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Jim Shepard

Intervista allo scrittore americano, autore di "Non c'è ritorno", collezione di racconti sportivi. Si parla di letteratura, ma soprattutto di sport, ovviamente.

di Timothy Small

Jim Shepard è l’autore di Non c’è ritorno, una collezione di racconti ambientati nel mondo (più-o-meno) sportivo uscita pochi mesi fa per la 66th & 2nd. Come prima cosa, devo dire che quella raccolta l’ho curata io. Quindi, evidentemente, mi piace.

Jim è stato definito un “ventriloquo”—nel senso che è uno scrittore capace di esprimersi con tantissime voci, di abitare la mente e la sensibilità dei suoi personaggi per crearne delle narrazioni credibili, empatiche, e potenti, sebbene i suoi personaggi spazino dagli ingegneri russi durante la catastrofe di Chernobyl ai difensori yugoslavi circondati dalla rivoluzione sessuale nell’Ajax di Michels e Cruijff, dagli alpinisti polacchi ai giocatori di baseball a Cuba durante il colpo di stato di Castro agli adolescenti squilibrati che giocano a football americano alle vittime del mega-tsunami di Lituya, Alaska, nel 1958. Jim riesce a entrare in questi mondi, e a raccontarteli dall’interno, quasi come se stessi leggendo dai diari di quei personaggi. È una dote incredibile che, quando funziona al suo meglio, riesce a farti trascendere la storia e il tuo egoismo e a illuminarti nel cervello l’idea che, davvero, in un modo veramente primordiale e intimo, gli uomini sono tutti uguali, e lo sono da sempre.

È anche uno dei pochi scrittori che conosca a dedicarsi principalmente alla short story dopo un passato dedicato ai romanzi (Jim è autore di 6 romanzi e 4 raccolte di racconti. In Italia, oltre a questa nuova collezione, è edito solo un suo breve romanzo, Project X, per Meridiano Zero).

Gli ho fatto qualche domanda sui racconti, su quanto legge, su cosa gli interessa scrivere, ma alla fine abbiamo parlato quasi solo di sport. Perché? Perché è dura non farlo.

 

Quando ci siamo visti a Brooklyn, ti ho confessato che da quando traduco i tuoi racconti odio il tuo modo di scrivere, perché mi hai costretto a così tante ricerche di carattere tecnico e storico, oltre che linguistiche e gergali. Sono davvero state le traduzioni più laboriose che abbia mai dovuto affrontare. Ma mi hanno davvero fatto apprezzare—e odiare—la quantità di ricerca che riesci a inserire in un singolo racconto.

[ride] Sì.

 

Un altro scrittore userebbe tutte quelle informazioni per ricavarne un romanzo, basando tre o quattro anni di lavoro su quei mesi di ricerca.

Il mio amico Ron Hansen, il romanziere, mi dice sempre: “Sei pazzo! Hai fatto otto mesi di ricerche e tutto quello che ne tiri fuori è un racconto. Io ne avrei ricavato un romanzo di quattrocento pagine e molti più soldi”.

 

[ride] Esattamente.

Ma il punto è che, sai, per me non è un lavoro ingrato. Se leggo determinate cose, è perché sono strano abbastanza da trovarle comunque interessanti. A quel punto l’idea di leggere l’ennesimo libro di vulcanologia non mi fa sprofondare. Anzi, penso: “Oh, bene, mi ci metto subito!” Sai cosa voglio dire?

 

Va bene, ma allora la domanda diventa: perché sei abbastanza interessato da leggere per otto mesi testi su un certo argomento, ma poi non riesci a mantenere vivo l’interesse per quel mondo scrivendone per un anno o due?

Be’, è interessante. Buona domanda. È successo che sono divenuto impaziente nei confronti di quello che chiamo “l’arredamento” nello scrivere, quel momento in cui hai un grande affresco da sistemare, da arrangiare, un grande mondo da impostare e poi mettere in movimento. Ultimamente sono molto attratto da un approccio veloce ed economico: entri, racconti, esci.

E poi, alcune volte, sviluppo delle percezioni talmente strane—o spiacevoli—da non volerle portare avanti due anni. Un paio di mesi di scrittura sono più che sufficienti, in certi casi.

 

Volevo parlare con te degli argomenti di cui scegli di scrivere, perché sono estremamente vari. Hai chiaramente una mente vorace. Ma d’altra parte, ci sono dei tratti comuni tra molte delle tue storie. Ad esempio, l’io narrante.

Mi sono visto costretto a spingermi verso questa forma di narrazione anche perché, più i miei argomenti erano presi da ambiti così lontani da me, più dovevo impegnarmi per adattare la mia immaginazione ed empatia—non per scrivere semplicemente di un personaggio proveniente da un’altra parte d’America ma, diciamo, di un servitore presso un nobile francese del quindicesimo secolo—be’, l’enormità di quello che stavo cercando di fare è diventata così spaventosa da farmi realizzare che la maniera migliore per affrontarla è di petto. Ossia, diciamo, l’assenza di quella distanza narrativa per la quale dici: “Tim è sempre stato un bambino timido”, osservando Tim da lontano. E in effetti mi dico: “Ok, se vuoi provare a farlo, fallo. Cosa direbbe Tim?”  Avere Tim che mi si rivolge direttamente, e questa sorta di confronto, è corroborante.

