Attualità

Le parole del presidente

Anteprima (americana) per 1600 Penn, la serie comica sulla Casa Bianca scritta da Jon Lovett, ex speechwriter di Obama, dalla politica alla tv.

di Filippo Sensi

Capita spesso che gente di Hollywood finisca alla Casa Bianca, e non si tratta solo di Ronald Reagan, no. Pensare a Kal Penn, catapultato dal cinema e dal Dottor Houseall’Office of Public Engagement di Barack Obama, una specie di agenzia di lobbyinginterna a Pennsylvania Avenue.

Meno frequente il contrario, e cioè una carriera tra cinema e televisione per chi viene dalla Casa Bianca. Tanto più se prestato alla amministrazione come wordsmith, come paroliere e depositario del Verbo del Presidente. Uno speechwriter come Jon Lovett, ad esempio, 30 anni, così diverso dall’altro Jon, il cerebrale Favreau che mette in bocca a Obama le parole da sette anni.

 

Tutte le parole del Presidente

Che poi sono importanti le parole per il Presidente, lo ricorda il suo collaboratore più stretto, David Plouffe, nel suo racconto della campagna 2008, The Audacity to Win. Quando Obama non si fa bastare i comunicati stampa e le interviste per affrontare di petto la questione del colore della sua pelle e le manovre attorno al controverso reverendo Jeremiah Wright, e comunica ai suoi che farà un discorso, quel discorso, punto di svolta nella corsa che lo portò alla Casa Bianca.

Quando è in difficoltà, Barack si affida al “bully pulpit”, al podio presidenziale. Il discorso è la forma stessa della sua leadership, così poco pugilistica, più orchestrale, competitiva e una punta professorale. Performativa, nel senso di John Langshaw Austin, il filosofo analitico degli atti linguistici che producono effetti per il solo fatto di essere pronunciati.

Obama si segnala al suo partito con un fiammeggiante intervento alla conventiondemocratica di Boston nel 2004. Lancia la candidatura alla Casa Bianca tre anni più tardi a Springfield, nel suo Illinois, all’ombra del Campidoglio dove Abraham Lincoln pronunciò lo storico discorso sulla “casa divisa”. Si conquista il resto del mondo sotto la Colonna della Vittoria, nel 2008, sulla scia di quell’Ich bin ein Berliner di John F. Kennedy. E ancora, la notte del trionfo al Grant Park a Chicago, i discorsi sullo Stato dell’Unione, liturgia presidenziale, gli annunci dei momenti-chiave come la morte di Osama bin Laden.

Per questo ci vuole uno come Favreau, con la sua capacità telepatica di leggere nei pensieri di Obama e di trasferirli nelle parole per dirli. Ma lo speechwriting, questo processo individuale e collettivo, alla Casa Bianca non è un paso doble.

Per dire, l’altro Jon, Lovett appunto, prima di lasciare tutto per andare a scrivere una serie tv per la Nbc, intitolata guarda caso 1600 Penn, accanto al Presidente c’è rimasto per tre anni circa. Durante i quali questo ragazzo con una laurea in matematica e una passione per il palcoscenico si è segnalato per il suo tocco nei discorsi sulla riforma finanziaria e, soprattutto, per l’intervento di Obama sul “Don’t ask, don’t tell”, mossa decisiva perl’appeasement con la comunità LGBT.

Lovett, però, è uno stand-up comedian nato, lo aveva fatto a New York prima di finire nella campagna di John Kerry nel 2004 per passare poi alle dipendenze di Hillary Clinton, in versione senatrice e candidata alle primarie. «Sei divertente?», gli chiese l’allora capo della comunicazione di Hillary che, come rivela un ritratto di Lovett firmato da Jason Horowitz sul Washington Post, cercava qualcuno che potesse scriverle quei discorsi divertenti che fanno parte degli impegni pubblici di un politico in America.

Fatale che, una volta passato alla Casa Bianca, a Lovett toccassero occasioni importanti come la cena dei corrispondenti, uno di quegli appuntamenti in cui battute e lepidezze misurano il witz e la capacità di connettersi del Presidente. Come spiegava qualche tempo fa un ex-speechwriter presidenziale, Landon Parvin: «Se riesci a prenderti un po’ in giro, significa che puoi essere un po’ come noi altri».

E Jon questo talento empatico, questa capacità di unire i puntini con ironia ce l’ha sempre avuta. Come ha dimostrato due anni fa, vincendo una competizione per la “personalità più divertente” a Washington, una sfida sul palco a far ridere di più il pubblico entro uno stretto limite di tempo. Lovett ha imitato sotto i riflettori Arianna Huffington e ha battuto nel gradimento della sala, composta per lo più di giornalisti e staffer di Capitol Hill, sia il democratico Rick Larsen, arrivato secondo, sia l’ultraliberista Grover Norquist, medaglia di bronzo.

