Attualità
La qualità di Xavier Dolan
Sul venticinquenne regista canadese, ospite fisso a Cannes e Venezia e amato-odiato un po' da tutti. Proviamo a spiegare la riflessione del suo Mommy, che ha vinto sulla croisette, e il suo modo di fare cinema.
Nella panoramica sul 67esimo festival di Cannes della settimana scorsa avevamo accennato alla possibilità di una sfida Godard-Dolan. Per quanto divertente, la vedevo come un’osservazione piuttosto ovvia su cui si dovrebbero spendere giusto due parole e a cui riservare meno commenti che ai film in questione. E invece i due, soprannominati «the oldest and the hipster», hanno vinto ex aequo il premio della giuria. “Scelta democristiana”, hanno osservato alcuni, frustrati dalla linea conservatrice del festival che non ha avuto coraggio di preferire uno all’altro. Cosa difficile, questo è vero, perché entrambi i lavori sono notevoli e pongono domande importanti sul modo di fare cinema oggi (o nel futuro). Un po’ come con La Vie d’Adele, le premiazioni di quest’anno hanno mostrato un progressismo di facciata, che incoraggia per finta l’avanguardia senza metterla sul piedistallo che merita. A vincere la Palma d’Oro è stato infatti Winter Sleep del turco Ceylan, un dramma sentimental-psicologico impeccabile e bello anche da vedere, ma oltremodo classico, soprattutto se confrontato con alcuni altri concorrenti. C’è invece da essere contenti per Le Meraviglie e Alice Rohrwacher, che ha vinto il Grand Prix con un film imperfetto ma onesto, critico ma gentile: non è un film che ti prende il giro. A molti l’Oscar di Sorrentino non ha fatto piacere per questa ragione, considerando La grande bellezza una “paraculata” che inganna lo spettatore: si può essere d’accordo o meno, ma bisogna riconoscere che questi due premi italiani devono fare piacere e non solo per orgoglio nazionalista. Ma queste sono altre storie. Se, infatti, per Adieau au Langage di Godard servirebbe ben più di una visione (rendendolo dunque tanto rivoluzionario e interessante quanto inaccessibile e snob), Xavier Dolan è abituato a dirti le cose in faccia. Eppure credo che anche lui esiga un po’ di tempo per essere digerito.
Nato nel 1989, canadese francofono, è amato e odiato un po’ da tutti, ha già all’attivo 5 film: il primo (J’ai tué ma mère) l’ha girato quando aveva meno di vent’anni, vincendo diversi premi alla Quinzaine des Realisateurs. Da lì in poi è stato fisso a Cannes (Les Amours Imaginaires, Laurence Anyways) e l’anno scorso è arrivato addirittura a Venezia (Tom à la ferme). Apertamente gay, suscita grande invidia nei coetanei e rispetto intimorito nei più anziani. Fa letteralmente di tutto. Anzi, quasi come un principiante vanitoso, nei titoli di coda di Mommy, si è creditato come montatore, costumista e addirittura supervisore dei sottotitoli. Spesso è anche attore e doppiatore. Sembra una storia degli specchi alla James Franco o (peggio) alla Vincent Gallo, ma qui direi proprio che il ragazzo non pecca di superbia, al massimo di professionalità: Xavier Dolan è un grande lavoratore e cineasta appassionato. Dunque, sulla carta si può guadagnare facilmente la stima dei meno spocchiosi ma è nel prodotto finito che si giudica per davvero il suo lavoro. La distinzione del gusto qua non interessa, non è davvero importante decidere se è giusto o sbagliato che Dolan piaccia (o meno). Qui la discussione dovrebbe rimanere aperta. Al di là delle preferenze personali, infatti, Mommy e i suoi altri film (soprattutto i più recenti), propongono e invitano ad una riflessione che è difficile da mettere in ordine ma che proveremo comunque a spiegare.
Fa letteralmente di tutto. Anzi, quasi come un principiante vanitoso, nei titoli di coda di Mommy, si è creditato come montatore, costumista e addirittura supervisore dei sottotitoli.
