Attualità

L.A. Stories

Sei brani per sei quartieri di Los Angeles. Con i suoi protagonisti: chi la ama, chi no, chi se ne va, chi ci arriva, chi fa lo scrittore, chi vuole girare un film, chi gioca a baseball.

di Timothy Small

«Disneyland è presentata come luogo immaginario per farci credere che il resto sia reale, quando in effetti è tutta Los Angeles e l’America che la circonda a non essere più reale», scrive il filosofo francese Jean Baudrillard in Simulacri e simulazione. «Non è più un problema di falsa rappresentazione della realtà, ma di nascondere il fatto che il reale non è più reale». Quello che intende dire non mi è completamente chiaro, ma so per certo che la sopracitata frase di Baudrillard è la citazione più abusata quando si è europei e si vuole scrivere un articolo su Los Angeles.

So anche che è assolutamente vero che il contrasto tra il reale e l’irreale è una delle sensazioni più forti che si provano quando si visita Los Angeles per la prima volta. Il cielo di L.A. sembra più alto che in altre città, più lontano, e la luce sembra brillare più forte, ritagliando i bordi dei palazzi e delle palme con più definizione, e sono palazzi che hai visto già al cinema, tutti, e sono tutti di stili diversi, sembrano finti, se visti con occhio europeo. Non che siano in qualsiasi modo studiati, o pianificati, la loro “finzione” non deriva dal sembrare “artificiali”: non fanno l’effetto Disneyland del milleottocento che si prova vedendo i maestosi palazzi attorno al Ring di Vienna, tutti costruiti nello stesso ventennio, nello stesso stile, e piazzati in una griglia con rigore logico. A Los Angeles i palazzi sono storti, malmessi, sembrano appoggiati male sulla terra, le strade attorno a loro sono curve – angoli retti se ne vedono pochi. I marciapiedi sono gobbosi e spaccati, erbacce che escono del pavimento a ogni sua intersezione e da ogni fessura, e tutt’attorno vedi case costruite una sopra l’altra in mezzo a folti alberi e cespugli enormi, vedi le liane – in città ci sono le liane – e piante di agave di 10 metri che spuntano da dietro case di un piano, con i colibrì che ci ronzano attorno per cibarsi del nettare, e l’asfalto delle strade è crepato perché la forza delle radici dell’albero all’angolo lo spinge verso l’alto, spezzandolo, tutto ti dà l’impressione di precarietà, di temporaneità, di una città costruita a caso, passata da un pueblo nel deserto di 44 persone nel 1840 a una megalopoli che ne conta 3 milioni e mezzo solo nel centro, 12 milioni nell’area municipale, 18 milioni nel distretto esteso, i quartieri buttati lì senza criterio, in velocità: perché se fai due calcoli e sai che nel 1920 erano cinquecentomila, si sta parlando di una crescita di quasi duecentomila persone all’anno, ogni anno, dal 1920 ad oggi. Los Angeles sembra finta perché non sembra una città – sembra un ammasso di case piazzate ai lati della strada, un paesaggio che dà l’impressione di non dover esser abitato dall’uomo. Lo vedi nelle case povere di Compton come nelle villette di Echo Park o nelle villone su Mulholland e Beverly Hills: gli alberi dominano sempre su tutto, in qualsiasi quartiere – quartieri che poi non lo sono, perché sono delle micro-città all’interno di una grande città che la gente, per comodità sia amministrativa che gergale, chiama Los Angeles. Pensi, siamo qui da poco e forse non dovremmo esserci, noi, e si vede, e si sente nell’aria, lo provi quando vedi quei tramonti fucsia acceso che riflettono la natura desertica del territorio, lo senti quando un tuo amico ti dice che ha perso il gatto e che probabilmente l’hanno sbranato i coyote, perché Los Angeles, nella sua natura precaria, sembra una gigante favela costruita da persone che hanno usato soldi e cemento al posto dell’ingegno e dei materiali di recupero, ma che comunque mantiene una sensazione di essere un insieme di case messe in un posto, piuttosto che una città, e quando metti un insieme di case nel deserto non puoi sorprenderti se poi ci sono i puma sui colli e i coyote che mangiano i gatti.

