Attualità

La sinistra che odia la sinistra

Su Qualunque cosa significhi amore, il nuovo libro di Guia Soncini. Una chiacchierata con l'autrice su tipi umani, tic della borghesia, Roma, Milano e tanto cinema.

di Mattia Carzaniga

Mattia Carzaniga: È uscito questa settimana Qualunque cosa significhi amore (Giunti), l’hai scritto tu, chi racconta la trama?

Guia Soncini: Tu, io non sono capace.

Allora. Elsa Tomei è la potentissima capoprogetto di un programma di successo della cosiddetta “tv di qualità”. Vanni Gualandi, suo marito, un editorialista del Corriere della Sera pronto (forse) a partecipare alle primarie per il candidato sindaco del centrosinistra milanese. In mezzo c’è Fanny Montestrutto, figlia di palazzinari romani, conduttrice del programma della prima e amante ufficiale del secondo. Nel corso di una sola sera (la festa per i cinquant’anni di lui), Elsa e Vanni rischiano di giocarsi tutto, in una «girandola di colpi di scena».

E poi com’è che si dice? «Si legge tutto d’un fiato». «Si ride e si piange insieme». «I personaggi vanno dove vogliono». «Vorticoso». «Irriverente».

«Non fa sconti a nessuno». Ma veniamo al dunque: è il tuo primo romanzo. Anche se pure I mariti delle altre, uscito due anni fa, per me lo era.

Anche per me. Ma, nella mia favolosa mancanza di tempismo, quando è uscito era il momento in cui si iniziavano a chiamare romanzi tutti i memoir, tendenza culminata nel Desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo. Poi mi sono messa a scrivere il romanzo e tutti improvvisamente volevano solo l’autofiction, una parola talmente brutta che anche solo per quello non bisognerebbe farla.

Oggi, però, pare diventata un genere riconosciuto anche da noi.

Perché in Italia non c’è mai stata una parola per dire personal essay? Nora Ephron come la cataloghi? Qui l’hanno sempre messa nella saggistica, e poi dicono che il lettore si spaventava: ci credo, la trovava accanto ai saggi di politica estera. Le lettrici di tutto il mondo non si sono mai spaventate, anche se sulle copertine dei libri di Ephron non c’era scritto “a novel”.

Come si affronta “il romanzo”?

Qualunque cosa significhi romanzo, sono ragionevolmente certa ce ne siano di più nella tracklist di La vita è adesso di Baglioni che nella produzione media dell’intellettuale italiano medio. La mia amica Nadia Terranova, nume tutelare di questo libro, dice: «Non so cos’abbiano contro il romanzo tradizionale, a parte che è difficile scriverlo». Che è un po’ la questione degli sperimentalisti vs. Jonathan Franzen: ce l’hanno con lui perché sa scrivere il grande romanzo americano e loro no.

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Chi l’ha già letto ti dice: i personaggi sono tutti stronzi, troppo stronzi.

Molti anni fa stavo lavorando a una sceneggiatura per Rai Cinema e una dirigente mi disse: «Non puoi fare una storia con una protagonista stronza». Io replicai: «E Rossella O’Hara?». Lei mi guardò con l’aria di chi non si fosse mai posta il problema che Rossella O’Hara è una stronza e Via col vento non è esattamente un film indie. In realtà credo che la ragione per cui chi l’ha letto finora tende a mettere le mani avanti e a dire che può essere respingente è il fatto che Elsa e Vanni non sono stronzi nella maniera in cui lo sono Frank e Claire Underwood. Quelli sono distanti da noi, stanno alla Casa Bianca, e noi l’abbiamo sempre saputo che lì c’è gente un po’ cattiva. Elsa e Vanni sono stronzi come è stronzo il nostro vicino di casa. Fare pace col fatto che non sono persone perbene loro vuol dire fare pace col fatto che non sei una persona perbene tu, almeno potenzialmente.

Sono anche borghesi, altra caratteristica respingente.

Furio Scarpelli diceva che La terrazza di Scola era andato male perché agli intellettuali italiani andava bene quando prendevano per il culo la classe operaia, ma non quando erano loro il bersaglio. Viviamo in un mondo in cui i ventenni usano ancora “borghese” come insulto, e non lo fanno  squattando un palazzo fatiscente in Medioriente, ma vivendo con mamma e papà a Porta Romana. L’Italia ha sempre avuto un problema a raccontare i ricchi. Uno dei due grandi romanzi del Novecento, e cioè Il gattopardo, fu rifiutato. Che poi è un alibi per tutti i mitomani del mondo. Proust si è autopubblicato…

Alberto Sordi è stato bocciato ai Filodrammatici.

Anche io sono stata bocciata all’Accademia d’arte drammatica!

