Attualità

Le cose preferite – speciale Gran Bretagna

Gruppi musicali, riviste, oggetti, elementi della cultura o del paesaggio che amiamo del Regno Unito, e che ameremo ancora, nonostante Brexit.

di Aa.Vv.

Le cose preferite è una nuova rubrica: di tanto in tanto una firma di Studio sceglierà alcune “cose” a cui è legato, un frutto o un tipo di vestiario o un’esperienza, da descrivere in poche frasi. In un’occasione storica come il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, abbiamo pensato a una puntata speciale, tutta dedicata al prossimamente ex Paese dell’Unione e fatta da più autori.

Schermata 2016-06-23 alle 18.16.39

Pet Shop Boys

«Addìo my darling, goodbye my love», faceva la canzone di Alberto Sordi in Fumo di Londra (Alberto Sordi, 1966). Lui, antiquario colto ed esperto, vive nell’idolatria di pipe e bombette e questo si aspetta di trovare, a Londra. Mai avrebbe immaginato di finire in un party scalmanato di giovani alieni. “Che impressione le fa la nuova Inghilterra?” gli chiede una ragazza con la testa arancione, “Eh, un po’ a disagio mi sento”, risponde lui, bastone alla mano, bombetta in testa, e una faccia ampia e sincera. Ecco, la Gran Bretagna ci ha regalato il “disagio”. E i Pet Shop Boys. È così che dovevano sentirsi, “a disagio”, gli italiani che per strada, o nel corridoio di casa, incrociavano un “capellone”. I giovani italiani, negli anni sessanta, non sanno come essere giovani. Come fare a muovere il bacino, che musica suonare, che vestiti indossare. E così guardano all’Inghilterra. Nel 1965, Panorama scrive: «I due popoli, quello italiano e quello inglese, hanno vicendevolmente tratto ispirazione dal pensiero, dalla cultura, dai costumi, dell’altra Nazione, per arricchire il loro patrimonio intellettuale, spirituale e civico». La minigonna per una Bambù Bag. I Pet Shop Boys, per esempio, negli anni ottanta volevano diventare famosissimi in Italia e condurre una vita normale in Inghilterra, ma non gli è mai riuscito.  Nonostante il successo di Paninaro, con quel coro “oh-oh” che piace tanto agli italiani. (Silvia Vacirca)

Schermata 2016-06-23 alle 18.21.40

Dazed&Confused, e non solo

L’editoria di moda made in Uk è un faro per il suo corrispettivo italiano: intanto perché, in generale, il concetto di “femminile” è molto meno “rosa” che da noi e in altri Paesi, e poi perché riviste come Dazed&Confused e i-D Magazine – che femminili non sono mai stati – oppure ancora AnOther Magazine e Man About Town, hanno contribuito a forgiare la nostra concezione di editoria di ricerca e ci hanno regalato un altro modo di guardare alla carta. Ciò è tanto più vero se guardiamo alla loro evoluzione e a come hanno affrontato il passaggio al digitale, dove hanno dimostrato di sapersi riformulare con intelligenza. Nel caso particolare di Dazed, fondato da Jefferson Hack e Rankin nel 1991, se tagli significativi sono stati fatti alle edizioni cartacee, ciò non ha influito sulla qualità, mentre un grande impegno è stato profuso nella creazione dei contenuti digitali: dazeddigital.com è dal 2006 un punto di riferimento per chi legge di moda, cinema, musica e cultura pop. Lo stesso dicasi per AnOther Magazine, semestrale lanciato nel 2005 e parte del Dazed Group, che ha scelto con lungimiranza di giocare la carta dell’approfondimento e riesce a farlo in maniera brillante anche sul web. E se in molti hanno storto il naso al passaggio di i-D Magazine sotto Vice Media, l’influenza del magazine fondato nel 1980 da Terry Jones è innegabile e costituisce oggi un portfolio incredibile di fotografi, modelle e modelli, stylist e autori. Dalla recente ondata di riviste “brutte per protesta” al lavoro di integrazione fra contenuto editoriale e sponsorizzazioni, come quello di POP Magazine e Louis Vuitton, i magazine del Regno Unito ci hanno insegnato un sacco di cose, in primis come promuovere quello che c’è di nuovo in giro. Tutte queste riviste hanno sempre avuto uno sguardo aperto, colorato e trasgressivo sul mondo e il sentirsi europei è parte della loro identità. (Silvia Schirinzi)