Il contrasto tra reale e irreale non è l’unico contrasto che provi a L.A.. Provi il contrasto tra l’uomo, e le sue case e le sue strade; e la natura, e i suoi alberi e coyote. Provi quello tra la cultura occidentale e quella orientale, perché L.A. si affaccia sul Pacifico, e un thailandese a L.A. è molto meno esotico di un italiano – cosa che ha portato a quella cultura new age che il resto del mondo ama tanto sfottere, ma che ha anche avvicinato il mondo occidentale al buddhismo e allo zen. Provi il contrasto tra le culture, perché L.A. è l’unica città in America a non avere una maggioranza etnica: 48% di latinos, suddivisi a loro volta in messicani (principalmente) ma anche molti salvadoregni, 28% di bianchi non ispanici, 12% di asiatici, principalmente coreani e giapponesi, 10% di afro-americani, 2% di nativi americani e “altri”. E questo lo provi ancora di più che in altre città-calderone, perché la geografia della città è divisa appunto in tante micro-città separate, e quindi c’è Little Armenia e Little Tokyo e Filipinotown, e anche se il gruppo etnico non dà il nome al quartiere, a Crenshaw sono tutti afro-americani, a East L.A. tutti messicani, a Westwood tutti persiani, a West Hollywood bianchi. Provi il contrasto tra la Cultura Occidentale del Getty, del MOCA e della Los Angeles Philharmonic, e la Cultura Pop dei poster giganti su ogni palazzo di Hollywood Boulevard con la faccia di Johnny Depp o Seth Rogen o di un dinosauro sorridente in computer grafica grosso come il Monte Rushmore.

WEST HOLLYWOOD

Per dire quanto è spaesante: la prima volta che ho visitato L.A., un amico è venuto a prendermi a Echo Park con la sua macchina, con l’idea di farmi fare un giro per la città. Mezz’ora dopo, guidando giù per Sunset Boulevard fino a Beverly Hills, gli chiedo quando saremmo arrivati alla città per parcheggiare e fare quel giro che dovevamo fare e lui mi guarda divertito e dice, «era questo, il giro, la città l’abbiamo appena attraversata», e tu capisci che una città non dev’essere per forza un ammasso di palazzi di pietra uno attaccato all’altro con le botteghe al piano terra e gli appartamenti sopra e le strade strette a misura d’uomo, ma può anche essere quello che tu vedevi come un sobborgo, sempre sul punto di entrare in centro, senza mai entrarci. Perché il centro non c’è.

