Attualità

Ricca donna d’Africa

Sta per ereditare l'Angola come feudo personale, è l'ottava donna più ricca al mondo. Chi è Isabel dos Santos, un simbolo dell'élite che vorrebbe essere icona femminista.

di Mattia Salvia

Nel dicembre del 2002, solo pochi mesi dopo la fine di una sanguinosa guerra civile durata 27 anni, a Luanda si è celebrato il matrimonio del secolo. Si dice che la cerimonia sia costata circa quattro milioni di dollari, che il buffet sia stato fatto arrivare direttamente dalla Francia con un volo charter e che tutti gli oltre 800 invitati – tra cui spiccavano diversi capi di stati africani più o meno democratici – abbiamo ricevuto in regalo un Rolex. Lo sposo era un banchiere e collezionista d’arte congolese; la sposa era Isabel dos Santos, figlia primogenita e prediletta del presidente dell’Angola, José Eduardo dos Santos.

aA 43 anni, Isabel dos Santos è considerata da Forbes la donna più ricca d’Africa, con un patrimonio stimato di tre miliardi di dollari. In Angola possiede banche e compagnie telefoniche, aziende di ogni tipo e in ogni settore: in breve, per citare il giornalista angolano Claudio Silva, «possiede tutto». Di recente, il padre l’ha messa a capo della compagnia petrolifera nazionale. In un Paese dove l’economia si basa quasi interamente sulle esportazioni di petrolio, questa mossa è stata interpretata da molti come un’investitura in vista delle elezioni previste per il 2018, data in cui José Eduardo dos Santos dovrebbe lasciare la presidenza dopo 39 anni.

Nata a Baku, in Azerbaijan, e figlia di una campionessa di scacchi sovietica, la “principessa” Isabel dos Santos è il simbolo di quella progressiva fusione tra le élite politiche ed economiche dei vari Paesi da cui sta nascendo un’unica classe dominante fluida e transnazionale. I Panama Papers ci hanno fatto sbirciare, anche se solo per un attimo, questo processo: non è un caso che tra i nomi che contengono ci sia anche quello del fratello minore di Isabel, José Filomeno dos Santos detto “Zenù”.

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Proprio per questo è paradossale solo in apparenza il fatto che, mentre suo padre combatteva la guerra civile per procura di Urss e Cuba, Isabel dos Santos studiasse ingegneria al King’s College di Londra insieme ai figli delle élite occidentali. Terminati gli studi, a 24 anni è tornata in patria, dove ha aperto prima un’impresa di pulizie e poi il Miami Beach Club, il primo night club di Luanda. Nei successivi vent’anni, ha fondato una serie di holding e fatto grossi investimenti nelle telecomunicazioni, nei media, nella finanza, nell’energia. Nel 2011 il suo patrimonio stimato era di 50 milioni di dollari, un anno dopo era decuplicato e nel giro di un anno era raddoppiato ancora.

D’altronde, dopo la fine della guerra civile, l’Angola sembrava ben avviata sulla strada del benessere: sembrava dovesse diventare la nuova Dubai, la nuova Cina. I diamanti, il petrolio, un Pil che cresceva del 20 percento all’anno, Luanda che diventava la città più costosa del mondo: si iniziava a parlare di miracolo economico, anche se dietro i grattacieli di vetro affacciati sulla baia e gli yacht da milioni di dollari si nascondevano ancora le musseques, favelas senza acqua potabile né elettricità, dipendenti in tutto dagli aiuti umanitari.

Ma alla stessa velocità con cui veniva creata, la ricchezza angolana veniva risucchiata dalle tasche di una ristretta élite al potere. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, solo tra il 2007 e il 2010 sarebbero spariti almeno 30 miliardi di dollari provenienti dai ricavi legati al petrolio. Nel frattempo, parenti, amici e collaboratori del presidente si arricchivano a dismisura, mentre la maggior parte della popolazione del Paese continuava a vivere sotto la soglia di povertà. Ancora oggi, in Angola dieci milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno e l’aspettativa di vita è tra le più basse del mondo.

