Attualità

L’arte del saggio. Su Geoff Dyer

Dentro l'opera dello scrittore inglese (da poco uscito in Italia con il nuovo Il sesso nelle camere d'albergo), maestro nel campo dei saggi, meno in quello dei romanzi. In che senso uno scrittore e una scrittura possono adattarsi o meno all'invenzione, oppure alla descrizione della realtà? Riflessioni su fiction e nonfiction.

di Cristiano de Majo

Ci sono scrittori, grandi e influenti nomi della letteratura, che hanno finito con il trovare la propria vocazione non nel romanzo o nel racconto, ma nei dintorni di quello che si può definire il saggio artistico. L’apparente paradosso può essere verificato guardando anche al Novecento italiano: Arbasino, Manganelli, Flaiano per limitarsi a tre tra tanti possibili nomi. E poi naturalmente vengono in mente molti scrittori americani, i nomi che si fanno sempre a partire dai quattro o cinque maestri del new journalism. Difficile stabilire per esempio se lo stesso David Wallace, consacrato come autore del magnum opus del romanzo contemporaneo, abbia offerto risultati più brillanti nella narrativa o nel saggio letterario (io propendo per la seconda). Ma su Geoff Dyer, eclettico scrittore inglese cinquantaseienne, ci sono ancora meno dubbi. D’altra parte è lui stesso nell’introduzione alla raccolta di saggi Il sesso nelle camere d’albergo, uscita a settembre da Stile libero nella traduzione di Giovanna Granato, a dichiararlo programmaticamente: «Con i saggi sono nel mio elemento. Sono ciò che più mi piace leggere e scrivere».

Credo che la ragione, anzi le ragioni, per cui certi scrittori finiscano per trovarsi più a proprio in questo campo che in quello della narrativa, siano due: 1) Gli scrittori di saggi e reportage sono cacciatori di esperienze. 2) Gli scrittori di saggi e reportage sono individui tendenzialmente incostanti e onnivori che cercano di abbracciare la totalità più che affondare in un punto esatto dalla questione umana. La sintesi di tutto questo fatta da Dyer suona così: «Cosa potrebbe esserci di più bello che scrivere un giorno la recensione di un romanzo o di una mostra e quello dopo partire per Mosca e scrivere di un volo a bordo di un MiG-29?». Chi ha avuto occasione di leggere i romanzi, non sempre dai risultati brillanti dello scrittore inglese – io per dire non sono mai riuscito a finire Amore a Venezia. Morte a Varanasi e di confrontarli per esempio con il suo straordinario libro sulla fotografia americana L’infinito istante (Einaudi 2007), che  ho letto con un senso di continua scoperta e illuminazione, difficilmente  potrà essere in disaccordo: Dyer è uno scrittore pieno di talento, ma non è uno scrittore con uno spiccato talento per il romanzo. Dyer è uno che può farti commuovere raccontandoti la vita di un jazzista (Natura morta con custodia di sax), o farti sprofondare nel folle ma riuscito esperimento di raccontare un film scena per scena (lo Stalker di Tarkovskij in Zona: A Book About a Film About a Journey to a Room), ma non è uno scrittore in grado di costruire personaggi capaci di mettersi  in piedi e camminare.

«Cosa potrebbe esserci di più bello che scrivere un giorno la recensione di un romanzo o di una mostra e quello dopo partire per Mosca e scrivere di un volo a bordo di un MiG-29?»

E infatti non ci sono personaggi ne Il sesso nelle camere d’albergo, una raccolta divisa in cinque sezioni, che a sua volta consiste in una selezione di due raccolte uscite in Gran Bretagna. Nella prima sezione – Visivi – lo scrittore riconferma il suo naturale talento, dichiaratamente impressionista e non tecnico, come critico dell’immagine, ma al tempo stesso coltiva la sua vena di biografo componendo ritratti che restano scolpiti. Mi è piaciuto moltissimo, tra gli altri, quello da grande artista incompreso di William Gedney, una specie di annotatore e accumulatore maniacale, morto semisconosciuto di Aids nel 1989: «Ciò che condividevano l’autodidatta dedito a una vita riservata, austera, e l’avventuriero del sesso “degenerato” era l’amore per – e il bisogno di – anonimato, buio, oscurità». Ma mi ha altrettanto colpito il profilo di un suo possibile destino opposto, ovvero il celebratissimo Richard Avedon: «Essere fotografati da Avedon dava perciò un doppio strumento di riconoscimento. Di conseguenza la gente si presentava alla sessione fotografica come fosse un’occasione unica nella vita, una specie di appuntamento col destino». Considerato da Dyer l’inventore della “naturalezza artificiosa”, viene giustamente interpretato come un maestro del ritratto, e quindi una specie di sciamano dell’animo umano, più che un effimero fotografo di moda, a partire dallo strano e rivelatorio scatto che ritrae W. H. Auden nel 1960 in mezzo alla neve di New York.

