Attualità

Ossessionate da Joan Didion

Il documentario di Griffin Dunne contribuisce all'esaltazione del mito della scrittrice come icona di stile, eleganza e carattere, prima ancora che genio letterario.

di Valeria Montebello

Joan Didion si svegliava tardi la mattina e faceva colazione con gli occhiali da sole neri anche dentro casa, bevendo una Coca Cola. Ha un problema con i serpenti, è molto magra e capricciosa. Le piace stare davanti all’Oceano, quello che si vede dalla sua casa isolata vicino Malibu, nella zona di Trancas, ristrutturata da un giovane Harrison Ford allora carpentiere. Ecco l’assurdo: per caso, Ford, che diventerà da lì a poco Harrison Ford, ha costruito le scale che la portano al mare, la palafitta dove prende il sole. È come se ci fosse il magnete del successo intorno a lei, della fortuna, un cerchio d’oro in cui tutti quelli che entrano diventeranno famosi.

Questi sono alcuni degli elementi che si possono notare guardando The center will not hold, il documentario su Netflix che racconta la vita della scrittrice attraverso le sue parole, intervistata dal nipote Griffin Dunne. Da quando era bambina scriveva storie, racconti geniali sul suo blocchetto Big 5 blu – il primo parlava di una donna che pensava di morire congelata nella notte artica ma la mattina dopo si ritrovava nel deserto del Sahara dove sarebbe morta di caldo. Aveva cinque anni e da lì in poi Didion si sarebbe mossa in funzione della sua vocazione: fare la scrittrice, essere una scrittrice. Tutti i docu-ritratti sono strutturati così: cosa rende unico questo personaggio? La sua ossessione. Se vuoi fare bene una cosa devi fare solo quella, sennò ti perdi, ti sprechi, ti spandi male.

Anche la sua storia con John Gregory Dunne rientra in questo disegno fatale. Non avrebbe mai potuto stare con uno che non faceva lo scrittore. «La mia relazione con John è stata una decisione». Non sa cosa significhi innamorarsi, confessa, nessun uomo l’ha mai portata sull’ansa del fiume dove crescono i pioppi, il suo John non era John Wayne ma scriveva bene. Mentre Didion parla alla telecamera non si riesce a non rimanere ipnotizzati dalle vene blu-viola che escono fuori dalle mani e dai polsi, quando l’obiettivo si blocca per più di qualche secondo su quelle parti del suo corpo viene quasi da coprisi gli occhi.

Com’è che non mi sveglio con gli occhiali da sole Chanel e non faccio colazione bevendo Coca Cola? Perché non sono ossessionata dalla Coca Cola? Perché non mi arrabbio con tutti se non c’è una Coca nel frigo? Bisogna essere strani, capricciosi, coraggiosi, e pure egoisti. Ma soprattutto bisogna essere ossessionati da una, massimo due cose. Tipo scrittura e Coca Cola. Questa sembra essere la ricetta, la regola. Rassicurante. Ma forse ci si può pure perdere: se devi scrivere scriverai anche al wc, se devi dipingere lo farai in ogni caso, se devi qualcosa non sarà certo la contingenza a fermarti. Pauroso, ma non c’è una strada giusta per arrivare dove si vuole arrivare. Invece di ossessionarci con le cose che ci piacciono ci ossessioniamo guardando le persone che fanno le cose che ci piacciono o che crediamo potrebbe piacerci fare.

Quanti si fissano su cose che non sono capaci di fare solo perché sono stati conquistati guardando il docu-film su Saint Laurent o Frida Kahlo? Questo è l’unico motivo per cui si guarda fino alla fine questo doc pallosissimo su Didion, per sperare di diventare come lei, per mangiarla con gli occhi, per pensare bene, Didion a 28 anni si sentiva persa a New York e se ne voleva andare. Ok, era redattrice di Vogue ma questo è un dettaglio. Chi l’ha finito di vedere e poi si è sentito molto bene o molto male ha un problema. Perché i miti diventano modelli? Dovrebbero prelevarli dal pianeta terra e spostarli in un universo parallelo, un universo in cui Dio non diventa uomo. Didion non è solo modello di giovani wannabe scrittrici quindi modello di contenuti, anche se spesso non si tratta tanto di contenuti ma del suo successo.

È modello anche non intellettualizzato, fisico, svuotato, per profili e profili di anoressiche su Tumblr. Sotto #inspirational o #goal (per mascherare l’ossessione in qualcosa di più condivisibile) svetta Didion con i suoi occhialoni e il pendente da maga di Céline – in una foto di qualche anno fa, quando è stata scelta come testimonial dal brand. Didion diventa una serie di foto messe insieme per celebrare non le sue doti di scrittrice ma la magrezza estrema in certi periodi della sua  vita. Sigaretta in mano onnipresente, vestiti lunghi monocromo, anche sporgenti, viso scavato, sguardo sempre intenso ma spaurito. È una Didion parallela, la Didion-ana-chic. Just Another Anorexic riporta una sua citazione «Life changes fast. Life changes in the instant. You sit down to dinner and life as you know it ends». 1481 Hyperion scrive, insieme alle dosi di Corn flakes mangiabili in un giorno, che c’è una stretta relazione fra disturbi alimentari e creazione. Cita, insieme a Didion, Kafka, Louise Glück, Eavan Boland, Virginia Woolf. «Poetry and disordered eating, especially anorexia, have a lot in common». Per esempio la precisione, prendere solo il necessario, essere scarni.

Guardare il documentario su Didion è passare il tempo a voler essere qualcun altro, immedesimarsi e ammirare il suo cerchio magico per sentirsi sempre esclusi. È come non perdersi le Stories su Instagram della Ferragni di turno mentre si prova i trucchi che le hanno regalato, prima il rimmel, poi il fondotinta, poi i rossetti. Come guardare le facce truccatissime o i corpi stretti in vestiti troppo costosi: se clicchi sulla foto diventano un insieme di tag e puff non si vede più la faccia, o il corpo. L’identità di Joan Didion è stata rosicchiata, si perde davanti allo spettatore che s’inserisce nella narrazione senza mettere in mezzo il sacrosanto diaframma. Resta solo un’immagine: i suoi polsi più sottili di un ramo giovane, tanto sottili che le vene non riescono a starci dentro. E mentre muove le braccia senza una direzione specifica – per quanto sono minute non è in grado nemmeno di muoverle con senso e giusta intensità – potrebbe pure arrivarti uno schiaffo.

 

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