Attualità

La gentrification della nicotina

La battaglia contro il fumo ha vinto? Nostalgie estetiche e tendenze in atto in un mondo che vuole smettere di fumare.

di Davide Coppo

Nessuno mi ha mai chiesto quale sia stata la migliore sigaretta della mia vita. Vorrei che qualcuno lo facesse soltanto per costringermi a trovare una risposta, che richiederebbe uno sforzo di memoria. Eppure avrei una risposta pronta per un buon quantitativo di altre “cose migliori”: il miglior sesso, la migliore partita di calcio, il miglior libro. Per trovarla dovrei scavare in anni di tabagismo, in giorni costellati di sigarette a ogni ora, dovrei filtrare quelle preziose da quelle accessorie, e quelle accessorie da quelle completamente inutili. Sarebbe un lavoro lungo, forse impossibile. Una sigaretta, per un tabagista, non recita soltanto un ruolo, ovvero quello deputato a soddisfare un bisogno fisico – una dipendenza – ma svolge molti ruoli, spesso accessori e allo stesso tempo importantissimi.

Nel dicembre 2016, dopo tre ore di scalata alla Table Mountain, a Città del Capo, circa 1100 metri di gradoni tra la ricca natura del Capo e le raffiche di vento che battono la città, ho quasi sofferto una crisi nervosa nello scoprire che, nel punto in cui si poteva ammirare il panorama migliore – il sole basso e caldo a poche ore dal tramonto, i confini dell’Oceano e del cielo confusi in un’illusione comune – fosse vietato fumare. Ho potuto accendere una sigaretta soltanto decine di metri più in là, sempre in cima, ma circondato da turisti intenti a scattarsi fotografie, mangiare gelati, contemplare la lunghissima fila della funicolare per scendere di nuovo in città. Quella sigaretta in quel preciso luogo – proibito – aveva uno scopo: suggellare la quasi-solitaria e meditativa scalata alla montagna, rappresentava il sigillo di ceralacca sul ricordo futuro di quel momento. Anche a questo serve una sigaretta. O è quello che mi sono sempre raccontato, per comprendere meglio e soprattutto giustificare la mia peggiore dipendenza.

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Le sigarette elettroniche sono comparse in massa sul mercato intorno alla prima metà degli anni Dieci, un momento storico – che continua ancora oggi, e probabilmente continuerà ancora per molto – in cui lo stile di vita salutare è al centro del dibattito pubblico occidentale come mai in precedenza. La maggiore consapevolezza per la provenienza dei generi alimentari, l’attenzione per l’agricoltura biologica e stagionale, la diffusione delle auto ibride ed elettriche: il tabagismo non poteva sfuggire alla tendenza, non diventarne anzi la vittima prediletta, tanto più che i fumatori, in Occidente, erano in calo già da anni. Un giorno di pochi mesi fa, chiedendo a dei colleghi il permesso per una pausa sigaretta durante una riunione, mi sono sentito rispondere una frase che ricordo precisamente: «Ancora con queste sigarette, nel 2017?». È una frase che me ne ha ricordata un’altra, letta in quegli stessi giorni in un articolo uscito sul New York Times nel 2015 (“Farewell, my lovely cigarettes”, di Choire Sicha), e che evidenzia quanto un concetto come quello di coolness sia fondamentale, al fianco a quello salutistico, nella battaglia contro il fumo: «The last smoker quitting seemed like another kind of gentrification».

Da tempo, periodicamente, accarezzo l’idea di smettere di fumare. I giorni in cui scrivo queste righe stanno vedendo il tentativo più serio che abbia mai fatto. Allo stesso tempo, quando un amico mi comunica l’intenzione di fare altrettanto, penso e dico: perché smettere completamente di fare una cosa che ti piace? Ed è vero, ne sono convinto: penso che se riuscissi a smettere, fumare mi mancherebbe da morire. Penso quello che pensano – credo – tutti i fumatori: che un bicchiere di vino, da solo, non sarà più la stessa cosa, non lo sarà un caffè, non lo saranno i viaggi in auto, i libri, le domeniche, il distendersi sulla spiaggia dopo un bagno, il cielo stellato una notte d’estate. Gregor Hens, scrittore e traduttore tedesco, in un bel memoir sulla sua dipendenza intitolato Nicotine (Other Press, 2016), scrive: «Ho sognato spesso di fumare in un museo d’arte», a conferma che l’atto di fumare, per un fumatore, deve interagire con la realtà circostante, più del bere, del mangiare: ha delle finalità estetiche centrali. Fumare ha, ad esempio, molto a che fare con le mani. E le mani, in ogni cultura, hanno molto a che fare con le arti: danze, mimo, teatri di ombre. Dal solo modo di tenere in mano la sigaretta, in cinematografia o fotografia, si può immaginare un mondo: l’incertezza di una sigaretta tenuta in punta di dita, la spavalderia di un mozzicone rivolto verso il palmo, l’erotismo con cui un polso sottile compie l’arcobaleno del tragitto fino alla bocca e indietro.