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Pur essendo figlia dell’uomo più potente del Paese, Isabel dos Santos ha sempre negato di far parte di quest’élite e di aver beneficiato di nepotismo e cleptocrazia. «Non faccio quelle cose», ha detto in un’intervista di qualche anno fa, «ho sempre voluto fare da sola, senza vivere all’ombra dei miei genitori». Eppure, secondo il giornalista investigativo Rafael Marques de Morais, la sua ricchezza non sarebbe come sostiene lei il frutto delle sue spiccate doti imprenditoriali, ma piuttosto il prodotto della corruzione e di una sistematica appropriazione indebita di risorse statali. Secondo l’associazione anticorruzione Maka Angola, ad esempio, una parte consistente del suo patrimonio deriverebbe dal traffico illegale di diamanti.

Sono accuse che le vengono mosse spesso e contro cui Isabel ha sempre reagito con forza, portando in tribunale testate e giornalisti. Allo stesso tempo, però, ha anche cercato di allontanare i sospetti sul suo conto e di creare una narrativa alternativa e positiva intorno alla sua figura. Cerca di trasmettere un’immagine fatta di discrezione e contegno, di impegno sociale e sincera preoccupazione per lo sviluppo del Paese; è presidente della Croce Rossa angolana e nei suoi discorsi pubblici dice spesso di voler diventare un modello di vita per le donne africane. Ma è difficile ascoltarla senza pensare a quello che rappresenta: uno Stato dove le disuguaglianze economiche e sociali sono enormi, che solo sulla carta è una democrazia e che lei stessa sembra sul punto di ereditare come feudo personale.

Per i giornali portoghesi, invece, «trasuda classe, eleganza ed educazione» ed è «dinamica e intelligente, ma anche professionale e piacevole». Anche in Portogallo ha grossi investimenti, soprattutto nelle telecomunicazioni e nel settore finanziario, ed è diventata l’emblema del peso crescente che hanno i capitali angolani nell’economia statale, ormai una specie di parco giochi per quella classe dirigente che in Angola ha beneficiato del boom economico e che ora, con i soldi del petrolio, si sta comprando gli antichi colonizzatori.

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Negli ultimi tempi, con il crollo del prezzo del petrolio, la crescita angolana è diminuita fino attestarsi su livelli “normali”: tre, quattro, cinque percento all’anno. Il governo ha imposto nuove tasse, tagliato la spesa pubblica, adottato politiche sempre più repressive nei confronti del dissenso. Così, l’Angola si è trasformata in un Paese-laboratorio dove si sperimentano nuovi modelli economici e dove allo stesso tempo sorgono nuove forme di resistenza. Da una parte, vinto l’appalto per la ricostruzione, centinaia di cinesi vi si trasferiscono per costruirvi infrastrutture, compaiono cartelli stradali bilingue in portoghese e in cinese, sorgono città fantasma come quella di Kilamba; dall’altra, gli hacker angolani si inventano nuovi modi di bypassare il programma FreeBasics di Facebook, per resistere a quella che percepiscono come una forma di colonialismo digitale.

In tutto questo, la figura di Isabel dos Santos si è fatta sempre più ingombrante e in patria è ormai vista come una specie di icona femminista da cui trarre ispirazione. Con il marito forma una power couple: giovani, belli, ricchi, di classe. Sono quelli da invidiare, quelli che cenano in ristoranti con vista sul Duomo di Milano, volano a Cannes a fare serata con Kim Kardashian, curano padiglioni alla Biennale di Venezia. Su Internet circolano immagini in cui il volto di Isabel accompagna frasi motivazionali e liste di curiosità sulla sua vita che la definiscono «una delle personalità più di successo del ventunesimo secolo». Ad avvalorare la sua immagine di grande donna d’affari c’è persino una leggenda secondo cui a sei anni si sarebbe messa a vendere uova per comprarsi le caramelle. Ovviamente non è plausibile, ma la dice lunga su come sia diventata proprio quel modello di self made woman che si era sempre proposta di diventare. Il volto giovane, dinamico e ambizioso di una cleptocrazia.

Lo scorso dicembre, la rapper Nicki Minaj ha tenuto un controverso concerto a Luanda. Dopo il concerto, ha postato su Instagram una foto insieme a Isabel dos Santos. «Niente di che… è solo l’ottava donna più ricca del mondo», ha scritto nella didascalia.

Immagini: in copertina l’Assemblea nazionale angolana, nel testo vedute di Luanda (Alain Jocard/Afp/Getty Images)