Ovviamente, il tuo amico fa l’attore. Si chiama Ken Baumann. E l’altro contrasto a Los Angeles è quello: tra chi ce l’ha fatta, e chi non ce l’ha fatta. E “farcela”, a L.A., equivale, in termini colloquiali, col farcela in una sola industria. L’industria dello spettacolo. La industry. Ken ha 24 anni, ma, anche se lui ce l’ha sicuramente “fatta”, ha deciso di ritirarsi dalla recitazione, per ora. È stato una delle star della serie La vita segreta di una teenager americana fino alla sua quinta, e ultima, stagione, e le ragazze per strada gli chiedono se lui è lui, cose che Ken mal sopporta, mi confida in privato, anche se è sempre professionale e cortese. Ma Ken non è solo un bel ragazzo con la faccia da James Dean. Ken ha scritto un romanzo, Solip, sta scrivendo un libro sulla storia del videogioco cult Earthbound, ha fondato la casa editrice Sator Press e co-edita, con Blake Butler, il sito di critica letteraria HTMLGiant. «Ho iniziato a venire qui dal Texas da quando avevo 14 anni, ogni anno, per la pilot season, quando decidono i nuovi programmi. Avevo recitato a Dallas, pubblicità, e cose del genere. E quindi L.A. era la destinazione. Il primo anno non ho trovato lavoro, ma solo un agente. Il secondo, mi hanno preso nel ruolo protagonista di un pilota per Fox. E continuavo a lavorare, ogni anno, abbastanza da giustificare di tornare, e poi a 18 anni ho avuto il ruolo in Vita segreta e tutt’a un tratto avevo una casa qui. Mi sono trasferito qui per fare l’attore, che è la cosa più stereotipica che c’è, lo so. Ora ho deciso di andare a studiare letteratura per i prossimi quattro anni. E me ne vado da questa città. Ho capito che il gioco non vale la candela. Voglio vivere una vita normale e dedicarmi ai libri per un po’». Mi chiedo cosa dicano i suoi amici della industry quando parla di letteratura sperimentale e editoria. «Generalmente mi guardano come a dire “libri?”, tutti sconvolti, il che ti fa sentire come un matto. Los Angeles non è una città letteraria. La gente non capisce i libri. Non capiscono cosa voglia dire “pubblicare un libro”. E, in generale, i libri non sono cool, la letteratura non è cool, non a meno che non si tratti di cercare di adattare del materiale. Io voglio essere in un ambiente diverso. Non voglio apparire col mio viso, non voglio essere riconosciuto. Almeno, però, la cosa della scrittura i losangelini che ho frequentato la capiscono: d’altronde dopo il “mi sono trasferito a L.A. per fare l’attore”, il secondo stereotipo è “mi sono trasferito a L.A. per fare lo scrittore”». Ken se ne va su una berlina sportiva completamente elettrica, senza far rumore.

 

HOLLYWOOD

La scrittrice che incontro è Amelia Gray, di Tucson, Arizona. Vive a Little Armenia da due anni. Amelia ha un occhio verde con riflessi marroni e un occhio blu, ha i capelli castani lunghi, si diverte a dire cose assurde e difficili e poi riderne da sola, ed è l’unica scrittrice di cui abbia mai sentito parlare che si è trasferita a Los Angeles non per provare a scrivere sceneggiature ma per scrivere libri, il che la rende una bestia rarissima in una città dove anche il ragazzo che impacchetta la tua spesa al supermercato ha un’idea per una serie TV che è “perfetta per HBO”.

Amelia l’ho intervistata l’estate scorsa in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, una piccola gemma sperimentale intitolata THREATS. Oggi la intervisto di nuovo. La scorsa volta venne a prendermi a Echo Park con il suo pick-up Toyota rosso scalcinato, mi portò sulle colline di Hollywood, svoltando da una strada principale a una stradina in salita che diventava sempre più tortuosa e buia man mano che gli alberi che la racchiudevano diventavano più maestosi e verdi e le case più violentemente belle e lontane dalla strada. Mi parlò di Peg Entwistle, attrice che si era suicidata nel 1932 gettandosi dalla scritta HOLLYWOODLAND, perché in quegli anni non avevano ancora eliminato la parola LAND, era ancora un cartello promozionale per il nuovo sviluppo residenziale, proprio quello che stavamo attraversando quel giorno, ottant’anni dopo. Parcheggiammo in uno spiazzo sopra la collina e passeggiammo verso quel cartello che avevamo visto migliaia di volte in versione simulacro, fin dove ci era permesso, parlando di Nabokov e Barthelme. Ricordo che incrociammo un cowboy, a cavallo, cappello e jeans e gilet sopra la camicia, che portava due cavalli dietro di sé, legati, che ci vide mentre salivamo e lui scendeva, e ci disse da lontano: «State all’interno, ai cavalli piace stare sul ciglio». Lo trovammo molto poetico. Ricordo anche che Amelia mi disse che la Entwistle si era buttata dalla lettera H.

