Attualità
Western danesi, meraviglie italiane
Una panoramica sui primi giorni di Cannes, tra una croisette meno chic di quanto si immagini, grandi vecchi del cinema, attori che fanno i registi e un inarrestabile Mads Mikkelsen.
Il tiepido sole di Nizza accoglie tutti all’aeroporto con uno sciopero dei tassisti. Anche volendo, i ricchissimi che avrebbero magari rinunciato all’elicottero per un taxi sono costretti a mettersi in coda per l’autobus, come tutti i comuni mortali. Eccomi così da subito catapultata nella popolarità (anzi, popolosità) cheap-chic del festival di Cannes, con le dame ingioiellate che spingono per infilare trolley spigolosissimi nel bagagliaio del pullman mentre uomini eccessivamente abbronzati si scambiano i primi biglietti da visita. Arrivando sulla croisette, sembra di essere su un lungomare napoletano, se Napoli fosse in Provenza. Il festival si svolge all’interno di un gigantesco ecomostro, più simile ad una nave da crociera mezza affondata che a uno sfarzoso palazzo del cinema. La superficie specchiata di questa specie di Concordia—che nelle ore più calde è davvero letale—riflette uno spettacolo imprevisto, almeno per chi s’immagina il più importante festival cinematografico europeo come un simbolo della classe e della lungimiranza culturale francese: il festival di Cannes è per lo più, dentro e fuori il fortino della fiera, una cosa abbastanza selvaggia.
Tra gli accreditati che fanno la coda letteralmente in mezzo alla strada, noto il primo fenomeno bizzarro del posto, minorenni agghindate con croste di strass tutto H&M che reggono biglietti supplicanti di “un invitation svp”. Se in poche ore imparerò a schivarle come un ostacolo irritante al mio essere costantemente in ritardo, poco dopo mi verrà anche detto perché lo fanno e mi sembrerà tutto più simpatico—o più triste, a seconda dei punti di vista. Usanza vuole, infatti, che i frequentatori del marché, il mercato, ricevano inviti ad anteprime a cui non vogliono o possono assistere e che dunque li regalino all’ultimo “ai meno fortunati”. La verità è che di finezze ed esclusività, Cannes non sembra proprio essere ricca ed è quando me ne rendo conto che inizio a divertirmi. Sul mare, oltre il Palais des Festivals, si apre il Village International con la sua sfilza di gazebo di “professionisti del settore”: distributori, case di produzione, istituzioni e festival internazionali possono anche permettersi di fare un puccetto nell’acqua, a pochi metri di sabbia dai loro uffici di rappresentanza. In parallelo, una fila di palme parecchio rigogliose—l’effetto è più giungla europea che Sunset Boulevard—si srotola sulla croisette, dove una serie di hotel dai nomi molto importanti interrompono qua e là la lunga fila di boutique d’alta moda. Il migliore è senz’altro il “Grand Hotel”, che di grande ha solo la vista sulla baia e assomiglia piuttosto a un complesso residenziale varesino, se l’avesse progettato Gropius dopo troppi rosé. Il clima, bisogna dirlo, non invoglia a chiudersi in sala, tanto più che flora e fauna sono così pittoreschi. Però—checché ne dicano gli operatori dell’industry, qui solo per “networking”—i film da vedere a Cannes ci sono e quest’anno alcuni destano parecchia curiosità. Ecco dunque cosa si è visto e si vedrà alla 67esima edizione del Festival di Cannes.
Checché ne dicano gli operatori dell’industry, qui solo per “networking”—i film da vedere a Cannes ci sono e quest’anno alcuni destano parecchia curiosità. Ecco dunque cosa si è visto e si vedrà alla 67esima edizione del Festival di Cannes.
