselli

Per una riconciliazione nazionale con i terrorismi, le trattative, i pool, le mani pulite, i maxiprocessi, i no tav. Già in pole position nelle Quirinarie 2013 dei Cinquestelle: con 1761 voti su 28.518, tra Romano Prodi e Dario Fo.

 

Edwige Fenech

Per una riconciliazione nazionale col corpo delle donne. Nata in Algeria da padre maltese e mamma di Ragusa, attrice in pellicole ormai iconiche in cui ha interpretato il variegato mondo delle professioni femminili (la Pretora, l’Insegnante, la Poliziotta, la Soldatessa, la Dottoressa) le cui istanze potrebbe ben rappresentare al Quirinale. A Claudio Sabelli Fioretti che le chiedeva se le desse fastidio rivedere i suoi film: «Sta scherzando? Mi hanno pagato per farli».