Quest’estate la incontro al 101 Coffee Shop, un diner classico che apre alle sette del mattino e chiude alle tre di notte, noto perlopiù per una selezione variegatissima di milkshake e per essere stato il set di svariate scene di Swingers, film cult che dato il via alle carriere di Vince Vaughn e Jon Favreau. Ci vediamo, giustamente, alle otto, per colazione. Il 101 è anche noto per essere estremamente scene – termine che sta a definire, in quella maniera semi-ironica e semi-seria che hanno gli americani di usare le parole, un posto dove è divertente andar a guardare la clientela, perché, ironicamente, ci trovi gente tragica, oppure, seriamente, magari ci trovi Giovanni Ribisi o Diane Kruger. Subito Amelia mi fa notare che «almeno metà delle conversazioni in questo posto sono industry-talk», indicando il notevole numero di tavoli occupati da due uomini occhialuti di mezza età che parlano serissimi in felpa e scarpe da ginnastica.

«Un mio amico attore mi raccontò che una volta stava scrivendo sul suo portatile a un tavolo di un caffè come questo e qualcuno, passando in macchina, abbassò il finestrino e urlò “Abbandona i tuoi sogni! Non ce la farai mai!”» Mi dice questo e poi ride di gusto. Le dico la solita banalità, che alla fine tutta la città vive di questo binomio tra cercare di ottenere il lavoro dei propri sogni e la paura di non farcela. «Questa città si nutre di sogni. Sogni e cure estetiche». Ride. «Ah! E la mia estetista vuole fare la sceneggiatrice! Anzi, vuole tornare a scrivere. Ha scritto per anni per un programma di HBO Canada». E ora fa l’estetista. «Ma ha un agente». E senza un agente, a L.A. non si fa niente? Ho sentito assistenti truccatori parlare del loro agente. «Beh, sì. Io ho un book-to-film agent, qui. Una signora che di lavoro prende i libri e i racconti scritti da gente come me e cerca di venderne i diritti per l’adattamento. Però c’è un’idea che “Los Angeles” sia “Hollywood”, ed è sbagliato. Il resto del mondo vede Los Angeles e la fa corrispondere con un certo tipo di giro che è circoscritto a Hollywood, che è una stupidaggine, perché L.A. è una città enorme, e basta vedere le cifre del reddito medio nella città per rendersi conto che è una città in cui milioni di persone sono molto, molto povere – anche se gli affitti sono bassissimi, rispetto ad altre grandi città e poi ci sono altri milioni di persone che sono semplici borghesi, quasi cinque milioni di loro sono messicani, e poi c’è una manciata di ricconi, e sì, molti di loro lavorano nella industry». Ma Amelia rimane una scrittrice di romanzi, che a L.A. è una rarità. «È strano vivere qui e scrivere narrativa. Ti sembra di aver preso la decisione sbagliata tutti i giorni, specie quando senti gente al bar parlare di aver venduto una sceneggiatura per 850 mila dollari, e tu cerchi di vendere un racconto a una rivista per, se ti va bene, 500 dollari». E ride. «Ma forse non mi interessa abbastanza. Cioè, ci siamo svegliati alle sette oggi per venire qui a far colazione così da potermi tenere libera dopo per finire di scrivere un racconto. Non so se lo farei mai per una sceneggiatura».

Quando Amelia dice alle persone che scrive romanzi, nota in loro il sollievo di non dover sentir parlare dell’ennesimo film. Sono incuriositi, la trovano interessante, a volte non le credono. Gli sceneggiatori spesso si affrettano a menzionare che anche loro stanno scrivendo un romanzo. E poi conclude: «Devo dire che qui, però, gli scrittori sono rispettati. Siamo importanti. C’è un’intera industria di persone che è disposta a incontrarsi con te e darti tanti soldi e darti consigli sulla produzione di personaggi che ti inventi nella tua testa. Questo non esiste in nessun’altra città del mondo». Paghiamo, ce ne andiamo, e a un tavolo di fianco all’uscita quattro membri di una fraternity sembrano fare una gara a chi riesce a bere più milkshake e la cosa mi è familiare ma non ricordo dove l’ho vista prima.

