Attualità

La Germania (non) va alla guerra

Sul New York Times un editorialista di Zeit riapre in Germania il dibattito sull' anti-militarismo tedesco e sul ruolo, estremamente marginale, del paese nella risoluzione delle grandi crisi globali.

di Cesare Alemanni

BERLINO – Alexanderplatz non è solo la piazza più nota e attraversata di Berlino, è anche un monumento alla “bruttezza” della città o, come preferisce porre la questione chi la apprezza comunque, al suo fascino un po’ sbilenco e alle sue interessanti contraddizioni. In altri termini la piazza con il Fernsehturm (il pennellone televisivo alto 386 metri eretto in epoca DDR) al centro e i tremendi palazzoni socialisti tutto intorno è uno smisurato memento architettonico dei segni profondi lasciati sulla capitale tedesca dalla Guerra Fredda. Un’altra tipologia di segni, risalente alla Seconda Guerra Mondiale, si legge invece sui muri mai restaurati di alcuni palazzi sopravvissuti al bombardamento alleato e ai cannoni russi: buchi di proiettile, lacerazioni da bomba, cicatrici da granata che arrivano a coprire anche intere facciate pericolanti. Altri segni ancora si incontrano camminando i marciapiedi di questa e di altre città tedesche: le Stolpersteine, targhe d’ottone delle dimensioni di un sampietrino – con sopra incisi un nome, una data e un “qui visse” – incastonate nella sede stradale di fronte alle abitazioni di chi fu deportato nei campi di sterminio. Fanno parte di un vastissimo progetto dell’artista tedesco Gunter Demnig.

Promemoria di questo genere fanno ancora tremare i tedeschi ogni volta che qualcuno anche solo pronuncia la parola Krieg, guerra.

Le conseguenze della catastrofe politica e militare della Germania hitleriana, le sofferenze causate e patite, non sono scolpite solo sugli edifici o impresse nell’urbanistica di tutte le principali metropoli tedesche ma anche e più profondamente nel tessuto socio-culturale del paese. La fiamma del loro ricordo viene tenuta costantemente viva e ancora settant’anni dopo, a partire dalla Grundschule, al tedesco non è concesso alcun diritto alla rimozione del recente passato nazionale.

Uno dei principali assiomi su cui la Germania post-bellica e ancora di più quella post-muro, ha costruito la propria distanza dal nazismo è quindi naturalmente il pacifismo. «Cultura del contenimento militare», l’ha definita recentemente l’ex ministro della difesa Westerwelle.

Sempre più spesso però in Germania qualcuno prova ad argomentare controcorrente rispetto al prevalente sentimento antimilitarista. Il fatto che accada «sempre più spesso» ovviamente non impedisce alla cosa di fare ogni volta scalpore, specie quando l’iniziativa proviene da ambiti riconosciuti come moderati o addirittura, come nel caso che sto per raccontare, da esponenti del progressismo illuminato.

L’ultimo polverone, reso più fitto dall’aver aperto la querelle fuori dai confini nazionali, l’ha sollevato Jochen Bittner, editor quarantenne di Die Zeit, che, in un op-ed pubblicato il 5 novembre scorso sull’International New York Times e intitolato “Rethinking German Pacifism” ha posto appunto la questione se non sia arrivato il momento per la Germania di riconsiderare le proprie strenue posizioni antimilitariste.

«Sembra non esista nulla in grado di spingere il governo tedesco a considerare un intervento militare: non un’evidente base legale, non un riconosciuto interesse di sicurezza, neppure un ovvio dovere morale» – Jochen Bittner

Le considerazioni di Bittner partono dalla constatazione, difficilmente smentibile, che in questo momento la Germania è lo stato più forte politicamente ed economicamente del continente europeo e che in quanto tale non si può più permettere un atteggiamento di totale passività rispetto alle crisi militari globali.

Bittner scrive: «sembra non esista nulla in grado di spingere il governo tedesco a considerare un intervento militare: non un’evidente base legale, non un riconosciuto interesse di sicurezza, neppure un ovvio dovere morale» e di seguito porta ad esempio diversi casi in cui l’atteggiamento tedesco è stato, a suo giudizio, ignavo per ognuna di queste istanze.

Nell’ordine: le crisi in Libia, Mali e Siria.

In Libia «le Nazioni Unite, così come la Lega Araba hanno approvato un intervento militare ed eppure nonostante l’intervento richiesto – la creazione di una no-fly zone – fosse limitato e a basso rischio per gli stati partecipanti, i tedeschi non solo non hanno inviato aerei ma hanno addirittura ritirato il loro personale dalle postazioni radar nel Mediterraneo».

In Mali «la Germania è persino arrivata a identificare la prevenzione di un ‘Afgahnistan africano’ come un interesse europeo – e poi si è limitata ad augurare buona fortuna all’esercito Francese».

In Siria «neppure lo spettacolo di Assad che sterminava la sua popolazione con il gas è riuscito a provocare un dibattito nel Parlamento di un paese che altrimenti non è mai stanco (giustamente) di accettare le proprie responsabilità per l’Olocausto».