Innanzitutto, il film che ha vinto Cannes. Mommy è un film di più di due ore ambientato in un fittizio Quebec del 2015. Il protagonista è Steve, un sedicenne appena uscito dal riformatorio con gravi problemi comportamentali. Mommy è sua madre Diane, tamarissima signora con gran pelo sullo stomaco, rimasta vedova dopo la malattia del marito. Diane—o Die, soprannome ridanciano affibbiatole dalla vicina di casa—si fa in quattro per mantenere se stessa e il figlio fuori controllo, affidatole proprio prima di un licenziamento. Ai due si aggiunge timidamente la vicina di casa, un’ex insegnante afflitta da una misteriosa balbuzia post-traumatica, che aiuterà Steve con lo studio da casa. In Mommy già si riassume la poetica di Dolan, concepita nei suoi estremi di forma e contenuto in modi non dissimili da come avviene nei registi affermati. Un soggetto piuttosto semplice, diluito e rappreso nei momenti di scontro vs. quiete del rapporto madre-figlio, ambiguo e al limite dell’incestuoso eppure mai sconfinante nella morbosità gratuita, si concede difetti di intreccio (come l’invenzione di una legge che permette lo scioglimento finale) e una tendenza ad indugiare su certe scene. Ciononostante, la trama non risulta pesante e costruisce un film con le idee molto chiare (anche quando sbaglia). Mi sembra, infatti, che “questo ragazzetto”—qui parla la voce dell’invidia e dei primi capelli bianchi della mia generazione—abbia un primo grande pregio: sa quello che vuole fare e lo dichiara in ogni film. Come Almodovar o Fassbinder o moltissimi altri, Dolan ritorna con variazioni (minime o consistenti) su certe sue ossessioni narrative: l’assenza di una figura paterna, affetti “triangolari”, umanità esuberanti, passioni grandi, emarginati consapevoli, comunità sociali impermeabili al cambiamento. Un elenco così messo farebbe rabbrividire tutto un certo tipo di pubblico (comprensibilmente) ostile alle manfrine sentimentali, che preferisce emozioni “maschili”, cioè meno verbalizzate e più interiorizzate. Eppure Dolan è convincente anche quando sbrodola, proprio perché quando i suoi personaggi e la sua sceneggiatura strabordano, è chiaro come sia tutto “intensamente voluto”.
E come ogni autore capace di costruire un “marchio” cinematografico ben identificabile e personalissimo, anche Dolan lavora da diversi anni con due attrici eccelse, Anne Dorval e Suzanne Clèment, entrambe prima pressoché sconosciute. Le due assumono chiaramente la linea direttiva del regista, e portano agli estremi quasi macchiettistici le loro interpretazioni. Strillano, pestano i piedi, ammutoliscono e poi piangono: proprio quando pensi che finalmente si daranno una calmata, gridano ancora più forte, singhiozzando e malmenando l’uomo che hanno di fronte. La camera insiste esplicitamente su di loro con riprese serratissime e primi piani resi ancora più intimi e/o claustrofobici dal formato quadrato, accentuando così ancora di più le loro interpretazioni, già al limite del melodramma. Il linguaggio e la sceneggiatura partecipano anche qui a spingere i toni all’inverosimile, concependo un registro a metà tra il grezzissimo e il realistico. Il francese canadese è incomprensibile e velocissimo, presentato in una varietà mista a strani inglesismi (“obviousment”) e slang localissimi (“tabarnack” è la bestemmia peggiore, e significa proprio tabernacolo), tanto da rendere i sottotitoli in francese standard indispensabile per i francofoni non quebecchesi. Steve, l’adolescente con la sindrome da deficit di attenzione e iperattività interpretato da Antoine Olivier-Pilon, è bravo quanto le sue colleghe, anzi, bravissimo, capace di moltiplicare per mille l’esuberanza tipica della sua età, a metà tra la dolcezza dell’infanzia e la violenza dell’adulto.
