Attualità

Sentirsi spesso e non vedersi mai

Un ritratto sentimentale del primo Gabriele Salvatores, quello dei film di viaggio all'italiana. Il regista di Mediterraneo parla della sua fascinazione per la magia, dell'evoluzione del suo cinema, dell'Italia e di molto altro ancora.

di Giulio D'Antona

Alcuni stiamo ancora aspettando che tornino: Cedro e Paolino dal Marocco, Federico Lolli da quello stato mentale che è la tournée, il sergente Lorusso e l’attendente Farina dalla Grecia. Per non parlare di Corrado Noventa che è sparito all’orizzonte su una barchetta a remi e non si è più visto, Mario di Caserta, che una volta stava andando a cercare se stesso nel deserto e l’altra il peyote nelle alture del Messico, e Solo che non è esattamente lontano, ma nemmeno troppo vicino alla realtà.

I primi film di Gabriele Salvatores sono esponenti di una sorta di cinema di viaggio all’italiana, nuovo per allora e che si sarebbe esaurito sostanzialmente in tre o quattro pellicole, lasciando pezzetti di sé nel seguito della cinematografia del regista. Non esattamente On the Road, ma certamente sulla strada. Lo spazio occupato da quei film erano gli orizzonti del mondo, filtrati da un’italianità che andava definendosi rispetto alla tradizione passata. Lo spirito di un Paese fotografato in un momento preciso e mandato a indagare quanto stava attorno ai propri confini, con lo sguardo incantato dei provinciali nelle grandi città e la propensione degli esploratori per l’ignoto.

Se tra gli anni Cinquanta e Sessanta il cinema aveva raccontato un’Italia che si ritrovava nuova dopo la guerra e ambiziosa durante il boom, tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta Salvatores ha dato il via alla stagione delle esportazioni. Non è soltanto la cosiddetta “Trilogia della fuga”, che da Marrakech Express arriva a Meditterraneo passando per Turné, alla quale volendo si può attaccare Puerto Escondido a degno coronamento, ma l’invenzione di una poetica globale e aperta alla geografia pur restando ben cosciente delle proprie origini. Una sorta di rinascita ingenua costruita attorno a un immaginario semplice, quello degli impiegati di banca e dei bottegai, del calcetto e dei fine settimana in montagna, aggrappato all’Italia come un ramo innestato tra vizi, virtù e inflessioni dialettali, e proiettato per la prima volta verso il resto del pianeta.

Una sorta di rinascita ingenua costruita attorno a un immaginario semplice, quello degli impiegati di banca e dei bottegai, del calcetto e dei fine settimana in montagna, aggrappato all’Italia come un ramo innestato tra vizi, virtù e inflessioni dialettali.

Era il 1987 quando la voce narrante di Paolo Rossi inaugurava un periodo cinematografico, definendo corso Buenos Aires «la via più americana di Milano». Il film è Kamikazen, viene appena prima della trilogia dalla tradizione teatrale dell’Elfo e consacra alla pellicola non soltanto un gruppo di attori, ma un preciso modo di essere che si rifletterà sul cinema italiano almeno fino ai primi anni Duemila. In una sorta di preparazione alla globalizzazione, il linguaggio che da Salvatores cominciava a passare attraverso i suoi protagonisti denuncia il dubbio di non essere ancora pronti a esporsi, ma la cocciuta volontà di farlo. Milano era nebbiosa come nelle fotografie di repertorio, però si stava trasformando nel paradiso della televisione pubblica: chi veniva dal teatro comico scopriva il cabaret e il pozzo senza fondo delle trasmissioni di varietà. Una specie di America incerta e fatta in casa, tra trattorie e fast food, palazzoni e case di ringhiera, paninari e uomini in carriera, ancora indecisa se lasciarsi andare completamente alla fascinazione delle nuove scoperte o rimanere fedele a se stessa. Salvatores era intenzionato a portare la questione al di fuori, provando a non tradire lo spirito che fino ad allora lo aveva nutrito intellettualmente.

«Era un cinema artigianale — mi ha raccontato qualche giorno fa — fatto da un gruppo di persone che si conoscevano e si frequentavano al di là del lavoro. Raccontavamo quello che ci capitava, era una dimensione nostra, intima, quasi privata». Però quella voce, quella lingua sperimentata con Kamikazen e poi consolidata nel 1989 con Marrakech Express, era uscita subito chiara e decisa. Forse proprio grazie alla familiarità che correva tra gli sceneggiatori, gli attori e il regista e alla spontaneità che scivolava negli aggiustamenti e nelle improvvisazioni durante le riprese, per il pubblico immedesimarsi nella vicenda veniva naturale.