SILVER LAKE

C’è una caffetteria, a Silver Lake, il quartiere più hipster di L.A. (per dire, c’è un ristorante intero dedicato al Currywurst, il tipico cibo di strada berlinese), dove il caffè costa 4 dollari senza essere particolarmente buono, e ha sempre la fila fuori. Si chiama Intelligentsia, ed è o vilipeso o amato alla follia da ogni persona con cui ne ho parlato. È il punto di ritrovo più hipster nel quartiere più hipster della città, ed è frequentato perlopiù da recenti trapiantati a Los Angeles, una gran parte dei quali sono di origine newyorkese, o quantomeno della Costa Est. L’antipatia che i losangelini provano per i newyorkesi arrivati in città, ed estesa poi a tappeto agli “hipster di Intelligentsia”, diciamo, è basata su un motivo specifico: non venire qui per lamentarti di quanto preferivi camminare tra le luci di Manhattan con un bagel in mano, è la regola di base, con la postilla, ma se vieni qui e ami Los Angeles, benvenuto. Nulla in confronto a come i newyorkesi parlano di L.A. e dei losangelini trapiantati: puro e totale snobismo a 360 gradi, indipendentemente da quanto il losangelino in questione ami o meno la sua nuova città. New York guarda Los Angeles dall’alto in basso, senza alcun dubbio, considerandola una specie di avanzo culturale basato sulla chirurgia estetica e la vacuità intellettuale, una visione molto provinciale e riduttiva di una megalopoli complessa e varia quanto L.A.. Indubbiamente, tra le due città non scorre buon sangue, anche se il numero di newyorkesi pressoché trentenni che si sono trasferiti sulla West Coast negli ultimi due anni è quasi da considerarsi un flusso migratorio. «Secondo me la gente si sente insicura, ha paura di aver sbagliato a trasferirsi a L.A., o a New York, e quindi difende questa decisione parlando male dell’altra città a priori. Che è assurdo: lamentarsi del fatto che a L.A. non si possa mangiare la pizza alle quattro del mattino è come lamentarsi che a New York non si possa camminare in collina mangiando un burrito. Io, di mio, amo Los Angeles, per quello che ne ho visto». A parlare è Keaton Ventura, regista che ha vissuto a New York per gli ultimi quattro anni. Keaton è atterrato a L.A. da cinque giorni, senza un biglietto di ritorno. Sta visitando la città per capire se trasferircisi o meno. È l’esempio in tempo reale del newyorkese stanco di N.Y.C., in cerca di stimoli, e che sembra averli trovati sulla Costa Ovest. «Secondo me New York è finita. Le persone con cui sono cresciuto lì stanno pian piano andando via tutte, allontanate dal costo della vita e dal fatto che New York è invivibile. E poi, l’ultima volta che sono uscito, sono andato in un paio dei miei locali preferiti con i miei amici e ho notato che l’età media del posto era ormai cinque, sei anni inferiore alla mia. New York non è adatta per gente della mia età. Mentre questo è un posto cinematico, e vario, e io amo il cinema, e la varietà. Amo davvero questa città. Volevo amarla, e la sto amando. Volevo che là fuori ci fosse un posto anche migliore di New York, e Los Angeles lo è». Un mese dopo la nostra conversazione, mi ha scritto via e-mail per dirmi che non è ancora tornato a New York, e non ha intenzione di farlo. Keaton ha venticinque anni.

 