Qualunque cosa significhi amore è anche un romanzo sullo stato della cultura nel nostro paese. Autrici di programmi per un pubblico che ha l’ansia di sentirsi colto, elzeviristi tentati dalla politica come via di fuga…

Questa cosa della via di fuga dai giornali non l’avevo considerata, forse era inconscia. Alla prima riunione con la editor e l’agente ho detto: è un libro su un matrimonio, ma anche un libro che parla del fatto che la sinistra odia la sinistra, e che la cultura di sinistra – intesa come consumo culturale creato avendo come target la professoressa democratica, per usare la definizione di Berselli – è prodotta da gente che in realtà quel tipo di consumatori li disprezza moltissimo. Uno degli spunti è stata una conversazione con un autore televisivo molto di sinistra che, parlando sprezzantemente di una sua parente, un giorno mi fa: «È il tipo di donna che potrebbe comprare i biglietti per Fiorella Mannoia». La stessa Fiorella Mannoia che lui invita nelle sue trasmissioni una volta sì e l’altra pure: c’è qualcosa di schizofrenico nell’odiare quello che ti nutre. Ho fatto questo bel discorsetto e la editor e l’agente, che sono due donne sagge e pratiche, mi hanno detto: «Sì, però così te lo compri solo te. Enfatizziamo il fatto che è la storia di un matrimonio».

Un matrimonio che, per alcuni, potrebbe essere di non amore, foss’anche solo per quell’amante ufficiale di Vanni, oltre a tutte le altre di cui Elsa conosce vita, morte e WhatsApp.

Non so che cosa intendano per amore quelli che dubitano che Elsa e Vanni si amino. Dopodiché, il romanticismo è una costruzione, come il restare insieme. In un tempo in cui il divorzio esiste, «gli unici matrimoni che durano sono i matrimoni d’amore», dice Elsa. Non so se valga come dichiarazione programmatica, come manifesto poetico velleitario, come sinossi o come cosa, ma la miglior definizione di matrimonio mi pare sempre quella di Marianne Moore: «Questa istituzione / o forse è meglio definirla impresa […] / a cui si può sfuggire solamente / con tutta l’inventiva criminale!». Sembra incompatibile con il discorso sull’amore, ma non lo è, perché a un certo punto di quella sterminata poesia Moore dice una cosa che è Elsa-e-Vanni in purezza: «A me piacerebbe restar sola». Cui l’ospite risponde: «A me piacerebbe restar solo / perché non star soli insieme, allora?».

La coppia Elsa e Vanni si definisce nello «star soli insieme», appunto.

Ho lottato molto con l’inizio del libro, l’ho riscritto per un anno e non era mai quello che volevo. Finché – momento mitomania – ho visto un’intervista a Mike Nichols in cui diceva che nella prima scena devi dire di cosa parli. E lì ho capito che il “cosa” dovevano essere loro due, che il romanzo doveva aprirsi con un momento di intimità. Quella è la storia: una coppia che è come è solo quando è da sola. Anche per questo i dialoghi con gli altri personaggi sono una messa in scena, e perciò sono scritti in un altro carattere: sono i momenti in cui loro si rappresentano socialmente. L’intimità non si simula.

È anche un romanzo su Milano.

unnamedHo deciso che in realtà è un romanzo su Roma. O su Roma vista da Milano, o su Milano vista da Roma. O su tutte e due viste da Bologna, e cioè da me. Roma è più inclusiva, ha un che di paludoso che ti tira dentro e ti tiene lì. Milano è sociopatica, fa di tutto per tenerti a distanza. Alla cerchia puoi accedere, ma resti uno che deve farsi fare il pass tutti i giorni. Forse, quanto a renderti la vita difficile e a non essere accogliente, Milano sta a Roma come Los Angeles a New York, ma soprattutto Milano è il rabbino di Yentl: devi avere una tigna che sconfina nella patologia per superare tutte le volte in cui ti respinge. Poi Fanny ha sempre ragione su tutto: non si capisce perché, come insegnano le milanesi, una debba mettersi dei punitivi collant marroni (anzi, marron) o perché andare in bici sui marciapiedi non sia considerato incivile. Del resto, il più grande articolo scritto negli ultimi anni è la rubrica di Michele Serra contro le signore che vanno in bici a Milano.

Sia Fanny che Vanni vogliono essere (o diventare) milanesi. Milano vince sempre?

Entrambi sono vittime di zelighismo, ma restano molto diversi. Vanni arriva dal Molise a 15 anni con le sue povere cose per cambiare vita: per lui Milano è Ellis Island. Nella mutazione di Fanny c’è un problema di identità, non l’urgenza di salvarsi: per lei Milano è passare da Canale 5 a RaiTre. Lui a cinquant’anni ancora teme che la gente si accorga che il suo accento non è da nativo di Brera, a lei interessa il riscatto sociale, il poter diventare più Elsa di Elsa.

Eva contro Eva.