I protagonisti vivevano vicini al Paese reale e avevano la tendenza a partire senza guardarsi indietro, portando con sé quella riconoscibilità innegabile che ti fa indicare gli italiani tra la folla di Barcellona, New York o Città del Messico, senza ombra di dubbio. Quando in Marrakech Express Diego Abatantuono scende dall’auto per contrattare, in un francese quantomeno abbozzato, la restituzione del tubo in cui lui e gli amici avevano nascosto i trenta milioni di lire per la cauzione del compagno carcerato in Marocco, dipinge in maniera tanto grottesca quanto fedele l’approccio dell’emergente “italiano in viaggio” e porta con sé quel pubblico che solo allora poteva cominciare a contare sull’idea di una vacanza all’estero. A questo si aggiungano i ricordi dell’università, le vecchie passioni mai sopite, i sogni comuni di rivoluzione, quasi tutti infranti tra un salone di auto usate e l’insegnamento: condizioni che gli spettatori potevano capire perché facevano parte della loro quotidianità. «Il cinema era la nostra finestra sul mondo, potevamo farlo e quindi la aprivamo per mostrare quello che c’era fuori. Poi è venuta la televisione, oggi c’è il Web che assolve a questo ruolo e anzi lo fagocita togliendo completamente spazio all’ignoto, ma allora avevamo per la prima volta in mano un destino di orizzonti aperti e l’entusiasmo per sfruttarlo fino in fondo».

I nomi e i volti erano quasi sempre gli stessi: Abatantuono, Giuseppe Cederna, Gigio Alberti, Fabrizio Bentivoglio, Claudio Bisio, Antonio Catania. Rendevano ancora più semplice affezionarsi alle situazioni raccontate perché trasmettevano uno spirito di familiarità particolare, diverso da quello conosciuto dal cinema fino ad allora. Più basso, se vogliamo, meno legato allo studio drammatico e più vicino alla convivialità di una compagnia viandante. Turné, del 1990, scritto su soggetto di Bentivoglio, Francesca Marciano, Alessandro Vivarelli e Paolo Virzì, riporta temporaneamente la vicenda entro i confini dello stivale senza però tralasciare l’importanza della strada come vettore del movimento e suona ancora più vicino al gusto degli autori e degli interpreti, forse perché parla proprio di quella condizione da teatro errante che tutti loro conoscevano bene. Per esperienza diretta e non per studio della parte. «I riferimenti che avevamo erano quelli, ci capivamo perché condividevamo un’esperienza comune. Tanti venivano dall’Elfo, avevamo lavorato assieme e seguito le stesse strade. Metterle prima in sceneggiatura, poi in pellicola era estremamente facile, così come era facile sottovalutare il lavoro finito».

Quello che è successo nel 1992, con Mediterraneo, ha cambiato le carte in tavola: «Nessuno di noi si aspettava l’Oscar. È stato come una specie di secchiata d’acqua in faccia. Improvviso e frastornante. Tanto che dopo ho avuto un momento in cui non sapevo sinceramente cosa fare: mi si aprivano decine di possibilità, mi arrivavano centinaia di proposte. Ho cominciato ad avere accesso a risorse che prima di quel momento non mi sognavo neanche, come se fossi investito di un superpotere che dovevo tutto d’un tratto decidere come sfruttare». Mediterraneo è probabilmente il punto di sublimazione della lingua salvatoriana fino ad allora, riesce a convogliare alla perfezione il tema del viaggio con quello del carattere leggero e ingenuo degli italiani, dovunque si trovino. La guerra fa da sfondo lontano, da semplice collante per tenere assieme tanti personaggi diversi e dargli un senso comune in quel mosaico di incomprensioni, allontanamenti e avvicinamenti forzati che era il Paese nel marasma del conflitto. Come guardare la società delle pellicole precedenti, quelle ambientate nell’Italia contemporanea, formarsi, fondersi per la prima volta in un unico amalgama che poi sarebbe diventato l’impasto per l’identità dei decenni successivi. Monicelli con La grande guerra, ha provato a spiegare l’Italia agli italiani, quel particolare Salvatores è stato utile per tornare a definire il Paese e spiegare gli italiani all’estero.

Catania, nei panni di uno stralunato pilota di un aereo scalcinato, riassume in una parte secondaria lo straniamento che impregna Mediterraneo, cercando di far capire a un manipolo di soldati che non si sono mai sentiti in guerra e che da tre anni («Minchia, tre anni!») non hanno contatti col resto del mondo cosa è stato l’otto settembre. Gli sguardi increduli che ottiene in risposta sono la reazione di una nazione in ogni momento di cambiamento. Un misto di impreparazione e curiosità, sfinimento e costante volontà di ripresa, malgrado tutto. «Il re se n’è andato — dice — c’è da fare l’Italia».