DOWNTOWN

newyorkesi-che-si-lamentano parlano del fatto che a Los Angeles non si può andare da nessuna parte a piedi, che bisogna prendere sempre la macchina, e che questo rende Los Angeles inferiore alla Grande Mela. Keaton ama guidare, quindi per lui non è un problema. Ho chiesto a svariati newyorkesi di spiegarmi in che modo aspettare la metropolitana per venti minuti sudando come una fontana, circondato da ratti e umidità e puzza con il telefono che non prende sia in qualche modo superiore ad ascoltare classici di Warren G alla radio con i finestrini abbassati e l’aria condizionata in faccia mentre guidi in mezzo alle palme in una splendida giornata di sole, e generalmente mi hanno risposto con l’astio di cui sopra, irrazionalmente. A volte, hanno concesso che, no, ok, Downtown è bella, ricorda New York. Puoi camminare, ci sono palazzi alti, sembra una città vera. E invece Downtown è un posto tra i più irreali che ci siano a L.A.: è la città di Blade Runner senza la pioggia, letteralmente. Palazzi art deco color giada a fianco a vecchi cinema gialli con l’insegna decrepita trasformati in chiese, separati da strade larghissime. Cade tutto a pezzi. Una città mezza iper-futuristica e mezza anni ‘30 con alberi che spuntano tra un palazzo rosa che sembra un alettone della macchina di Elvis e un palazzo bianco e azzurro abbandonato con un ristorante che ne occupa i primi due piani e un negozio di computer usati che ne occupa il terzo. Membri di culti che camminano per i viali in sari multicolore e venditori di cellulari usa e getta e senzatetto e tossici di crack all’ultimo stadio. Anche a Downtown sarebbe più semplice girare in macchina che a piedi. Ecco cosa ne ha detto lo scrittore losangelino Karl Taro Greenfeld: «Dicono che è simile a New York? Sì, lo sarebbe, se New York fosse larga otto strade e lunga dodici, e se quelle strade fossero di sei corsie, e non ci fossero negozi, bar, o ristoranti. Il bello di L.A. non è Downtown». Azzardo: il bello di L.A. è l’oceano, la natura, il sole, il fatto che tutti possono permettersi un giardino, è la cultura messicana, è guidare per Sunset ascoltando hip-hop, «e poi fermarsi per prendere un cocktail nel giardino del Chateau Marmont», conclude Karl.

SUNSET BOULEVARD

È al Chateau che incontro il mio ultimo intervistato, Lee Shipman, anche lui di origine texana, trentasettenne, co-creatore, autore e produttore esecutivo di Hemlock Grove, serie horror nominata a due Emmy e prodotta dalla stessa Netflix che ha prodottoHouse of Cards. Lee non ama Los Angeles. Si è trasferito a L.A. due anni fa, con il suo collega Brian McGreevy, autore del romanzo da cui Hemlock Grove è stato tratto. «Mi sono trasferito per il programma, ma io e Brian avevamo iniziato a lavorare su qualche sceneggiatura, prima. Stavamo scrivendo un re-make di The Fury di Brian DePalma. Non se n’è fatto nulla, ma quello ci ha permesso di entrare nell’ambiente. E iniziammo a lavorare, ma venivamo a L.A. solo per qualche appuntamento e poi tornavamo a casa, io in Texas e Brian a New York. Venivamo qui, ci guardavamo in giro, ne eravamo sempre disgustati, e ce ne andavamo. Poi abbiamo venduto il programma, e questo ci ha costretto a trasferirci. Ma è solo recentemente che ho iniziato a provare un po’ di affetto per questa città». Quando gli chiedo com’è vivere il sogno a cui tanti sperano di arrivare, Lee fa una smorfia, beve un altro sorso di Manhattan. «Nei miei momenti più bui mi dico questo. Il lavoro che sto facendo è il sogno di molti. Ed è competitivo come uno sport professionistico. La carriera di uno scrittore a Hollywood dura 4 anni, in media. È brutale. E, anche se è stato brutale, non sono per niente felice di com’è venuto il nostro programma. Devi collaborare con della gente che veramente…». E lì fa una smorfia, e mi chiede una sigaretta. Per fumare, dato che siamo a L.A., dobbiamo camminare fin fuori l’Hotel. «Il problema è la catena di produzione. A volte collaborare ti aiuta, e crei delle cose fantastiche. A volte pensi: non sarò mai felice se non scrivo, dirigo, monto, produco, e interpreto ogni ruolo. A volte c’è una persona che parla a volume più alto degli altri e per qualche ragione questo vuol dire che la sua opinione va ascoltata. Ma abbiamo imparato dai nostri errori, e abbiamo deciso di fare le cose diversamente in futuro. Lontano da Hollywood». Lee e Brian hanno venduto altre due nuove serie per la prossima stagione.

