Attualità

Viva Kirsten Dunst, pt. 2

Altri motivi per schierarsi nuovamente con l'attrice, sopravvissuta sia a Lars Von Trier che ai REM

di Manuela Ravasio

Avevamo stabilito le linee guida per la strenua difesa di Kirsten Dunst. E l’avevamo fatto quando in mano c’era una Kirsten in via di guarigione che sonnecchiava a fianco di un leone nella campagna pubblicitaria di Jasmine Noir, parfume di Bulgari.  Ora, abituatici alla sua nuova mise bourgeoise, e non più eterea creatura (ma già sinistra) di lei ne Il giardino delle Vergini Suicide, Kirsten si è messa a nudo nella suddetta campagna conscia che stava cambiando direzione. Che gli affezionati delle sue imperfezioni avrebbero subito uno scossone. Non più leggerezza oltrazista-grungista, e non più l’annosa ricerca di personaggi anni Novanta e tristezza. Beata, si cresce e Kirsten lascia per strada anche quelle manie da semi danese non ancora a suo agio negli States.

A distanza di mesi, la difendiamo ancora. Perché Kirsten Dunst va difesa, anche solo per il suo restare in sordina, deambulare al limite tra tristezza e paranoia, non farne un biglietto da visita vincente e anzi oscurarsi un po’. Sembrava che la sua performance migliore nell’agognato (primo) welcome back fosse quello dell’amica amante di telefono in Elizabeth town, dove teneva spalla e dava lezioni sulla recitazione giovanil/istica a Orlando Bloom. Ma anche lì non stava bene Kirsten, non è sempre così facile sopravvivere nel fast food vegano del cinema indie (ma blockbuster-abile). Quindi si meritava un secondo, iconico, welcome back.

Segno che quel veleno negli occhi chiamato malinconia può tornare utile quando Kirsten appare in Hunter di plastica e t-shirt come da suo copione (quindi slabbrata) in un giardino apocalittico di Lars Von Trier:  palmi aperti verso lo spettatore, ti ghiaccia alla poltrona e ti lascia lì. A vedere cosa sa fare. Non importa che la prova di accanimento alla bella vita del regista danese possa essere sviscerata in molteplici fronti, neppure che Von Trier faccia furbescamente esplodere il mondo per liberarci tutti dal male, il perno del film è solo negli occhi, apocalittici appunto, di Kirsten Dunst che in Melancholia è finalmente a suo agio. Lo è perché inizia con un abito da sposa bianco, si diverte a portare a spasso quella meringa piena di amore e vita-nuova, sorride con quel fare capriccioso che crea la prima, incolmabile, spaccatura su chi ama e chi non ama Kirsten Dunst. Poi mentre la trama e la notte calano verso il nocciolo del film, Kirsten si stufa di portare quel corpetto a cuore (altra mise che oltre alle t-shirt logore le piace esibire sui red carpet lei, che ha uno dei décolletée più burrosi, e belli e forse rifatti di Hollywood) e anche di tenere gli occhi così sgranati.

E lì inizia il declino e la rinascita, ufficiosa, della Dunst: poche scene cult – lei che fa pipì nel green da 18 buche lo è?- e molti sguardi languidi e satanici mentre il pianeta azzurro si  sta annunciando. Nuovo nudo integrale e polaroid preraffaellite, la bellezza della Dunst diventa quella di una donna (vedi Bulgari di cui sopra) e abbandona qualsiasi cliché attribuitole negli anni. Oltre alla pellicola, perché è un dato di fatto che l’attrice sia l’unica uscita indenne alla paranoia e al sadismo di Von Trier. Nessuna l’ha vista presentare il film vestita da cigno (vedi Bjork che alla fine di Dancer in the Dark piagnucolò, «mai più, mai più») né congelarsi il viso per paura del tempo come la Kidman post Dogville. Anzi, quando a maggio davanti alla creme di Cannes il regista venne scacciato per paroline antisemite la Dunst stette lì a prendersi lodi e premi per quel film borghesissimo, e forse tra i più crudeli, di cui lei disse “con Lars ne farei subito un altro.”

Eppure se pensavamo che Kirsten avesse trovato in Von Trier la più consona condizione per la sua tristezza, impalpabile ma perenne negli occhi e nelle risatine isteriche, la smentita di questa ovvietà viene dalla sua ultima, dolcissima, performance nel video dei REM. L’ultimo video della band, We all go back to where we belong, dove nella doppia versione (una è con Kirsten Dunst l’altra con John Giorno) Michael Stipe ritrae i due protagonisti  e li lascia interpretare l’ultima canzone di sempre della band. Tre minuti abbondanti dove a Kirsten è chiesto di essere sincera e lei, bolerino e scollatura a cuore (ovvio) ride, sorride, canta ma forse sussurra, guarda intristita gli occhi di chi la sta dirigendo e prende coscienza di essere ancora una ragazza degli anni Novanta nonostante il suo cv parli degli anni Zero. Perché è sopravvissuta a Scarlett Johansson (quando l’altra bionda si imponeva con curve medesime e labbra più aggressive) e al tempo che non se l’è divorata mai. E che la riporta al punto di partenza ogni volta, we all go back to where we belong.