Mentre gli orizzonti andavano via via aprendosi, le lingue si mischiavano e piatti diventavano sempre più esotici e difficilmente digeribili, i sentimenti rimanevano limpidi e lineari, senza troppe complicazioni al di là della vastità degli affetti. Un po’ come se i corpi fossero in viaggio ma i cuori rimanessero a casa. Allora, non c’era bisogno di andare a scalare l’Atlante per ricucire un’amicizia finita per una donna, come succede in Marrakech Express, oppure di trovarsi di stanza in un’isola dimenticata della Grecia per scoprire il primo amore, come in Mediterraneo. Eppure tutto assume un senso diverso se raccontato di pari passo con il viaggio: i continui ritorni di Turné, per vedere se le cose sono cambiate tra una trasferta e l’altra, l’incompatibilità degli espatriati di Puerto Escondido, che finisce per diventare l’unica condizione possibile per chi si trova in fuga per seppellire le armi e ripartire da capo. Figlio di un’evoluzione che segue l’allontanamento da casa, il punto focale di ogni film si trova nella sincerità dei rapporti personali e di nuovo il resto del mondo torna a fare da sfondo.

Dopo Puerto Escondido, tratto da un romanzo di Pino Cacucci e tinto di una trama leggermente più complessa dei precedenti, tra sparatorie e trafficanti d’erba, la visione di Salvatores ha cominciato a trascendere. La spinta evolutiva è derivata dalla moltiplicazione delle risorse a seguito dell’Oscar e si è trasformata in sperimentazione: «Avevo per le mani una possibilità che nella vita viene una volta sola, e ho deciso di usarla per cominciare a sperimentare. Avrei potuto continuare a fare film come Mediterraneo, ma ero arrivato a un punto d’arresto, anche con la commedia. Avevo sviluppato una sorta di rifiuto e contemporaneamente volevo imparare a fare qualcosa di nuovo, cercavo un’evoluzione che facesse bene a me e che restituisse qualcosa alla fortuna che avevo avuto». Sud, con Silvio Orlando tra i protagonisti assieme ai soliti Bisio, Alberti e Catania, affronta il tema della mafia e rappresenta già un punto di distacco rispetto alle pellicole precedenti. Ma è con Nirvana che Salvatores ha scoperto tutte le carte.

«Sai, l’Elfo si chiama così per via di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, ed è un po’ sintomo della mia continua fascinazione per la magia. Volevo fare un cinema realistico con notazioni fantastiche molto forti, una sorta di realismo magico. Delle volte non basta la ragione a spiegare la realtà». Nirvana taglia i ponti e con le sue ambientazioni cyberpunk che fanno in qualche modo da involontarie precorritrici all’universo di Matrix, comincia a sondare il lato fantastico della visione del regista, diventando il suo maggiore successo commerciale. «Venivo da qualcosa di completamente diverso, eppure il fatto di osare mi ha premiato, in quel momento». L’elemento irreale tornerà a singhiozzi nella filmografia successiva e ogni volta avrà la capacità di azzeccare il momento più che nei tentativi di esplorazione di altri generi. Il ragazzo invisibile, nelle sale fino a poco tempo fa, rappresenta una specie di conciliazione tra la commedia spensierata e la ricerca fantascientifica: «Volevo costruire un supereroe all’italiana. Semplice, comprensibile, con il quale ci si potesse mettere in relazione. Sto ancora tentando di trovare la quadra per investire davvero sul cinema italiano, per renderlo vicino all’universalità a cui tende».

Quando nel 2006 è uscito Match Point, tutti ci siamo accorti immediatamente che non si trattava neanche per una virgola del Woody Allen a cui eravamo più che abituati. Non c’era commedia, non c’era autocritica e non c’era nemmeno più New York. Però nessuno avrebbe potuto mettere in dubbio il fatto che si trattasse di cinema grandioso, semplicemente diverso. La stessa sensazione è serpeggiata attorno alle poltroncine nel 2010, all’uscita di Come Dio comanda. Salvatores era cambiato, era andato oltre Nirvana e aveva lasciato la trilogia, Milano e il sogno dei paradisi tropicali a una distanza considerevole, ma era comunque stato capace di mettere assieme qualcosa di notevole. Drammatico e incalzante, grave e coinvolgente.

Prima di quel momento si erano susseguiti una serie di tentativi eterogenei, non sempre andati per il verso giusto: Denti, la sovraesposizione scattante dell’Ibiza di Amnèsia, il passo importante di Io non ho paura e il poco convincente tuffo di Quo vadis, Baby?. La commedia era rimasta dietro una curva e non si vedeva più all’orizzonte, ma Come Dio comanda faceva pensare a una svolta decisa, per lo meno a livello estetico, poi approfondita attraverso i toni cupi di Educazione siberiana — anche se non con la stessa efficacia, probabilmente per la debolezza intrinseca alla storia.

