Attualità

Cosa significa raccontare la vita di un altro

Su My Own Life, la biografia di John Aubrey, erudito del Seicento, che sta facendo parlare della sua forma: un invito a riflettere sulla vitalità di questo genere letterario ed editoriale.

di Gianluigi Ricuperati

Immaginate un modo etico di ricamare ossessioni sulle vite degli altri. Immaginate il contrario di ciò che ha fatto Claudio Gatti facendo esplodere il Sottomarino Giallo di Elena Ferrante. Nelle librerie mentali degli ultimi vent’anni il reparto “biografie di celebrità” si è intrecciato in diversi casi con il (più difficile da definire) reparto “letteratura”, sopratutto negli Stati Uniti splendidi oggetti non identificati, ma di ampio successo commerciale, come Open, la storia di André Agassi, oppure Roth Unbound di Claudia Roth Pierpont, o l’interessante lavoro che D.T. Max ha fatto su David Foster Wallace (anche Max, come la Pierpont, non casualmente collaboratore assiduo del New Yorker, i cui pezzi ogni settimana catalogati come profiles altro non sono che frammenti di biografie di persone notevoli scritte in modo notevole). In Italia un campione idiosincratico di questo genere idiosincratico è stato per tutto il secondo Novecento Cesare Garboli, titolare di un’idea di prosa letteraria critica molto inventiva in cui il dato biografico del soggetto narrato non temeva mai l’incrocio con un approccio ermeneutico alto e a tratti molto rigoroso (penso all’introduzione meravigliosa all’edizione Einaudi/Gallimard delle Memorie di Oltretomba di Chateaubriand, o alle avventure filologiche di libretti piccoli e perfetti come Penna Papers, dedicato al poeta Sandro Penna).

Ora immaginate un biografo tenero, induttivo, visionario: non violento, deduttivo, investigativo, un osservatorio sotterraneo ed entusiasta sulle vite dei suoi contemporanei di spicco, un Vasari nello scafandro, così attento a non infangare lo scafandro altrui da tenersi tutte le sue storie per sé, fino alla tomba, e produrre infine una vasta opera postuma. Immaginate la persona più interessante, intuitiva, volitiva e umanamente connessa che conoscete: poi immaginate la persona più umanamente connessa, volitiva, intuitiva e interessante che questa persona conosca. Poi immaginate la persona che viene dopo, e ancora dopo. In quattro passaggi dovreste giungere a una realistica approssimazione di quello che potremmo definire un testimone affidabile dello sviluppo della vita intellettuale del nostro tempo. La versione Ventunesimo Secolo di John Aubrey, in pratica. Prima di chiedersi chi sia John Aubrey – per quelli che non lo sanno, per i fortunati che ancora non lo hanno letto – conviene fare ancora un passo in là. Immaginate che un nostro lontano pronipote raccolga i frammenti che questa persona fantomatica abbia disperso nella sua vita digitale fisica e sociale, e li aggiorni nella lingua del futuro, e doni loro una qualità narrativa e consequenziale. Il John Aubrey del XXI secolo avrà allora la sua biografia geniale (il vero amico geniale è un biografo molto talentuoso), come quella che Ruth Scurr, scrittrice e studiosa inglese, ha dedicato al vero John Aubrey, quello del Diciassettesimo inglese, vissuto in Inghilterra – un testimone affidabile della migliore civiltà del suo tempo, e di sicuro una delle persone più interessanti e dotate che tutte le menti della società intellettuale britannica potessero incrociare all’epoca – l’epoca, vale la pena di ricordarlo, in cui la stampa e il formato-libro hanno conosciuto la propria definitiva diffusione consacrata: quando le librerie erano come gli Apple Store.

John Aubrey

John Aubrey è stato un lume multidisciplianare ante litteram: primissimo archeologo d’Albione (a lui si devono importanti studi su Stonehenge), fisico, scienziato, collezionista e studioso della cultura materiale dei secoli precedenti, catalogatore e poligrafo ossessivo, amico di Locke, Newton, dell’alchimista John Dee e del metafisico Thomas Browne (quello di Religio Medici, il cui spirito letterario tormentava W.G. Sebald ne Gli anelli di Saturno), ha scritto diversi testi e ne ha pubblicato uno solo (in vita): il più universalmente noto tra i numerosi parti di una mente incendiaria e curiosa di praticamente tutto è apparso in modo unitario nel Novecento grazie a Anthony Powell sotto il titolo di Vite brevi di uomini eminenti (Adelphi l’ha ripubblicato in tascabile quest’anno): si tratta di brevi e lancinanti biografie di intellettuali e artisti del suo tempo, composte meravigliosamente e con una libertà mentale assoluta e molto moderna. Era dunque un biografo. Come dice il grande Rodolfo Wilcock, che Vite eminenti l’ha tradotto, firmandone la prefazione e una silloge enciclopedica (una sorta di indice biografico in appendice a un libro di biografie, inciso in una prosa basculante perfetta): «Le biografie in genere sono interamente false ma le vite  – nel senso classico di raccolta di pettegolezzi persino improbabili – costituiscono sempre un insieme coerente; non già come l’autore vede una data persona, bensì come questa persona è stata vista da tutti: questa, l’opinione del mondo, è quel che il mondo intende per la vita di una persona. Altra vita per il mondo non c’è».