Uno spirito che, secondo Lovett, anche il Presidente condivide: parlando all’Hollywood Reporter della sua nuova vita come sceneggiatore tv, l’ex-speechwriter ha ricordato come, in occasione delle cene con i corrispondenti, Obama «non avesse affatto timore di andare oltre perché sapeva cogliere l’opportunità di farsi beffe del lato assurdo e superficiale di Washington».

 

Una famiglia disfunzionale

La stessa ironia che oggi questo trentenne applica alla ideazione e alla scrittura di unasitcom incentrata, te pensa, sulla Casa Bianca. No, non quella reale che ha sperimentato in prima persona, ma quella abitata dalla famiglia Gilchrist: il papà, presidente, interpretato da Bill Pullman (non è la prima volta, lo fece anche nel blockbusterIndependence Day); la seconda moglie, Emily (Jenna Elfman); il figlio maggiore, Skip (Josh Gad, stella del musical di Broadway sul “Libro dei Mormoni”) e il resto dei ragazzi, Becca (Martha Macisaac), Marigold (Amara Miller) e Xander (Benjamin Stockham), sotto l’occhio vigile dell’addetto stampa Marshall Malloy (Andre Holland).

A giudicare dal cast, la serie della Nbc non sembrerebbe un sequel di West Wing, la madre di tutti i telefilm sulla Casa Bianca, firmato da Aaron Sorkin; forse più una risposta a Veep, l’incursione nella politica americana del britannico Armando Iannucci, creatore diThe Thick of It, ritratto impietoso dello spin che gira attorno a Downing street e a Whitehall.

Produttori e sceneggiatori di 1600 Penn, assieme a Lovett, lo stesso Gad e Jason Winer che, con Modern Family, ha fatto il pieno di Emmy. «Naturalmente la mia esperienza inciderà su quello che scrivo – si cautela Jon – ma i Gilchrist non avranno nulla a che fare con la famiglia del Presidente Obama, è un nucleo familiare disfunzionale, lontanissimo dalla vera first family».

Resta da vedere in che misura tre anni passati a stretto contatto con il Comandante-in-capo, accompagnandolo ad esempio in giro per gli Stati Uniti a “vendere” la riforma sanitaria, finiscano per influenzare lo sguardo dell’ex-speechwriter su una Casa Bianca televisiva.

 

Sognando M*A*S*H

Prima di Lovett, un altro paroliere del Presidente (nello specifico Bill Clinton e anche il suo vice, Al Gore), era passato dalla stesura dei discorsi ufficiali alla scrittura di sceneggiature (West Wing prima, Dottor House poi), Eli Attie. Il film Knife Fight, con Rob Lowe, sui gomiti aguzzi della politica americana, molto atteso dopo il successo delle Idi di marzo con George Clooney, si basa, invece, sul lavoro come spin doctor di Chris Lehane, consulente politico ed ex-collaboratore di Clinton.

Non sono molti, insomma, anche se ce ne sono, i precedenti. E tuttavia la peculiarità di Lovett, il comico, forse è un unicum nella storia degli sconfinamenti dal politico al mondo dello spettacolo.

Lui, che intanto scrive per l’Atlantic per il quale ha seguito i dibattiti tra i candidati alla Casa Bianca, carezza l’idea di un remake di M*A*S*H, la serie in uniforme con Alan Alda, Jamie Farr e Loretta Swit. E teme di tornare scornato al suo vecchio lavoro di penna della politica, se le cose andassero male per il suo progetto televisivo.

Sì. lui che venne scelto con una selezione tra testi anonimi per garantire la massima trasparenza nella scelta del ghostwriter di Obama, adesso – come ha raccontato a Horowitz – vedrebbe come una sconfitta il ritorno a Washington («Non sarebbe ideale» per usare l’eufemismo con cui ha risposto al Post).

David Axelrod, il fidatissimo consigliere del Presidente, lo aveva detto: quel ragazzo, quando si trattava di inventare le battute per la cena dei corrispondenti, «andava inoverdrive da commedia». Jon lo ammette, anche sul suo profilo di Twitter, come uno “scrittore di barzellette”. No, difficile che torni indietro, anche se una mano alla sua parte politica, lo confessa, vorrebbe continuare, comunque, a darla.

 

Articolo tratto dal numero 11 di Studio
Nella foto, il cast di 1600 Penn, la serie scritta da Jon Lovett