Attualità

L’atlante della letteratura

Teoria e tecnica del romanzo epocale: analisi di Cloud Atlas, tra Bolaño e fantascienza. Ambiziosissimo, ma il film sarà in buone mani?

di Cristiano de Majo

Ho guardato L’atlante delle nuvole (Frassinelli 2005), per anni, almeno cinque, su una mensola della mia libreria, senza trovare la voglia di aprirlo e leggerlo, forse perché scoraggiato dalla sua palese ambizione di essere un romanzone epocale, oppure perché non ho mai sentito nessuno dire: è un libro importante, bisogna leggerlo per forza. Ed è rimasto sulla mensola, fino a quando, un paio di settimane fa, non ho visto il trailer di Cloud Atlas, mega-kolossal semi-indipendente, tratto appunto dal libro dell’inglese David Mitchell, scritto e diretto dai fratelli Wachowski e da Tom Tykwer, uscito a ottobre negli Stati Uniti e da dopodomani nelle sale italiane. Il lancio del kolossal mi ha fatto ritornare la curiosità. Giudizio sintetico a fine lettura: è un ambiziosissimo romanzone epocale. Ma anche: raggiunge livelli molto alti nella scala del puro piacere di leggere. Strano, ho pensato a lettura ultimata, che se ne sia parlato così poco in questi anni, così tanto poco. Strano non averlo letto fino a oggi.

Il libro ha una struttura ABCDEFEDCBA, dove a ogni lettera corrisponde un segmento narrativo, un sotto-romanzo. In altre parole si percorre un linea passato-futuro ABCDEF, per poi ritornare dal futuro al passato EDCBA. Una struttura simmetrica, a specchio, per cui il libro si chiude con lo stesso segmento narrativo con sui si era aperto: il segmento narrativo A, diario di un notaio americano sbarcato a metà Ottocento per ragioni di affari sull’isola di Chatham (tra Polinesia e Nuova Zelanda). La parte B, invece, è costituita da un epistolario scritto da un giovane compositore inglese del primo Novecento ospite nella magione di un malaticcio, bisbetico e mitologico compositore belga ritiratosi a vita privata. La C è una spy-story politica nella San Francisco di metà anni Settanta. Nella D si dà voce all’autobiografia di un editore truffaldino e spassosissimo nella Londra degli anni Ottanta. La E è ambientata in Corea in un futuro orwelliano, bladerunneriano, matrixiano, sotto forma di una intervista rivolta a un clone arrestato per troppa consapevolezza. Il segmento F è, infine, il racconto di un sopravvissuto in mondo post-apocalisse ritornato alla vita selvaggia.

Le storie hanno tra loro due legami. Il primo, più che altro una suggestione, è il fatto che alcuni personaggi sembrerebbero reincarnazioni di altri personaggi. Il secondo è una forma di comunicazione interna tra i segmenti: tutte le parti, esclusa la F presentato come un racconto orale, sono opere scritte o trascritte (la A è un diario, la B un epistolario, la C un romanzo, la D un’autobiografia che diventa un film, la E un’intervista ripresa), che vengono lette o ascoltate nelle parti successive (per esempio il giovane compositore della parte B viene in possesso del diario scritto nella parte A, e così via). Il problema è che sia il legame sulla reincarnazione che quello meta-narrativo non vengono sempre alla luce con soluzioni brillantissime. In realtà quello che tiene in piedi il libro nel suo insieme (perché invece le singole parti stanno in piedi benissimo) è un macro-discorso sulla natura umana, una riflessione ben calibrata su cicli storici, potere e sopraffazione.

Ma quello che rende L’atlante delle nuvole un libro da leggere, e che allo stesso tempo fa venire qualche dubbio sulla riuscita della versione cinematografica, è la sua natura di romanzo dei romanzi, perché lo stile di Mitchell, estremamente plastico e adattabile senza essere manierista, riesce nella complicatissima impresa di comporre sei romanzi-tipo con altrettante lingue: il romanzo marinaro ottocentesco conradiano o stevensoniano (A); il romanzo di formazione mitteleuropeo di Mann e Musil (B); il thriller politico anni Settanta con il giornalista-eroe a caccia di verità (Robert Redford? Dustin Hoffmann? No, Halle Berry) (C); il romanzo tragicomico in prima persona vitalistico e nichilista di ascendenza ebraico-americana, per intenderci alla Bellow (D); il romanzo di fantascienza politico e metafisico (E), e qui si potrebbe fare una lista molto lunga a partire da Asimov per arrivare a Dick; infine il romanzo post-apocalittico primitivista (F). Ovvero mette in pratica il sogno di qualunque scrittore eclettico: non scegliere un solo linguaggio, ma quasi tutti. Come può essere stata reso cinematograficamente questo pastiche stilistico che rende il libro una specie di tesi vivente del postmodernismo è una domanda su cui mi sbilancerei rispondendo: i fratelli Wachowski e Tom Tykwer non sono Quentin Tarantino. Nel senso che sì, sono bravi e sono spettacolari, ma non mi pare abbiano la necessaria cultura estetica. Un altro adattamento finito nelle mani sbagliate?

Si vedrà, intanto oltre che a interrogarmi sul perché sia diventato un kolossal semi-indipendente invece che uno dei libri da leggere di questi anni, mi è venuto da ripensare alle più importanti e ultime opere-mondo (i romanzi polifonici, digressivi, enciclopedici, epocali, ambiziosissimi), visto che L’atlante delle nuvole rientra agevolmente nella categoria. Naturalmente ho pensato a Infinite Jest e a Underworld, e ho pensato a 2666, che con L’atlante delle nuvole si spartisce qualche somiglianza. A differenza del pastiche di Mitchell, il romanzo in cinque parti di Bolaño è un capolavoro accertato, ma entrambi, oltre a essere quasi contemporanei, hanno questo preciso obiettivo: fondere il discorso sulla natura umana con una forma di culto mistico della letteratura. Entrambi, in definitiva, hanno una ambizione più universale rispetto ai pur sempre ambiziosissimi romanzoni americani succitati. Al punto che, osservando questo piccolo ma significativo campione statistico, si potrebbe concludere che le opere-mondo americane siano più sociali e più politiche (in senso lato), ma meno religiose e metafisiche rispetto alle opere-mondo non americane, e che il grande romanzo americano negli ultimi tempi si sia concentrato quasi in modo coatto sulla civiltà americana, mentre altrove, nella vecchia Europa o nelle periferie culturali dell’Occidente, c’è stata maggiore libertà di dedicarsi a temi più grandi ancora, anzi giganteschi.