 

Inoltre, se racconti una storia dall’interno, non devi necessariamente dare un giudizio su quel mondo. La scrittura ne scaturisce, e lasci quel genere di valutazioni al lettore.

Penso sia un’altra delle ragioni per cui mi piace tanto. Non voglio sembrare un saggio onnisciente con un’opinione sul mondo e sui suoi personaggi. Voglio creare l’illusione che sia quella voce a parlarti.

 

La raccolta che stiamo pubblicando in Italia con 66th & 2nd è incentrata sui racconti di sport. Ti consideri ancora un tifoso?

Sì, sono ancora un grande tifoso, ma ora sono un po’ più consapevole di quanto non fossi prima. Sono cresciuto seguendo appassionatamente il baseball e il football americano, poi mi sono interessato anche al basket, e da adulto ho iniziato a seguire il calcio europeo, tanto da diventare tifoso dell’Ajax per un po’. Seguo ancora queste squadre ma sono cosciente del fatto che, come dice Jerry Seinfeld, la fedeltà alla squadra è basata su qualcosa di totalmente arbitrario. La battuta di Seinfeld è: quando le squadre iniziano a cambiare città e a scambiarsi i giocatori così velocemente, finisci per tifare per il bucato. Sai, tifi per la maglia, non importa chi la indossi. Ma ciò che davvero mi affascina dello sport è la bivalenza per cui, se da una parte porta la gente a non preoccuparsi di cosa accade nelle loro vite o alla loro cultura essendo una così potente forma di evasione, dall’altra riflette cosa accade nella vita e nella cultura delle persone.

 

Giusto, inoltre per me quello che è affascinante dello sport è che è un sistema anche narrativo. Probabilmente è una della poche narrative popolari diffuse in cui qualcuno alla fine vince. Ha sostituito le battaglie.

Sai, le Olimpiadi, ogni quattro anni, sono una valvola di sfogo per il nostro patriottico desiderio di vittoria e ci impediscono di fare più casino in termini di aggressioni nazionaliste. Hai presente quelle ridicole graduatorie durante le Olimpiadi grazie alle quali sai che gli Stati Uniti sono davanti alla Cina per numero di medaglie o che l’Italia è davanti alla Francia. E tutti possono agitare le bandiere e sentirsi meglio. Oppure puoi vederlo non come una valvola di sfogo ma come un fomentare quel genere di aggressività, come parte del problema. In ogni caso, lo sport è una cosa che non sparirà perché è così importante per le nostre culture essere in grado di concentrarci su quella sorta di arena chiusa in cui qualcuno vince e poter tifare per quelle specie di surrogato di noi stessi, no? “La mia vita fa schifo, ma la mia squadra vince, quindi sto un po’ meglio”.

 

Il problema diventa quando la tua vita va bene ma la tua squadra perde, e quindi stai peggio.

Ci scherziamo su spesso con mia moglie perché, in effetti, quando la tua squadra perde e sei di pessimo umore le persone a te vicine dicono: “Be’ questo è molto egoista da parte tua e fa male, perché per quanto ne sappiamo hai tutte le ragioni per essere felice e dici che non lo sei perché un gruppo di sconosciuto ha perso un gioco”. E hanno ragione.

 

Thomas Brussig ha detto che, narrativamente, gli sport saranno sempre più avvincenti della letteratura che ne tratta. In un certo senso sono d’accordo: se sei un vero tifoso, non c’è assolutamente paragone tra il brivido che ti dà una partita dal vivo e il leggere una storia che racconta un incontro. Se per esempio dovessimo sentire la storia di un giocatore-eroe che si impegna tantissimo in allenamento, che arriva in finale con la squadra e si infortuna, ma stringe i denti e segna all’ultimo secondo… Non darà mai la stessa emozione che posso provare se sto effettivamente tifando per una squadra e un giocatore segna davvero all’ultimo secondo della partita che sto seguendo.

Tutti quelli che hanno mai tifato davvero per qualcosa conoscono la sofferenza che monta mentre ti interroghi su cosa succederà nei minuti finali di un evento. Allo stesso modo, il sollievo di quando tutto finisce bene è talmente viscerale e intenso, che è difficile immaginare un espediente letterario che possa trasporre quel genere di esaltazione. Facendo un’analogia sarebbe come dire “la miglior descrizione fattibile dell’atto sessuale non è nemmeno lontanamente paragonabile all’effettiva intensità dell’atto”. E non voglio mettere sotto accusa la letteratura, ma sottolineare quanto il mondo possa essere profondamente viscerale.