Antoine Olivier-Pilon aveva già mostrato la sua sfacciataggine con una brevissima apparizione in Laurence Anyways, ad oggi l’opera dolaniana che reputo più riuscita. Nel ruolo di Laurence c’era un attore che avevo perso di vista ma che, con la sua bravura, si porta dietro un po’ di storia del cinema francese: Melville Poupand era il ventenne di Conte d’été ma qui è irriconoscibile nel ruolo di un trentacinquenne che decide di abbracciare il bisogno di vestirsi ed essere donna, represso fino a quel momento. Ma smalto, orecchini e tacchi a spillo (che detta così suona come un film omofobo di Fausto Brizzi) non si accompagnano ad omosessualità—Laurence continua ad amare disperatamente la sua compagna Fred (di nuovo, Suzanne Clèment) che decide di supportarlo per un po’ e poi molla il colpo, incapace di gestire il cambiamento. Ambientato negli anni Novanta, prosegue solo marginalmente la storia dell’omofobia in Canada cominciata da C.R.A.Z.Y. di Jean-Marc Valleè, e si concentra invece sul frantumarsi di un rapporto sentimentale. Incerti se amarsi di nuovo dopo dieci anni, i due si chiedono se il travestimento di Laurence sia stato l’unico motivo della rottura: sarebbero riusciti a stare insieme, senza quel terzo incomodo? Proprio qui sta la questione, che si insinua tra i personaggi solo verso la fine, facendo di un’idea il vero motore narrativo del film (strategia già di Les Amours Imaginaires e di nuovo nel thriller psico-agreste Tom à la ferme).
In Laurence Anyways vediamo in moto la famigerata estetica “da videoclip”, tutta soste e rallenti e ripetizioni con colonne sonore super pop, apparsa in TV con quel vecchio singolo che forse alcuni ricordano, “Sing” dei Travis che si lanciavano le aragoste e le palle di gelato. Ecco, il montaggio dolaniano alterna sequenze al rallentatore, descrittive e iper-estetizzanti (solo apparentemente fini a se stesse) a scene violentissime e intense, girate quasi in stile documentaristico, che sviluppano trama e personaggi. Wesley Morris ha per questo giustamente parlato del contrasto tra slow motion e enormous emotion. Se in un primo momento disorienta, in realtà il contrasto tra queste due velocità si assorbe nella narrazione che infatti procede a ritmo spesso costante: ciò che avviene nello slow motion luccicante non è una pausa onirica né una rappresentazione “figurata” dei sogni o dei ricordi dei protagonisti, ma è parte di un solido blocco diegetico.
È qui, insieme al formato 1:1 di Mommy (Dolan è comunque sempre allergico allo schermo pieno), che il lavoro di Dolan viene spesso liquidato come hipsteria dai giovani hipster o salutato come innovativo dai vecchi non aggiornati. Ostinarsi a respingere questo tipo di estetica come frivola, superficiale e in fin dei conti “non alta” in rispetto ai canoni classici o non riconoscerne le radici di una cultura popolare ormai affermata è cosa piuttosto miope, se non pigra. Il formato quadrato impiegato in Mommy forse ricorda le cartoline di Instagram, ma Dolan l’ha usato più che altro per stare addosso ai suoi attori. La musica della sua infanzia (Counting Crows, Dido, Oasis, e una Céline Dion “tutta da riscoprire”) non è lì per ironia, ma perché ha accompagnato la formazione delle sue (e nostre) emozioni da adolescente ed è quindi sensato che venga sfruttata in un film che parla anche di adolescenza tormentata. Adeguata è pure la “materia retro” perché sì, siamo un’epoca che recupera e cita il passato, ma anche perché il vintage (culturale e non solo di costume) non è solo una libera scelta consapevole (ma magari economica, sociale?). Se andiamo oltre alle sue storie, Dolan non fa altro che immaginare un mondo com’è adesso, il suo sguardo restituisce un’ecosistema cristallino al limite del digitale ma anche sporcato da elementi bassi e triviali, in cui quello che vediamo in televisione o su internet è già inglobato nell’inquadratura non come funzionale, ma semplicemente reale.
Dolan è bravo ma non perché ha inventato qualcosa di nuovo. È bravo perché usa tutti gli elementi di cui sopra con serietà. Lascia da parte il distanziamento ironico e l’autocompiacimento “post-”, forse perché è troppo giovane, forse perché è molto capace, racconta semplicemente il mondo in cui è nato così com’è. Poi può non piacere: credo che il cuore della sua bravura risieda più nelle sue storie che nelle sue immagini, e capisco chi è scettico nei confronti del suo cinema. Però, intanto, il vincitore più giovane della storia di Cannes, si conosce e dichiara: “forse c’è un’età giusta in cui si sa raccontare storie, ma non esiste un’età giusta per cominciare a raccontarle”. Quasi a dire: prima si inizia, meglio è.