Ed è sempre un riferimento al passato tedesco quello che Bittner utilizza a un certo punto per mettere all’indice l’inazione del suo paese. «La Germania dovrà sempre ricordare la sua disastrosa storia militare. Ma la Germania di oggi è diversa da quella dal 1914 e da quella del 1939. E invece la Storia è diventata una scusa per non fare le cose giuste oggi. Mentre la Germania continua a indugiare nel passato, il mondo è andato avanti. Nessuno dei nostri vicini europei desidera più una Germania militarmente contenuta. Al contrario europei e americani vorrebbero vedere una Germania all’altezza della posizione internazionale che si è guadagnata negli ultimi anni».

A quarant’anni, Bittner è abbastanza vecchio per aver vissuto quel tipo di terrore ma ovviamente troppo giovane per aver avuto esperienza diretta della vergogna dell’Olocausto. Non così i maestri con cui lui e alcune delle penultime generazioni di tedeschi sono cresciuti.

Bittner individua dei responsabili di questa mentalità: l’indottrinamento pacifista ricevuto dagli americani nel periodo post-bellico e il lungo terrore provato durante la Guerra Fredda al pensiero che, se mai fosse scoppiata una Terza Guerra Mondiale, più di tutti sarebbe stata la Germania a farne le spese col suo totale annientamento. «A scuola ci hanno insegnato quattro cose: che la guerra è la cosa peggiore che possa capitare; che noi tedeschi avevamo già mostrato in passato l’inclinazione a iniziare delle guerre; che abbiamo iniziato la Prima e la Seconda guerra mondiale; e che se si fosse giunti fino a una terza saremmo stati noi tedeschi a morire per primi», scrive Jochen.

A quarant’anni, Bittner è abbastanza vecchio per aver vissuto quel tipo di angoscia ma ovviamente troppo giovane per aver avuto esperienza diretta della vergogna dell’Olocausto. Non così i maestri con cui lui e alcune delle penultime generazioni di tedeschi sono cresciuti, quegli insegnanti che essendo stati portati «a visitare i campi appena liberati dagli americani» hanno creato «una visione del mondo in cui la guerra non è mai la soluzione. Per niente. Mai».

Il che, argomenta Bittner, è comprensibile ma anche sbagliato. Poiché, per esempio, si trascura così di menzionare che «a mettere fine all’Olocausto fu proprio una guerra».

Bittner si addentra qui nello spinoso argomento della “guerra giusta”, un concetto i cui confini si sono fatti negli ultimi anni molto più sfumati e dibattuti rispetto al passato da lui evocato, al punto da diventare il principale dilemma delle democrazie occidentali. Un dilemma davanti al quale, secondo Bittner, l’atteggiamento attuale del suo paese ricalca quello con cui la Germania è uscita viva dalla Guerra Fredda, cioè lasciando fare agli altri o viceversa lasciando che gli altri non facessero nulla. Ovvero, «per il prossimo futuro non contate su noi tedeschi. Siamo noi che conteremo su di voi», come conclude duramente l’editor di Zeit.

Come già accennato, Bittner e lo Zeit non sono gli unici ad auspicare un maggiore impegno militare tedesco. A pensarla come loro, tra gli altri, è nientemeno che il Presidente della Repubblica Joackim Gauck che non molto tempo fa ha dichiarato che «l’impegno militare tedesco è troppo sottodimensionato rispetto all’importanza di un paese che è la quarta potenza economica al mondo».

La questione ovviamente in Germania resta critica ed estremamente ingarbugliata. Se per un verso essa si lega al dibattito in corso già da un po’ sul diritto ormai maturato dalla Storia “a voltare pagina”, dall’altra è inevitabile che, proprio in virtù dei precedenti, ogni afflato di militarismo e di neo-Machtpolitik in Germania sia visto con più sospetto che altrove. E il fatto che il tema venga sollevato, per nobili ragioni e con ricchi argomenti, dagli strati culturalmente più elevati della società anziché dalla pancia del paese non attenua i sospetti, anzi, dal momento che la stessa cosa era già avvenuta in epoca guglielmina.

D’altra parte però non è neppure chiaro con quale disparità di pesi e di misure, le stesse intellighentie tedesche ed europee che accusano la Germania di recitare la parte del prepotente freerider, egoisticamente e irresponsabilmente in volo sulla crisi economica e i problemi politici dell’Unione, potrebbero argomentare, a livello puramente sillogistico, contro una Germania che, nell’ambito della risoluzione di crisi militari o umanitarie internazionali, volesse sobbarcarsi un carico di responsabilità congruo al proprio peso specifico.

E infine, venendo appunto all’Europa, non si capisce come il peso politico dell’Unione che/se verrà, possa prescindere da una Germania meno indifferente a quello che succede oltre il Reno e le Alpi e più presente – anche, quando necessario, militarmente – negli scenari Mediterranei e Medio-Orientali.

 

Nell’immagine: Immanuel Kant, filosofo prussiano e autore, tra le altre opere, de Per la pace perpetua.