Attualità

Decostruzione dello scrittore famoso

Dostoevskij il depresso, Kafka che prende la metropolitana come gli altri. Due libri appena usciti ci ricordano che gli scrittori, al di là del mito, sono anche persone.

di Francesco Longo

Chi era veramente Dostoevskij? Chi era veramente Kafka? Intorno ai giganti della letteratura fioriscono sempre leggende: ma più si moltiplicano gli aneddoti e si esaspera il loro mito, più i loro volti sbiadiscono e i profili appaiono privi di caratteri umani. Ciclicamente si deve dunque lavorare per sottrazione, scrostare gli autori dalla loro fama. Due libri appena usciti seguono questa strada. Il giardino dei cosacchi di Jan Brokken (Iperborea) e Questo è Kafka? di Reiner Stach (Adelphi). Jan Brokken ha avuto accesso alle lettere di Alexander von Wrangel, barone russo di origini baltiche, diventato amico di Fëdor Dostoevskij durante gli anni che lo scrittore trascorse in Siberia come prigioniero politico (dal 1850). Fu condannato, tra l’altro, per partecipazione a progetti criminosi e per diffusione di scritti antigovernativi.

In tutte le interviste rilasciate a proposito di questa biografia di Dostoevskij, Brokken dichiara: «Non ho inventato nulla». Ha messo in scena una storia reale e sistemato uno sfondo a vicende vere, a partire dalle lettere che testimoniano quei pochi tragici anni della vita di Dostoevskij. I primi quattro anni in Siberia, Dostoevskij vive da condannato, con le catene ai piedi, poi viene trasferito a Semipalatinsk (1854) dove deve scontare la seconda parte della pena, e l’unico spiraglio di felicità è la conoscenza di Marija, donna che lo fa sognare, ma che è già sposata. Brokken restituisce un Dostoevskij molto umano, sofferente, debole, in crisi. All’inizio è diffidente e ritroso, guarda Alexander con occhi afflitti e pensosi. Poi l’amicizia tra i due si fa più solida e i suoi tratti si fanno sempre più distinti: «Amava il giardinaggio e più di una volta ricordò l’appezzamento di terra dei genitori nella sua infanzia». Alexander ha l’impressione che lo scrittore russo stia sempre mentalmente scrivendo, anche mentre dà l’acqua alle piante. Insieme cercano di condurre una vita normale, soprattutto parlano, vanno a nuotare in un fiume: «Dopo esserci rinfrescati con il bagno, ci sedevamo fuori sulla veranda a prendere il tè o a pranzare. Leggevamo i giornali, fumavamo la pipa, rivangavamo i ricordi dei nostri parenti e delle persone care, sognavamo di Pietroburgo e imprecavamo contro l’Europa».

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La Siberia non è solo nevi e ghiaccio. L’estate è calda, si cuociono le uova nella sabbia. Alexander trova una dacia con un giardino. Dostoevskij lascia la sua squallida baracca e si trasferisce dall’amico: «La dacia apparteneva a un ricco mercante cosacco e portava il nome di “Giardino dei cosacchi”. Già solo per quel nome F.M. [Dostoevskij] fu contento di venirci». Brokken scrive che Dostoevskij: «Era diventato tranquillo, energico, allegro. Ma quella tranquillità svanì da un giorno all’altro». Il primo crollo arriva quando la donna di cui è innamorato deve partire: «La disperazione di Fëdor Michajlovič era immensa, l’idea di essere separato da Marija lo faceva impazzire». L’autore di Delitto e castigo, l’emblema della letteratura ottocentesca, lo scrittore per cui non si fa fatica a usare la categoria di “classico”, è raccontato da Brokken così: «Dostoevskij piangeva forte e a lunghi singhiozzi – fu una cosa straziante».