 

ECHO PARK

Un amico, tifoso dei Phillies, mi disse che se non capisci il baseball non puoi capire davvero l’America. Tenendolo a mente, ho insistito con un gruppo di amici perché mi portassero al Dodger Stadium, lo stadio dei Dodgers, la squadra di Los Angeles che quest’anno sta dominando la sua divisione grazie al rookie Yasiel Puig, fenomeno cubano che di partita in partita sta cambiando i valori in campo, grazie al pitching straordinario di Clayton Kershaw e ad una dirigenza disposta a far follie pur di assemblare la miglior squadra possibile. I Dodgers sono anche la squadra che storicamente giocava a Brooklyn e che, prima di trasferirsi a L.A. nel 1958, fu la prima società sportiva professionistica americana ad integrare un giocatore di colore nella sua rosa, quel Jackie Robinson dal numero 42, il 42 che ogni giocatore di ogni squadra di baseball indossa una giornata all’anno in suo onore. È quantomeno appropriato, quindi, che il 42 sia associato a Los Angeles e alla sua diversità.

Il baseball è chiamato «the American pastime» e mai ci fu una definizione più appropriata. Non l’avevo mai visto dal vivo, ed è solo dal vivo che capisci cosa sia il baseball. In TV non se ne ha la visione d’insieme, mentre allo stadio, appena entrato e visto il diamante e le posizioni dei giocatori, capisci tutto in un istante. Non è uno sport: è un passatempo, lo si gioca solo d’estate, al settimo inning si canta tutti assieme, a volte succedono cose spettacolari, ma per tre ore e mezza su quattro ore di gara non succede niente, che è perfetto, perché ti bevi una birra coi tuoi amici, dici due stupidaggini, al sole, mangi le noccioline. Ti guardi intorno. In lontananza vedi le palme, il cielo blu. Alla tua destra, un gruppo di tifosi di origine messicana. Dietro di te, coreani. Sotto, una famiglia mista con tre figlie piccole vestite in Dodger blue dalla testa ai piedi. La mamma, rossa e lentigginosa, indossa un reggiseno dei Dodgers. Il padre sembra latino, tutto vestito di nero. Più sotto ancora un afroamericano e due ciccioni bianchi fanno un balletto imitando le mosse del pistolero e del mariachi. A un certo punto sul maxischermo appare l’immagine della “veterana del giorno”. Mostrano immagini sbiadite di una bella ragazza asiatica, sorridente, alta, in divisa della marina, che si appoggia alla spalla del suo compagno, anche lui marinaio, altissimo, spalle larghe. Sembrano una pubblicità per la bellezza del popolo coreano. Poi l’immagine taglia su una ripresa della veterana ora, ed è minuscola, piccolissima, con gli occhiali enormi, sembra un’uvetta, sorride, e applaude e sessantamila persone di ogni colore e razza e religione si alzano in piedi e urlano per lei e fischiano e battono le mani sopra la testa, e la vecchietta non se l’aspettava, ed è visibilmente commossa, e sta indossando un cappellino dei Dodgers, e se lo toglie dalla testa e lo sventola verso il pubblico, piangendo, e più lei piange e più il pubblico si esalta, e applaude per questa vecchietta coreana che ha perso qualcosa in guerra inseguendo un sogno, forse l’amore della sua vita, tutto lo stadio si sta inventando il film della vita di questa signora adorabile, una veterana che non è mai stata applaudita in vita sua e ora sessantamila persone urlano per lei e a questo punto le lacrime le scorrono giù per le guance copiosamente mentre la guardiamo allo stadio sul maxischermo e io non riesco a decidere se quando Baudrillard diceva che Los Angeles non è reale aveva capito tutto o non aveva capito assolutamente niente.

 

Dal numero 16 di Studio
Le fotografie sono di Karin Apollonia Müller. Suoi lavori sono nelle collezioni di MoMA, Whitney, LACMA. Ha pubblicato Angels in Fall (Kruse Publisher), On Edge, TC (Nazraeli Press).