Non ci avevo pensato. Ma, in effetti, c’è una scena di Elsa rubata a Bette Davis: prende mezzo Xanax, rimette l’altra metà nel blister, alla fine decide di prenderlo tutto. Bette Davis prendeva e rimetteva un cioccolatino nella ciotola, e poi ovviamente cedeva. Passano i decenni, forse lo Xanax is the new boero al rum.

È anche uno dei segreti di Elsa. La sinossi ufficiale inizia così: «Di che cosa ci vergogniamo?».

«Le cose di cui ci si vergogna sono un buon materiale narrativo», diceva Francis Scott Fitzgerald. E sono sempre diverse da quelle di cui ci si dovrebbe davvero vergognare. Tutto quello che viene svelato nella seconda parte del romanzo non è ciò che Elsa e Vanni hanno custodito gelosamente per tutta la vita: hanno protetto i segreti sbagliati, come quasi sempre succede. E comunque non è detto che, quando i nostri segreti giusti o sbagliati vengono fuori, freghi poi a qualcuno.

Milano e la sinistra salottiera. Vanni forse si candiderà alle primarie del Pd, tu hai avuto il culo che Pisapia ha deciso di non fare il secondo mandato.

All’inizio avevo un dubbio: ambiento il romanzo nel 2014 e non ci sono le elezioni, come faccio? Poi – altro momento mitomania – sono andata a vedere un incontro con Beau Willimon, il creatore di House of Cards, e lui ha raccontato di una puntata in cui moriva un governatore. Nello stato in cui si svolgeva la storyline non erano previste elezioni, bensì il subentro del vice. Willimon ha semplicemente preso la legge di un altro stato e l’ha adattata al suo caso. Allora lo posso fare anch’io, mi sono detta.

Anche la tv è deformata.

Il programma di Elsa, Discanto, è tutto verosimile e tutto finto. È l’elemento che non c’è nei nostri palinsesti. La sua cifra principale – essere un programma che parla prevalentemente di donne, fatto da e per le donne – è quella che manca nella tv colta di sinistra in Italia, per lo stesso meccanismo per cui le donne accompagnano gli uomini al cinema a vedere i film di supereroi ma gli uomini non le portano a vedere le commedie romantiche, che quindi non si producono più. Ciò che è maschile è accettabile, ciò che è femminile no, cosa per cui la controcopertina rosa di questo romanzo rovinerà le mie vendite.

Nel finale non spoilerabile ci sono figli veri e – per così dire – acquisiti, tentati suicidi, sputtanamenti collettivi.

C’è molta soap opera nelle relazioni tra i personaggi, del resto nella vita ho visto più Beautiful di quanto non abbia letto le Upaniṣad. La madre di Elsa è però rubata al personaggio di Geraldine Page in Interiors di Woody Allen. Mi ha sempre colpito perché secondo me era la metà di un tutto: la madre ieratica e depressa con lo chignon da sola sarebbe stata un cliché, c’era la matrigna a riequilibrarla. Nel mio furto c’è un’elaborazione: usando il kit del piccolo psicologo, si direbbe che la madre di Elsa è direttamente bipolare, un giorno canta e l’altro ha mal di testa. Sullo sfondo c’è il Sanremo dell’81, che ha un ruolo centrale in questa vicenda.

Mi viene in mente un altro grande classico delle quarte di copertina: «Mischia l’alto e il basso».

Qui c’è solo il basso. Anche se sappiamo che il Sanremo dell’81 è tutto fuorché basso, vinse addirittura una canzone di Battiato cantata proprio da una ieratica come Alice. E comunque oggi è vintage, è Teche Rai, è rimpianto pure da quelli che detestano la tv e sospirano: «Com’era bello Studio Uno». Ci credo, facevano un solo programma a settimana in tutta Italia. Come dicono quelli di Gazebo: Premio Grazie Al Cazzo.

Facciamo il casting per un ipotetico film “tratto da”. Valgono anche i morti.

Fanny non può che essere Giovanna Ralli, e cioè la Elide Catenacci di C’eravamo tanti amati. È l’unica che può fare sia la burina che la ripulita. Tra le contemporanee direi Micaela Ramazzotti, in termini di typecasting è la migliore Fanny/Elide in circolazione: ma se lo saprebbe togliere l’accento? Il personaggio di Elsa è impossibile. Valeria Bruni Tedeschi è troppo svagata, Laura Morante troppo romana, Valeria Golino troppo riccia… Ci vorrebbe una Carla Gravina, ma poi davvero si rifà La terrazza. O Mariangela Melato, ecco, lei potrebbe essere una buona Elsa. Vanni, tra i vivi, è solo Fabrizio Bentivoglio. Certo Vittorio Gassman sarebbe stato meglio.

Io, per un attimo, ho pensato a Checco Zalone nel suo famigerato “primo ruolo drammatico”.

Oddio! Facciamo un appello: Mike Nichols – no, dai, va bene: Ettore Scola – dirige Checco. Sarebbe bellissimo.