Non meno profonde e originali sono le pagine di critica letteraria, e in particolare quelle dedicate ai Diari di Cheever che potrebbero essere considerate veramente un modello di come si debba scrivere una recensione. Per lo scrittore inglese, questi diari (Una specie di solitudine) sono «il più grande risultato raggiunto da Cheever, il suo principale diritto alla sopravvivenza letteraria». Segue accurata analisi del perché uno scrittore finisca per raggiungere la vetta della sua produzione con un testo scritto per motivi privati e non editoriali: «I requisiti formali del racconto, il piglio fittizio che oramai aveva introiettato, tutti gli aspetti di una maestria sofferta che gli tornavano utilissimi al New Yorker, si ritorcevano contro la capacità di sondare i complicati abissi del suo essere».

L’avvicinamento alla materia è sempre personale – quello del punto di vista che non è stato ancora preso in considerazione – e per questo il modo in cui parla dell’oggetto dell’indagine riesce per fortuna a scartare gli automatismi stilistici dello specialista, così come può prescindere dalla polarità timore reverenziale/acredine giornalistica. Felicissima, per fare un altro esempio, è l’interpretazione di quella specie di torpore che avvolge la scrittura di Sebald: «È quel tremolio, quella perenne incertezza, quell’aleggiare a un soffio dall’involuzione in un tedio senza fine (un baratro sbadigliante, per così dire), a generare la suspense tutta particolare – il senso, per l’esattezza, di narrazione sospesa – che rende la scrittura di Sebald così avvincente».

La scrittura di Dyer trova nell’osservazione più che nell’introspezione la propria ragion d’essere, ma perché?

Infine, l’occhio dello scrittore inglese si spalanca, quasi sempre con la stessa profondità di sguardo, anche sulla realtà. Il pezzo che dà il titolo alla raccolta, tra gli altri, è un’analisi tanto divertente quanto ricca di epifanie sul rapprto tra sesso e alberghi: «Una stanza d’albergo è arrapante perché è pulita: le lenzuola sono pulite, i bagni sono puliti, tutto è pulito e la pulizia cos’è se non un incentivo flagrante alla… sporcizia?».

E ancora: ciambelle, fumetti, jazz e alta moda… Una curiosità bulimica che tenta di coprire lo spettro dello scibile. Quando, però, questa curiosità si sposta dall’esterno all’interno, nei territori dell’autoanalisi o in quelli della confessione  (alcuni pezzi personali dell’ultima sezione come Essere figlio unico o Naturalmente), il coinvolgimento del lettore rischia pericolosamente di scemare. Seguiamo con fiducia cieca Dyer nelle vesti di intelligentissima guida dei segni, ma non riusciamo a provare empatia per Dyer come essere umano. La sua è una scrittura che trova nell’osservazione più che nell’introspezione la propria ragion d’essere, ma perché?

Perché le sue confessioni mancano degli appigli necessari per trasformarsi in qualcosa che appartiene anche al lettore. Restano fatti di Dyer che, d’altra parte, si dipinge come un uomo senza particolari drammi. Lo possiamo invidiare in un certo senso, ma non sentirci dentro di lui o immedesimarci in frasi che suonano così poco vere: «Il destino non ti viene offerto su un piatto d’argento, ogni tanto però lo sforzo normalmente richiesto dalla vita è sostituito da una sensazione di facilità e di grazia».

Così in questi pezzi personali si trova scritta involontariamente la ragione per la quale Dyer non è riuscito a essere un bravo romanziere, una ragione che sembra curiosamente coincidere con la spiegazione che lo stesso scrittore inglese dà della superiorità dei Diari di Cheever rispetto alla sua narrativa: l’incapacità «di sondare i complicati abissi del suo essere». Dando per scontato che gli abissi siano in tutti noi, si sarebbe allora tentati di dire: “Dyer è un critico”, se non fosse che l’osservazione che attraversa i saggi del Sesso nelle camere d’albergo ha la grana marcatamente letteraria dell’esperienza del mondo.