Il libro di Ruth Scurr, che è stato definito dalla critica su entrambi i lati dell’Oceano Atlantico come «un game-changer nel suo genere» è, appunto, una variazione illuminante su cosa può essere una biografia: un’estensione elastica dei limiti di una forma, pensata non come categoria commerciale (nel mondo anglosassone assai rilevante, com’è noto), bensì come codice espressivo autonomo. In sostanza, come arte. Ruth Scurr ha fatto ciò che oggi ci viene così istintivo pensare come un omaggio alla curiosità e alla qualità di qualcuno che ammiriamo profondamente: ha raccolto tracce sparse e ha donato loro nuovo smalto, rinunciando alla purezza accademica e filologica – cioè riscrivendo, in sostanza – interi passi di diario di John Aubrey, ma anche creando da zero una cronologia della sua esistenza, una struttura capace di restituire intelligibilità e claritas a un complicato grumo di note, frammenti, tagli di pagine sparse e frante nel corso di una vita che è stata (anche) una grande avventura (non solo mentale). In altre parole, Ruth Scurr, senza inventare nulla, ha interpretato il materiale autobiografico rilasciato da Aubrey e lo ha narrato come un diario progressivo, dal 1634 al 1697, forzando ogni vincolo del patto narrativo realistico e insieme rispettando al millimetro la veridicità delle fonti.

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John Aubrey. My Own Life (da notare il nome del soggetto scritto sulla copertina con i medesimi caratteri e dimensione del nome dell’autrice, e del titolo, con quel possessivo che indica più una riconquista che un mero atto di proprietà. Ruth Scurr sembra dirci fin dalla copertina di questo capolavoro anomalo (per certi versi analogo alla sensibilità saggistico-romanzesca di Roberto Calasso, altro formidabile descriptor con scafandro da fonti densissime) che nessuno è veramente in grado di possedere alcunché, quando si tratta della impalpabile sostanza spazio-temporale che ci attraversa nel lungo arco tracciato dal nostro essere-per-il-mondo. In questo mirabile tentativo di biografia di un biografo emerge la tenue, crescente impossibilità che ogni biografia non sia opera d’invenzione. Se già Philip Roth aveva dato a questa sensazione il nome di Controvita, forse qui dovremmo parlare di absco-vita, perché la pulsione a raccontarsi, a «lasciar traccia di sé» è qui decriptata con un gesto archeologico e costruttivista: uno scavo e un’accelerazione.

Per rendersene conto basta aprire le ultime pagine del libro di Ruth Scurr. Siamo nel 1697, il secolo del Barocco sta per chiudersi e la luce elettrica del Settecento sta per spazzare via molte delle ossessioni per il meraviglioso e l’interconnesso che hanno guidato la mente di Aubrey. L’uomo è stanco, sofferente, soffre di gotta e della speciale malinconia di chi sa di non essere stato del tutto compreso: ha scritto tantissimo, ha registrato tutto, ha conosciuto tutti, ma forse avrebbe meritato più fama. Le note che Ruth Scurr ha raccolto e rimodulato in queste ultime pagine sono a dispetto di tutto ciò luminose e commoventi – il riflesso quasi verista di una coscienza che sa di non aver sprecato il suo tempo, nonostante tutto. Il capitolo si chiama Crepusculum. Una delle cose che si imparano da questo volume è che all’epoca gli autori facevano una sorta di crowdfunding per pubblicare i propri testi, perché in Inghilterra la carta era costosissima e non c’era solo la necessità di un mecenate, ma di più ‘sottoscrittori’ per convincere editori e librai. Le note, man mano che si avvicina la fine, sono sempre più scolpite e scandite da lunghi mesi di silenzio. A me, per complesse ragioni che sarebbe impudico illustrare qui, quest’ultima pagina che traduco di seguito, frutto della cooperazione secolare di un erudito seicentesco e di un’erudita del Ventunesimo secolo, ha fatto quasi venir da piangere:

 

Anno 1697

Gennaio

Ho presentato alla Royal Society una copia delle Miscellanies, mio unico libro stampato finora. Ho fatto correzioni e aggiunte a mano. Ci sono tante cose che vorrei aggiungere e mancano perciò nel testo stampato

Ho scritto per domandare a Mr Lhwyd di passare il mio testo Remains of Gentilisme al dottor Charleton, perché egli possa operare una sua revisione. E ho già chiesto a quest’ultimo di rendere il mio manoscritto Idea di educazione pronto all’attività di trascrizione per il momento della mia visita a Oxford.

Giugno

Visiterò Oxford durante il percorso che mi condurrà a visitare la mia a lungo onorata amica Lady Long.

Gli uomini pensano che visto che chiunque ricorda un fatto memorabile subito dopo che esso è accaduto, tale fatto non verrà mai dimenticato; e così si finisce per non registrare alcunché, e il fatto viene lasciato all’oblio.

Ho sempre fatto del mio meglio per recuperare e preservare le antichità, che altrimenti sarebbero state drasticamente perdute e dimenticate, anche se il mio strano destino ha voluto che non potessi mai godere di un intero mese, o sei settimane, di piacere e contemplazione.

Di ciò che è passato, ho salvato quel che sono riuscito a sottrarre dai denti del tempo.

Le cose antiche sono come la luce dopo il tramonto – da principio chiara – ma poi, e sempre di più, giunge il crepusculum – e infine la totale oscurità.

 

La prossima volta che scrivete su Facebook due righe su una persona che non c’è più – o la prossima volta che volete rivelare l’identità nascosta di una brava persona che scrive ottimi romanzi – pensate a John Aubrey, alla sua vita esemplare, e ai denti del tempo.

 

Immagini Getty Images.