Sir David Attenborough At Preview Of Amazing Rare Things Exhibition

David Attenborough

Dev’essere colpa di tutto il Kipling letto da bambino se nei primi cassetti del mio archivio mentale chiamato “immagini della Gran Bretagna”, dopo le stout, gli Who, i mari freddi e i cottage e poche altre cose, ci sono le tigri. Dev’essere colpa di Kipling e del colonialismo e, nell’adolescenza, di una raccolta semi-dimenticata come Trilogia Malese, l’unione di tre romanzi di Anthony Burgess ambientati nell’umido sud-est asiatico tra valori occidentali che si arrugginiscono, meltin pot e tanto esotismo. Più recentemente ancora potrei incolpare il film Vita di Pi, ma oggi, se penso a cosa unisce il mondo colorato della fauna esotica a un’isola austera e grigia la risposta è: la voce di David Attenborough, unita alle immagini naturalistiche dei documentari Bbc. La serie Life è come quel libro che ogni tanto riapri soltanto per leggerne due, tre pagine, o quel film che riguardi per un paio di minuti, cercando esattamente quelle battute che vuoi e sai ripetere. La voce di David Attenborough è profonda e calma. Sembra che l’aggettivo «vellutato» sia stato creato a partire da questa tonalità. In serate o pomeriggi pigri schiaccio play e guardo una raganella deporre le uova in una foglia umida di rugiada nella foresta del Borneo, sono sul divano di casa e lo so, non ho la sensazione di essere teletrasportato lì, ma va bene, sono al sicuro, un po’ perché non c’è nessuno che ne sappia più di David Attenborough, un po’ perché davanti al tono di quella voce sono un bambino che vuole ascoltare e guardare e meravigliarsi e imparare. È una voce che funziona meglio senza mostrare il suo volto, è la voce di un saggio, da un lato, e di un creatore immanente, dall’altro. (Davide Coppo)

Gold Shirley

James Bond

Sì, va bene la Brexit, ma volete mettere il referendum su James Bond? Amiamo l’Inghilterra (cit.) anche per questo: perché, a ogni nuova stagione, è capace di farci credere che l’agente al servizio segreto di Sua Maestà sia ancora rilevante. Ebbene, lo è. Al pari dello shortbread, degli zigomi di Kate Moss, delle All Saints (parlandone da vive: l’ultimo singolo è bellissimo), eccetera. Tutte le volte ci dicono che è cambiato, che è moderno, che è il venticello di Virginia Raggi. Il bello, invece, è il suo essere sempre così uguale, così classico, così inglese. E così classista, sessista, alcolista, con quegli impercettibili slittamenti di senso utili solo a strappare qualche titolo di giornale e a rimarcare (con somma autoironia) il conservatorismo di quell’isola: è un paese fondato sui cappellini di Elisabetta, dopotutto. Ora la partita si gioca sul piano dell’immaginario anche politico: il prossimo 007 sarà un biondino della buona aristocrazia (andava a scuola col principino William, da pochi giorni è più noto come Mr. Taylor Swift), insomma Tom Hiddleston? Oppure il roscio delle serie (perché si sa, «la tv è il nuovo cinema»), vale a dire Damian Lewis? La grande occasione arriva adesso: potrebbero finalmente ingaggiare un James Bond nero (no me par vero). Idris Elba, che al momento amiamo anche più dell’Inghilterra, diventerebbe la carta Obama da giocare agli occhi del mondo. Noi siamo sempre qui. (Mattia Carzaniga)