 

Lo sport, per come lo vedo, è narrativa. C’è un ampio spettro di personaggi, eroi e anti-eroi, che vincono, perdono, soffrono, superano le avversità, si scontrano, discutono, vengono sconfitti, feriti in modo più o meno serio, e arrivano sempre personaggi nuovi. È come leggere un libro molto, molto lungo per tanti, tanti anni, e ogni partita è un capitolo.

Penso che tu abbia ragione. La maggioranza dei tifosi accaniti che conosco soffre molto più per una sconfitta di quanto si rallegri per una vittoria. Nel senso che amano vincere, ma i tifosi davvero, davvero accaniti sanno quanto possa bruciare una sconfitta e sperano nel profondo di non doverlo mai provare. Quando la tua squadra vince, ci sono in pari misura gioia e sollievo.

 

E, a proposito di sofferenze e dolore, se non mi sbaglio sei tifoso dei Vikings di football.

Ho pubblicato un breve saggio sul raffinato masochismo che comporta essere tifoso dei Minnesota Vikings e su come tifare per una squadra del genere ti insegni non solo a perdere, ma anche le infinite maniere in cui si può arrivare ad una sconfitta. Poi se non sbaglio quel saggio l’abbiamo ri-adattato come introduzione all’edizione italiana. Il punto è che, quando sei molto giovane, se tifi per una squadra come i Vikes, l’universo ti introduce all’idea che crescendo dovrai affrontare a ripetizione varie forme di sconfitta.

 

È come un allenamento per la vita vera. Insegna molte cose, ti irrobustisce, ti aiuta a gestire la sconfitta e l’angoscia e lo strazio, ti permette di provare emozioni in modo sicuro. Come leggere, ancora una volta.

È difficile da spiegare a coloro che ti vogliono bene perché ti vedono avvilito per qualcosa che sembra loro assolutamente insignificante. Quelli che non capiscono pensano che lo sport non sia educativo per le loro emozioni, anzi, che li faccia regredire, che non ti permette di vivere le tue emozioni, che è una distrazione.

 

Però, quando penso razionalmente allo sport, è difficile difenderlo.

Penso che, a conti fatti, mentre i problemi della nostra cultura si acuiscono sempre più, lo sport sta diventando l’oppio della gente. E questo malgrado faccia un sacco di cose meravigliose. Sai, io sono un fanatico degli sport e capisco la loro attrattiva, ma credo che tra le ragioni che hanno portato l’America a essere politicamente non molto astuta c’è la facilità con cui abbiamo sempre potuto accendere la TV e arrabbiarci per il football, l’hockey, il baseball, il basket, il golf, il calcio o le Olimpiadi.

 

Ricordo che uno dei miei Professori di Politica della piccola università radicalmente di sinistra che ho frequentato nel nord-est dell’Inghilterra, in occasione dei Mondiali del 2002, non ci lasciò riprogrammare le lezioni come invece fecero gli altri. Era quello più di sinistra. Diceva che lo sport è il giardino in cui il fiore del nazionalismo cresce più rigoglioso.

Assolutamente. È la visione secondo la quale gli sport non sono una valvola di sfogo, ma piuttosto proprio l’area in cui si sviluppano i nazionalismi.

La prova più evidente che posso portare verso l’influenza dannosa degli sport è che, se guardando il Superbowl qualcuno osasse fare riferimento ad argomenti tipo l’Afghanistan, l’Iran e simili, se un commentatore dicesse qualcosa tipo “Sarebbe bellissimo se potessimo far rientrare le nostre truppe dall’Afghanistan”, solleverebbe un coro di proteste sdegnate. Del tipo “Perché devi politicizzare la cosa? È uno dei pochi momenti in cui siamo in grado di rilassarci e divertirci e tu vuoi politicizzarlo?” e a quella persona non sarebbe mai più permesso parlare in televisione. Ma, allo stesso tempo, si dicono senza problemi cose tipo “Ed ora, un omaggio ai combattenti che indossano la nostra uniforme”, per poi far volare un paio di jet mentre suona l’inno nazionale e si sventolano le bandiere, e nessuno registra questo, in sé, come gesto politico.

 

Comunque, ciò detto, se sei un tifoso, nella mia opinione, tutte queste ragioni razionali non contano davvero, perché amare lo sport non è una decisione razionale.

No, non lo è! È come una forma di imprinting, come accade alle paperelle. Ti fissi su qualcosa, e ti ritrovi incastrato, proprio come con i membri della famiglia. Spesso non sai nemmeno perché ti piaccia così tanto.

 

Un’ultima domanda, Jim. La domanda più importante. Qual è il tuo panino preferito?

Ottima domanda. Hmmm. Non saprei. Forse un panino cubano.

 

Cos’è il cubano?

Facciamo che la prossima volta che ci vediamo te ne offro uno.

 

Sanwiches è una rubrica aperiodica di interviste letterarie. Le altre puntate:
Clancy Martin
Tao Lin

Foto di Michael Lionstar