Attualità

La fabbrica delle copie

Shenzhen, Cina del Sud. Viaggio a Dafen, il distretto dove ogni giorno vengono dipinte a mano centinaia di Monna Lisa e Guernica.

di Cesare Alemanni

Per alcuni versi Shenzhen è la città che racconta meglio il recente passato della Cina. Nel 1979 il governo di Pechino la dichiarò zona a statuto economico speciale, ovvero aperta al libero mercato, facendone una sorta di prototipo del nuovo corso cinese. Si racconta che, dopo aver scartato la candidatura di Shanghai per motivi politici, Deng Xiao Ping prese una mappa del paese e tracciò un cerchio a matita intorno a un vasto territorio poco a nord di Hong-Kong. Al centro di quel cerchio c’era Shenzhen. Nei successivi trent’anni, grazie soprattutto ai grandi investimenti stranieri, un agglomerato di dimensioni inizialmente modeste per gli standard locali è diventato una megalopoli industriale da 10 milioni di abitanti, molti dei quali ex-contadini emigrati qui in cerca di occupazione, nuove tute blu stipate in slums dalla densità abitativa asfissiante. Non c’è quasi feticcio tecnologico del mondo occidentale che non abbia in qualche modo a che fare, per intero o per alcuni dei suoi componenti, con Shenzhen. Ogni giorno milioni di esemplari di iPhone, Xbox e Kindle viaggiano da questo budello verso i negozi di tutto il mondo. Vengono prodotti in città/fabbriche come la gigantesca Foxconn City, dove vivono e lavorano tra i 300 e i 400mila operai. La stessa che nel 2010 divenne famigerata sui media europei per una lunga catena di suicidi tra i suoi dipendenti, impiegati in turni massacranti per stipendi irrisori. Foxconn “risolse” il problema alzando leggermente le retribuzioni e installando un sistema di reti sospese intorno al perimetro dei dormitori a scopo di deterrente. Passato l’occhio del ciclone mediatico, in seguito qualcuno peraltro si accorse che la percentuale di suicidi a Foxconn era ben inferiore (1,5 su 100.000 contro 20 su 100.000) alla media nazionale, tra le più alte al mondo.

Quella della produzione seriale, da queste parti, è una vocazione che si sposa con praticamente qualunque attività umana, arte inclusa

Quella della produzione seriale, da queste parti, è una vocazione che si sposa con praticamente qualunque attività umana, arte inclusa. A nord-est del centro di Shenzhen, lungo una via principale del quartiere di Dafen, è stato collocato un blocco rettangolare di granito su cui in sinogrammi è possibile leggere: «Qui l’arte abbraccia il mercato. Qui il talento si scambia con il capitale». Poco sotto, sullo stesso blocco, una scritta in inglese annuncia al visitatore l’ingresso a Da Fen Oil Painting Village, un quadrilatero di edifici dove le opere di Van Gogh, Picasso e da Vinci (il cui nome cinese, Dafenqi, suona curiosamente simile a quello dell’intero quartiere) sono trattate, del tutto legalmente, alla stessa stregua di un nuovo modello di iPhone. Riprodotte finché ne esiste domanda.

Sorto agli inizi degli anni ’90, il “villaggio della pittura a olio” di Da Fen nasce dall’intuizione di Huang Jiang un uomo d’affari con il passatempo della pittura che inizia arruolando alcuni studenti dell’accademia d’arte locale e chiedendo loro di specializzarsi in un pittore, in un’area geografica o in un periodo della storia della pittura mondiale. All’inizio erano una ventina, oggi sono qualche centinaio, divisi in diverse aziende e atelier che ricevono e soddisfano migliaia di richieste provenienti ogni giorno dai quattro angoli del pianeta. Ci sono gli esperti di pittura fiamminga, gli impressionisti, i barocchi, i rinascimentali, i surrealisti ma anche maestri nell’ “arte” di riprodurre Warhol, Dalì o famosi pittori asiatici. Quello che Da Fen offre a basso prezzo è il brivido di possedere un’ “autentica replica”. Non una fredda riproduzione meccanica ma una copia estremamente fedele all’originale realizzata da una mano umana.