Dopo l’inaugurazione un po’ regalata alla biopic fuori concorso su Grace Kelly, nella selezione dei film in gara si fanno notare subito alcuni numeri. Se la giuria è presieduta infatti dall’unica donna ad aver vinto una palma d’oro nella storia di Cannes, Jane Campion, i film in concorso ad opera di donne sono solamente due, quelli di Noemi Kawase e Alice Rohrwacher. Un dato, questo, che fa riflettere anche sul buon numero di film francesi nonché sugli autori (anziani) onnipresenti a questo festival, che si conferma come piuttosto tradizionale e non apertissimo all’evoluzione. È vero che questa è quasi più una fiera commerciale che una mostra d’arte cinematografica, come si dipinge Venezia, ma qui Cannes tiene la mano ferma sui veterani e promuove un certo tipo di “diversità” solo di recente (la Queer Palm esiste solo dal 2010!). Per iniziare sicuri, infatti, in questa edizione i veterani sono parecchi. Leggenda cruciale per chiunque è Jean-Luc Godard, che presenterà mercoledì la nuova e forse ultima fatica, Adieau Au Language, la cui sinossi si presenta in forma di poesia e allude a una storia di amore mentre “de l’espèce humaine on passe à la métaphore”. Sempre nel gruppo di anziani storici rientra la doppietta britannica di Ken Loach e Mike Leigh. Il primo ritorna alla tematica irlandese con Jimmy’s Hall mentre il secondo si cimenta col costume con un film biografico su J.M.W. Turner. Il pittore inglese pioniere, ad inizio Ottocento, di uno stile quasi impressionista è interpretato da Timothy Spall, che grugnisce a intermittenza, scorbutico quanto geniale, mentre lo vediamo già in età adulta—dalla notorietà istituzionalizzata presso la Royal Academy fino alla morte un po’ in disparte. Mr. Turner passa bene, si concentra sul rapporto profondissimo tra il pittore e il padre, primo “fan” e fedelissimo assistente, ma quando si urla al capolavoro (al momento è stato il film ricevuto meglio) io sono un po’ scettica e penso alla struttura diegetica, che accelera e rallenta forse casualmente e forse no, fa perdere comunque fluidità al tutto e lo fa in modo poco aggraziato. Tra i francofoni ricordiamo i fratelli Dardenne, che mettono la Cotillard in un dramma dai giorni contati, Deux Jours, Une Nuit; Vincent Bonello con un’altra bio su Yves Saint Laurent con Gaspar Ulliel, Léa Seydoux e Louis Garrel; il premio Oscar Michel Hazanavicus con un film questa volta a colori, The Search, sulla guerra in Cecenia. Francofono — anche se canadese — è anche l’invidiatissimo Xavier Dolan, che è nato nel 1989 ed è al quinto film e alla terza partecipazione a Cannes, porta Mommy in concorso. Lawrence Anyways era stata una piccola bomba, soprattutto e giustamente per la tenerissima età del suo autore: per una volta va bene parlare di dati anagrafici, considerando che Godard è del 1930 e sarebbe molto interessante vedere i due litigarsi la palma d’oro. Ricordiamo velocemente che c’è anche un Cronenberg con Maps to the Stars (stelle, qui, parecchie: Mia Wasikowska, Julianne Moore, John Cusack e altri). Due parole da spendere su Le Meraviglie, nuovo lavoro della Rohrwacher (e Rohrwacher, Alba “nel ruolo della madre”). Con le riserve che ahimè sorgono ogniqualvolta si vede cinema nostrano, devo ammettere che mi ha un po’ commosso. Una famiglia mista (padre tedesco, mille figlie, altri strani personaggi che compaiono senza grandi spiegazioni) e disfunzionale ma secondo modalità che giustificano l’impiego di un aggettivo tanto abusato, vive in Umbria, lavorando nella propria fattoria e soprattutto alla produzione del miele. Il padre irascibile (perché tedesco o viceversa?) comanda tutti a bacchetta ma perde le staffe così facilmente che sebbene faccia un po’ paura non impedisce all’amore familiare di costituirsi come colonna portante dell’intreccio. Che l’obiettivo sia raccontare il coming of age della figlia maggiore Gelsomina, nella sua lotta per emanciparsi dalla famiglia hippie ma poco “biodinamica” con l’aiuto di Ambra Angiolini e Monica Bellucci, o recuperare lo sguardo magico dell’infanzia secondo modalità oniriche, l’esperimento riesce soprattutto sul piano emozional-estetico. Ho ancora le idee parecchio confuse sulla morale e sulla trama e su molto altro: credo che sia un film pieno di problemi, ma le bambine sono eccezionali e ci sono due scene che spuntano dal nulla a ricordarti le cose belle che puoi vedere al cinema.
Pure se con alcune riserve, Le Meraviglie della Rohrwacher, è un film che commuove e risulta convincente soprattutto sul piano emozionale-estetico.