BRITAIN-ENTERTAINMENT-CHELSEA FLOWER SHOW

Gli alberi e Virginia Woolf

Gli alberi dell’Inghilterra sono oggettivamente migliori dei nostri: maestosi, romantici, più grandi e più alti. Sarà il clima infausto dell’isola a renderli così? In un poster appeso nella sala d’aspetto di un’azienda una volta ho letto: «Più è forte il vento più è robusto l’albero». Nell’autobus che dall’aeroporto di Gatwick mi portava Londra – un viaggio che facevo sempre all’alba, perché dormivo in aeroporto per risparmiare sul volo –  aspettavo con impazienza di gustare un’immagine che per me, ancora oggi, coincide ciò che più amo dell’Inghilterra: un largo campo piano, vuoto, con al centro un grande albero solitario. Mi piaceva andare a sdraiarmi sotto gli alberi, a Hyde Park, oppure camminare tra le loro cime, sulla passerella sopraelevata dei Kew Gardens, che contengono la più grande collezione di piante del mondo. Kew Gardens è anche titolo di uno dei migliori racconti di Virginia Woolf. In queste poche pagine Woolf ripete la parola «alberi» 5 volte.

La natura è descritta da un punto di vista ravvicinato, come in Microcosmos, il documentario del 1996 sugli insetti, e fa da mobile ma eterna cornice alla precarietà delle passioni, della delicatezza, dei rimorsi e dei dolori degli esseri umani che le passeggiano dentro, catturati in varie fasi della vita: giovinezza, vecchiaia, salute, malattia. Woolf è una scrittrice importante perché ha rivoluzionato il modo di percepire e tradurre in parole i movimenti del pensiero e del tempo, riuscendo ad avvicinarsi incredibilmente alla possibilità di descrivere la sostanza di cui è fatta la vita. In più ha riflettuto con ardore sul ruolo della donna. Non come una femminista – cosa che non era – ma come una scrittrice. Non per mezzo di affermazioni e rivendicazioni, ma attraverso un percorso tortuoso, di dubbi e riflessioni. La cosa che non si dice mai di Virginia Woolf è che è anche una grande narratrice della natura: nei suoi libri e nei suoi diari ha descritto tantissimo gli alberi, le foglie, le piante, i fiori e gli animali dell’Inghilterra, soprattutto gli insetti. Li osservava nei parchi di Londra e nei dintorni di Monk’s House, la sua casa nel Sussex, nella quale insieme a Leonard curava un piccolo, splendido giardino, che da allora viene conservato uguale. (Clara Mazzoleni)

Rain Heralds The First Day Of British Summer

Tutti i ricordi

I prati e l’Henman Hill di Wimbledon che se vuoi rifarli uguali cominci oggi e annaffi perbene tutti i giorni per i prossimi duecento anni prima di riuscirci. I raincoat perché non rompono le scatole agli altri come gli inutili e giustamente trascurati ombrelli. La parola “inbetweener” (e, per quanto ignobile sia, mi diverte pure la serie), perché quella dell’inbetweener è la condizione di tutti noi che proviamo a darci un tono. I charity shop perché adoro comprare cazzate e buttarne via altre senza sensi di colpa. I nomi delle squadre della quarta serie inglese perché mi ricordano quando a undici anni portavi l’Exeter a vincere la Coppa dei Campioni ai videogiochi. (E in tema calcio pure Brian Clough, che per me è l’idea dell’uomo inglese). Il binario 9 e ¾, a King’s Cross, perché in un’altra nazione europea ci metterebbero cinquant’anni a modificare una stazione per un fenomeno pop. Il settecentesimo che su Facebook scrive London Calling prima di partire o pubblicando le sue foto senza comunque farti antipatia. L’accento dell’unico attore inglese in una serie americana. Quando pure nei romanzi di fantascienza c’è l’ora del tè. E il fatto che tè vada bene per qualsiasi pasto. I tabloid, la pagina del cricket, la marmite (l’aceto di malto spalmabile). Il gelato non si squaglia perché fa freddo. I pub che non servono cibo e perciò ti lasciano portare dentro il cibo che vuoi. Il tatuaggio della squadra del cuore sulle braccia degli impiegati rispettabili. Marco Varvello in collegamento. E la dowager countess. (Arnaldo Greco)