Il fatto che alcuni Paesi stiano considerando leggi per rendere i pacchetti di sigarette tutti uguali, bianchi e senza grafiche, è una conferma di quanto, più che in altri ambiti, la dimensione estetica sia qui fondamentale. Nella mia storia personale, come in quella di ogni fumatore, dietro ogni logo e ogni nome c’è una storia. Il mio primo pacchetto, a sedici anni, fu quello beige e blu delle Benson&Hedges, le sigarette che fumava mio padre all’epoca. L’amicizia con un raffinato compagno di liceo, anticonformista e snob, mi fece adottare per alcuni mesi le Cartier, per poi passare all’eleganza del nero Davidoff. Mi lasciai affascinare dalla sicurezza mascolina delle Lucky Strike in pacchetto morbido, ma arrivò poi un periodo in cui mi propinai numerosi mal di gola a causa di quel glamour vintage delle John Player Special. Tentai, senza succedere a lungo, anche di lasciarmi conquistare dalla ballerina sinuosa Gitanes, in controluce in una nuvola di morbido fumo bianco.

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Le lounge degli aeroporti, più di altri luoghi, mostrano con quanta diffcoltà i brand di tabacco cerchino le giuste strategie di marketing nel Ventunesimo secolo: queste piccole prigioni maleodoranti sono spesso sponsorizzate, contengono teche con i nuovi pacchetti, loghi, slogan, tutte all’insegna della fluorescenza, design morbidi e futuristici, ma l’effetto, nella nebbia che brucia gli occhi, è stridente. È normale che lo sia: l’ultima cosa che assocerei al futuro è un pezzo di carta da accendere con del fuoco e da tenere in bocca. La ghettizzazione è qualcosa che chi fuma è abituato a subire, a volte anche volontariamente: non riesco a non ridere di me stesso, oggi, a ricordare le assurde battaglie “politiche” liceali per la creazione di un “recinto” dedicato ai fumatori, da utilizzare nelle ore dell’intervallo. Nei Paesi anglosassoni, soprattutto negli Stati Uniti, trovare un luogo in cui fumare in tranquillità è da anni sempre più difficile. Essere esclusi, se sei adolescente, può andare bene: è, da un certo punto di vista, una delle chiavi della giovinezza. Fumare è generalmente accettato, ma iniziare a farlo è, secondo le leggi famigliari, proibito: anche per questo è a tutti gli effetti un rituale di passaggio, antropologicamente parlando. Ma i marciapiedi separati, le stanze separate, i gabbiotti maleodoranti, invece, da adulto iniziano a funzionare. Sentirsi reject è stancante, e vuoi tornare a essere incluso. Le discriminazioni, tristemente, funzionano.

Non è possibile, tuttavia, rimuovere completamente l’ombra di migliaia di sigarette da una vita: il cervello dei dipendenti da nicotina (ma succede lo stesso con l’alcol) cambia nella sua struttura, e non riesce, fisicamente, a tornare allo stato in cui era prima di “contrarre” la dipendenza. Le cellule sono mutate, e il baratro rimane in vista, per tutta la durata della vita. Fa paura, questa capacità di un oggetto fatto di carta, cotone e foglie essiccate, di cambiare la nostra mente per sempre, di sapere essere più forte della nostra volontà. La stessa volontà con cui l’uomo ha realizzato progressi scientifici e filosofici, ha costruito strade e commesso genocidi, è tenuta in ostaggio e resa impotente da una sigaretta.

«Un giorno, di certo, fumare sarà proibito», ha scritto Dwight Garner sul New York Times, in una recensione a Nicotine. Non è detto: se la strada della liberalizzazione delle droghe – anche le meno leggere – prevarrà, non sarà possibile bandire le sigarette – nonostante la potenza della nicotina, in termini di dipendenza, sia maggiore di quella di qualsiasi altra sostanza. Oppure forse, a guardare i numeri, non ce ne sarà nemmeno bisogno: nonostante l’Italia sia ancora il primo Paese in Europa per percentuale di fumatori adolescenti, nei Paesi occidentali il mercato del tabacco sta crollando. In Inghilterra erano il 27 percento nel 1999, ma soltanto il 18 percento nel 2015. Negli Stati Uniti, sempre nel 1999, fumavano 24 cittadini su cento, ma sono diventati soltanto 17 sei anni dopo. Si arriverà, alla fine, alla chiusura del cerchio: il fumo sparirà prima dalla società, poi dalla memoria. Mi diverto a immaginare come potrà allora essere visto un nuovo fumatore, ricordando come venne accolto in Europa il primo, di ritorno dall’America appena invasa da Colombo: Rodrigo de Xerex passò sette anni in carcere, condannato dall’Inquisizione spagnola, a causa di quella sconosciuta e sospetta attività che gli faceva uscire fumo dal naso e dalle orecchie, come se l’inferno gli bruciasse dentro.

Dal numero 30 di Studio, in edicola. Fotografie di Delfino Sisto Legnani