The Homesman, il nuovo di Tommy Lee Jones, chiude questa breve rassegna dei principali concorrenti e inaugura la sezione “film di attori che fanno i registi ”. Già visto è stato La Chambre Bleu di Mathieu Almaric, attore di gran successo in patria che porta sullo schermo un giallo di Simonon: sesso in provincia francese, più grettezza che erotismo torbido, primi piani cutanei un po’ gusto screensaver Windows ’98, fa penare ma almeno dura poco. Poi, Mélanie Laurent arriva nella sezione parallela ma indipendente della Semaine de la Critique, con Respire. In Un Certain Regard sbarcano Ryan Gosling con l’opera prima The River e Asia Argento con Incompresa. Per tutti e tre grandi aspettative—anche nel senso negativo, perché se devi fallire almeno fallo in grande e facci sganasciare (come Egoyan, che pure è navigato, è in concorso con un film comico travestito da thriller sulla pedofilia, The Captive, così sbagliato che si ride dall’inizio alla fine).
Un Certain Regard e le proiezioni speciali ci lanciano però anche alcune cose che valgono. Party Girl, del trio Amachoukeli, Burger e Theis, mostra una buona alternativa al realismo di Ulrich Seidl. Tra i ritorni attesi c’è Jessica Hausner, che arriva da Lourdes per fare qualcosa di diverso ma non del tutto: Amour Fou è una versione tragicomica dello spleen wertheriano ambientato a Berlino poco dopo la Rivoluzione francese dove fotografia, spazi e persone comunicano il proprio senso narrativo dal palcoscenico dell’inquadratura. Ad aggiungersi alla categoria “grandi attese” ci sono due registi australiani capacissimi, Rolf de Heer e David Michôd, anche loro in Un Certain Regard. Il primo aveva offerto prospettive preziose al problematico genere dell’indigenous cinema nel 2006, quando aveva vinto con Ten Canoes, e torna quest’anno con un Charlie’s Country, di nuovo vicino al soggetto aborigeno. Il secondo invece aveva colpito tutti con Animal Kingdom e quest’anno presenta The Rover un film ambientato in un’Australia post apocalittica la cui ricostruzione è sì inquietante ma non particolarmente convincente. Guy Pearce e Robert Pattinson (molto bene nel ruolo del ritardato) insieme nel viaggio della morte, prima si odiano ma poi una specie di amore filiale li tiene insieme in nome di una vendetta comune, nella famigerata “spirale di violenza” che fa godere assai anche se più per come nasce che per come si conclude. Bene, tutto sommato, anche se forse Michôd non fornisce la (personalmente molto) auspicata scossa al canovaccio del road trip in realtà distopica.
The Salvation, impeccabile e insieme nuovo, è proprio qualcosa da vedere. Kristian Levring, ex della squadra di dogme95, è l’autore di questo western quasi perfetto e prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier.
Infine The Salvation, impeccabile e insieme nuovo, è proprio qualcosa da vedere. Kristian Levring, ex della squadra di dogme95, è l’autore di questo western quasi perfetto e prodotto dalla Zentropa di Lars Von Trier (che infatti gli ha scritto il prossimo film, un horror dal titolo Detroit). In questa edizione Tarantino chiuderà il festival con la proiezione di Per un pugno di dollari, presentato esattamente 50 anni fa: The Salvation casca proprio benissimo e segna un progresso notevole per il genere anche quando lo rispetta al limite dell’integralismo filologico. Infatti non solo resta fedele al canone senza però immobilizzarsi in qualcosa di inattuale, ma lo rinnova con delle scelte estetiche parecchio rischiose che invece colpiscono nel segno (notevole uso delle luci, artificiosissimo ma ugualmente sapiente). La sequenza d’apertura ci introduce alle polveri del mid-west con un digitale cristallino e accompagna un rallenti quasi pubblicitario, così straniante da funzionare benissimo. Nei primi cinque minuti, Mads Mikkelsen—emigrato danese ormai integrato—perde moglie e figlio rivisti dopo 7 sette anni per mano di un criminale appena uscito di galera: in risposta fa fuori mezza diligenza e la sensazione è quella di mangiare un boccone deliziosissimo. Allo sparo dell’ultimo centesimo colpo, dietro di me si commenta con soddisfazione: “Ahhh. Bello”. Da lì in poi grandi momenti e gravissima vendetta per Mads Mikkelsen, che a una band di fuorilegge capeggiata da Jeffrey Dean Morgan (scagnozzo detto “il corso” è Eric Cantona) e una Eva Green che non parla mai perché gli indiani le hanno tagliato la lingua (interessante soluzione alla sua inabilità artistica). Il ritmo è fortissimo, intreccio e sceneggiatura pure: chi non è stato pienamente appagato dal western odierno (Meek’s Cutoff, Django Unchained ma anche Homesman di Tommy Lee Jones presentato proprio ieri e non eccezionale) sarà più che felice.
Nella fotografia, Zhang Ziyi alla cerimonia di apertura. Francois Durand/Getty Images