«Quello che dovremmo fare, per rendere il cinema italiano più universale, è raccontare l’Italia senza cadere nella trappola delle semplificazioni. Senza trincerarci dietro ai luoghi comuni».

Dai film più recenti emerge una ricerca dell’universalità, un’apertura a un linguaggio globale che rischia però di portare a un appiattimento delle interpretazioni, a un alleggerimento dei personaggi e a un allontanamento dalla matrice condivisibile. «Quello che dovremmo fare, per rendere il cinema italiano più universale, è raccontare l’Italia senza cadere nella trappola delle semplificazioni. Senza trincerarci dietro ai luoghi comuni. Un film come Io non ho paura funziona bene perché si allontana da quello che all’estero è considerato “italiano” pur restituendone lo spirito. Tornare alla commedia degli inizi è difficile, per prima cosa perché non ci sono più le premesse di allora e poi perché il rischio è sempre ripetersi, soprattutto con film di quel genere».

C’è stato un momento in cui Salvatores è tornato sui suoi passi, anche se solo per una breve digressione. Era il 2010 e il film si chiamava Happy Family. Una commedia leggera nella quale ritorna Milano, la stessa Milano che aveva lasciato con Puerto Escondido ma cambiata spontaneamente: non c’era più bisogno di renderla globale raccontandone l’apertura, bastava filmarne l’espansione in una sequenza toccante di circa tre minuti che sembra voler ricongiungere il regista alle proprie origini. Anche la storia, pur non uscendo dai confini cittadini e spolverata qui e là di elementi fantastici e teatrali, riprende i temi lasciati a decantare dalle prime pellicole tinti di un pastello che ricorda Wes Anderson, e risuonano come qualcosa di più di una sensazione nelle interpretazioni di Abatantuono e Bentivoglio, accanto a un Fabio De Luigi ottimamente immedesimato. Happy Family sintetizza un percorso e si concede un po’ di nostalgia — tra l’altro con un riferimento diretto a un Marocco difficilmente fraintendibile e la promessa di tornare a viaggiare —, ma non si allontana troppo dal seminato. Riporta per un attimo il mirino nella posizione giusta e sembra recuperare un discorso lasciato in sospeso con in più un evidente avanzamento tecnico — l’Allen di Basta che funzioni, per restare in paragone — ma non chiude la partita.

Certo, non è così facile mantenere il passo senza ripetersi, soprattutto dovendo avere a che fare con un pubblico reso esigente dall’abitudine. «Per gli spettatori il cambiamento non è mai una cosa facile da digerire, tanti hanno pensato che io dopo Mediterraneo avessi sprecato un’occasione e io stesso ogni tanto mi ritrovo a ragionare su come tornare in quegli ambiti. Quando ho cominciato a provare nuovi filoni non ho sentito da parte del pubblico una vera disaffezione, ma certamente qualche perplessità. Però sono convinto che senza sperimentazione non possa esserci evoluzione. Una delle cose che vorrei provare a fare in futuro è cercare di fare un film come i primi, che torni a parlare dei sogni e delle ingenuità degli italiani, ma sfruttando completamente i mezzi che ho adesso a disposizione. Forse è proprio questa la cosa a cui tendo da tutto questo tempo. Sto pensando a cosa fare prossimamente, e devo dire che non è così facile».

Roger Ebert diceva che i film sono macchine costruite per generare empatia. Studiare la filmografia dei primi anni di Salvatores significa fare i conti con un immaginario che non tornerà, ma che ha influenzato il modo di vivere un Paese per una generazione. Significa fare i conti con la propria visione dell’Italia e, in molti casi, con la propria emotività. Quello che è cominciato con Kamikazen non si è dissolto, ma si è fuso in un flusso di evoluzione stilistica. Non è il caso di pensare a Mediterraneo, Marrakech Express e Turné come opere minori, ma certamente prendono spunto da uno spirito di artigianalità che le pone su un altro piano rispetto ai film più recenti, tecnicamente più evoluti e costruiti per un pubblico internazionale. Quello che ci si trova davanti, guardando il lavoro di Salvatores, è la storia di una crescita, che poggia su basi solide e che di tanto in tanto torna a raccontare se stessa dopo essersi persa per le strade del mondo. Alcuni dei protagonisti di questa storia stiamo ancora aspettando che tornino, ma per ora è bene che stiano dove sono, a tenersi ben ancorati alle origini in attesa che torniamo noi.
 

Nell’immagine in evidenza: Gabriele Salvatores al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2006. (Chris Jackson/Getty Images)