A Da Fen ci si imbatte continuamente in boutique con le pareti coperte da decine di Monna Lisa o di Notti Stellate perfettamente eseguite, ognuna accompagnata da un certificato legale che attesta la loro non autenticità

In giro ci si imbatte continuamente in boutique con le pareti coperte da decine di Monna Lisa o di Notti Stellate perfettamente eseguite, ognuna accompagnata da un certificato legale che attesta la loro non autenticità. Capolavori che hanno fatto la storia dell’umanità condividono spesso gli stessi spazi con ritratti a olio di personaggi contemporanei, da Obama a Lady Gaga passando per Osama bin Laden, quadri destinati a soddisfare un altro genere di richiesta. Alcuni dipinti ritraggono volti del tutto anonimi. Sono quelli delle persone che hanno caricato una loro fotografia sul sito Pix2Oils (una delle aziende più innovative e digitalizzate dell’intero Village) e tra qualche giorno riceveranno a casa, in chissà quale parte del mondo, una tela ricavata da quella immagine secondo lo stile che hanno scelto al momento dell’acquisto. Se volete dare un tocco di Rembrandt alla foto del vostro matrimonio, adesso sapete dove cliccare.

Se per un verso la storia di Da Fen cade perfettamente nella narrazione della Cina come colosso economico e produttivo che bada al sodo senza perdersi troppo in considerazioni etiche, estetiche e di diritti intellettuali – una narrazione che tanto affascina e altrettanto spaventa gli Occidentali – dall’altra in realtà l’intera faccenda è leggermente meno “semplificabile” di così. Più che un processo di riproduzione meccanico e impersonale a Da Fen la concezione del lavoro è semmai modulare ed estremamente attenta a definire vari livelli di personalizzazione e qualità delle riproduzioni per soddisfare ogni esigenza dei clienti, secondo la “profondità” delle loro “tasche”. Dall’abilità degli escutori alla qualità dei colori e dei pennelli usati, tutto è pensato e organizzato per offrire il maggior numero possibile di opzioni tra cui scegliere in modo che ogni copia sia il più personale e unica possibile, per quanto paradossale questo possa sembrare.

Le singole storie di molti dei pittori di Da Fen rendono complicato fermarsi a una narrazione superficiale dell’intera vicenda

Negli anni il “sistema Da Fen” si è dimostrato capace fornire lavoro a decine, centinaia e infine migliaia di ex-studenti delle accademie artistiche del Sud della Cina. Non c’è niente di più lontano dalla nostra concezione post-romantica dell’artista come genio che gode il frutto delle sue intuizioni solitarie, dell’idea di migliaia di “esecutori” di copie ma anche in questo caso la realtà di Da Fen è meno semplice di quanto appaia e come ha scritto Philip Tinari in un bel saggio per Artforum “le singole storie di molti dei pittori di Da Fen rendono complicato fermarsi a una narrazione superficiale dell’intera vicenda”.

Alcuni dei laboratori infatti apportano considerevoli modifiche agli originali. Nel suo saggio, Tinari racconta di un laboratorio che, in un quadro dell’artista cinese Liu Ye, ha sostituito il coltello con cui una delle figure si accinge a sgozzare un maiale con degli ortaggi di cui lo ciba. «È molto più gioioso in questo modo. I clienti lo preferiscono», è stata la spiegazione. È evidente che in questo caso non si può più parlare di copia. Anzi, considerando la portata ironica dell’intervento, con “la giusta stampa” alle spalle si potrebbe anche riuscire a far parlare di Arte con la maiuscola. Un altro contributo che indaga l’ambiguo rapporto tra Da Fen e il mondo dell’Arte culturalmente legittimata viene da REGIONAL che ha chiesto a decine di esecutori di realizzare un autoritratto di loro stessi, a fianco di un’opera particolarmente rappresentativa della leggenda dell’arte in cui sono specialisti, nel tentativo di indagare la domanda: «Dove finisce l’influenza e inizia l’auto-coscienza artistica personale?». Ne è uscita una mostra che ha attraversato quattro continenti, mostrando in ognuno che la risposta alla suddetta domanda è più sorprendente di quanto si creda, in entrambi i sensi di lettura.

La storia di Da Fen per certi versi mi riporta a due settimane fa, a Venezia, per l’inaugurazione della Biennale curata da Massimiliano Gioni in cui si accostavano insider e outsider, stelle del mondo dell’arte famose come popstar e completi sconosciuti, nella convinzione, credo, che l’impresa impossibile di restituire un sapere enciclopedico non può badare a simili sottigliezze come la distinzione tra artisti professionisti e non. Rispetto a questa dicotomia i pittori di Da Fen si trovano in una zona grigia, costituiscono in un certo senso un problema ulteriore: di sicuro sono dei professionisti ma dobbiamo considerarli anche degli artisti? E se non lo facciamo a cosa dobbiamo derubricare le modifiche che apportano agli originali e i loro lavori indipendenti? E in fondo non è forse vero che il motto scritto su quel quadrato di granito, all’ingresso di Da Fen Oil Painting Village, starebbe benissimo all’inizio di qualunque grande evento mondiale del circo dell’Arte con la maiuscola?

A Dafen intanto, nel dubbio, hanno costruito un museo d’Arte. Al piano terra c’è un negozio. Vende arte.