Il lato privato, gli atteggiamenti meno esposti e la vita intima sono gli aspetti scelti anche da Reiner Stach per comporre un ritratto inedito di Franz Kafka che lo liberi dai cliché: «Nel preconscio culturale si è mantenuta un’immagine stereotipata, che riduce Kafka a una sorta di essere alieno». Kafka, come ricorda l’autore di Questo è Kafka? è effettivamente spesso ridotto a un essere «avulso dalla realtà, nevrotico, introverso, malato, un uomo inquietante che suscita cose inquietanti». Una ricerca biografica che scavi in dettagli marginali – mettendo a fuoco piccole abitudini, inclinazioni comuni o addirittura banali – è necessaria per passare dal Kafka divo letterario del malessere a un Kafka uomo reale. Il libro di Stach restituisce in un modo brillante e imbevuto di ironia tante storie che paiono incompatibili con l’ossidata icona dello scrittore praghese. Alcuni titoli di capitoli sono meravigliosamente illuminanti, e bastano da soli per capire il testacoda che possono indurre nell’immaginario del lettore: “Kafka sputa dal balcone”, “Kafka inventa la segreteria telefonica”, “Kafka prende la metropolitana”.

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Possiamo davvero ammettere che Kafka – simbolo del labirinto senza uscita della psiche – prenda la metropolitana? Ad alimentare i miti sull’autore del Castello e del Processo «sono soprattutto i mezzi di comunicazione di massa lontani dalla letteratura», dice Stach, ma «anche per i lettori più esperti è estremamente difficile non lasciarsi fagocitare da simili stereotipi culturali». Se sono state spesso foto e immagini a creare questo schiacciamento, a rendere bidimensionale un autore complesso (e soprattutto un uomo), ne serviranno altre, di segno opposto, per mostrare lo scrittore «in contesti insoliti, sotto una luce insolita». Questo è Kafka? confida nella forza mistificatrice delle immagini quanto nella loro capacità di decostruire il mito. L’autore ci avvicina a Kafka usando vecchie foto che aprono squarci sulla sua identità e sull’epoca che rappresenta. Allora «come per la maggior parte dei borghesi del tempo, anche per Kafka la frequentazione delle prostitute era un problema di ordine non tanto morale, quanto piuttosto igienico (…). Ancora all’età di trentasei anni Kafka – in presenza della madre – si sentì dire dal padre che avrebbe fatto meglio ad andare al bordello piuttosto che fidanzarsi con la prima venuta».  A Praga abbondavano le case chiuse e le ragazze che nei locali notturni si offrivano a pagamento, «almeno in due occasioni Kafka entrò in relazione con donne del genere». In una delle tante fotografie contenute nel libro si vede Kafka, con cappotto e cappello, con uno dei suoi amori infelici, la cameriera Hansi Julie Szokoll. L’ultima visita a un bordello di Kafka, cui si ha notizia, è del gennaio 1922.

Abbiamo bisogno di eroi, di scrittori rassicuranti come paesaggi nelle cartoline, ma soprattutto abbiamo bisogno di scrittori che incarnino nevrosi e dolori di un’epoca intera. Ci servono romanzieri che sappiano portare per noi il peso di tutto ciò che ci sfugge. Ci aggrappiamo a scrittori che hanno preso per noi l’onda d’urto della modernità, vogliamo scrittori parafulmini, scrittori gommapiuma, che attutiscano per noi i traumi. A parte le loro opere, li consideriamo dei giganti se riescono a sopportare ciò che per noi è intollerabile, o se sono al posto nostro ciò che noi vorremmo diventare: bandiere di valori morali, lanterne per non smarrirsi, guide. Quando non ci riescono, cuciamo loro addosso queste maschere per renderli sacri, distanti, puri come oggetti da venerare. È giusto che qualcuno ci ricordi che gli scrittori sono anche persone. Dostoevskij di Jan Brokken è tormentato dalla gelosia, epilettico, apatico, depresso, con un debole per le sgualdrine. A pagina 322 sappiamo cosa accadde di tremendamente spiacevole durante la sua prima notte di nozze, quando finalmente riuscì a sposare Marija, nel 1857. Vogliamo idolatrare Kafka, ma Kafka fa ginnastica.

Nelle immagini: nel testo la statua di Fëdor Dostoevskij a Tobolsk, Siberia (Alexander Aksakov/Getty Images); in evidenza copertine con l’effigie di Kafka in un negozio per turisti di Praga (Michal Cizek/Afp/Getty Images).