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Ben Lerner: poesia, catastrofi e smartphone

In Francia il romanziere americano ci ha parlato dell'importanza delle poesie brutte, delle città come «archivi viventi» e dell'essere traumatizzati dal futuro.

di Sara Marzullo

Ben Lerner è autore di due romanzi (Un uomo di passaggio, Neri Pozza 2011, e Nel mondo a venire, Sellerio 2015), oltre che acclamato poeta e vincitore di un MacArthur Genius Grant. La scorsa estate è uscito un suo breve saggio, The Hatred of Poetry, in cui analizza il suo rapporto con la poesia, in particolare sull’odio che suscita la poesia. Lo abbiamo incontrato in Francia, in occasione dell’uscita dell’edizione francese di Nel mondo a venire.

 

benNel tuo ultimo saggio, The Hatred of Poetry, parli della poesia come di un effetto che le poesie provano ad ottenere, una specie di traguardo irraggiungibile. Non provi a descriverla nello stesso modo in cui in Un uomo di passaggio non descrivi certi momenti di quiete e pioggia; in quello stesso libro citi anche John Ashbery, scrivendo che la sua poesia sembra sempre fuori portata, come scritta sull’altro lato di uno specchio. Insomma, sembra quasi che quello che chiamiamo poesia non sia altro che un collasso di strutture, che in qualche modo le poesie provano a addomesticare: un vuoto attorno a cui si cammina.

Ho scritto The Hatred of Poetry non perché a me interessasse la vera essenza della poesia, qualsiasi cosa voglia dire, ma piuttosto per le aspettative impossibili che le persone nutrono nei suoi confronti. La poesia può significare cose diverse e ci sono innumerevoli tipi di poeti e non è compito mio descriverli, ma volevo parlare di come la parola “poesia” sia utilizzata per dare un nome a un tipo di richiesta impossibile da esaudire: il desiderio di riuscire a fare qualcosa con le parole che le parole non possono fare, come unire le persone al di là delle loro differenze o costruire un mondo nuovo a partire da quello che resta di questo mondo.

La cosa interessante è che le poesie singole non possono raggiungere questo risultato, quindi la questione diventa come poter fallire meglio, per dirla con Beckett. Tutte gli stratagemmi scelti dai poeti servono a evitare le trappole e a sfuggire dalle aspettative impossibili: i poeti hanno usato il silenzio o la frammentazione per far provare quel che altrimenti non avrebbe potuto essere detto, come la possibilità di un mondo alternativo o di un nuovo ordine di senso; non essendo in grado di materializzare l’alternativa di cui stanno scrivendo, ne producono bagliori attraverso un collasso premeditato, così come lo chiami tu. Le poesie hanno sempre a che fare con l’idea di fallimento, ma non trovo che questo sia deprimente, anche se è la cosa che fa impazzire la maggior parte dei poeti; per me è quello che rende l’arte fertile.

ⓢ In effetti mi pare che sia questo il modo in cui tutti i tuoi libri sono scritti, più che sulla materia, sulle possibilità, sulle strutture, su come ci orbitiamo attorno. In The Hatred of the Poetry parli anche di una teoria abbastanza insolita: le poesie brutte, dici, quelle davvero terribili, sono in un certo senso più vicine al cuore della poesia rispetto a quelle carine o mediocri. La poesia perfetta è impossibile da scegliere, perché per te può essere Emily Dickinson o John Donne, ma forse non lo è per me, invece basta leggere due versi di “The Tay Bridge Disaster” di McGonagall per concordare sul fatto che si tratta di una poesia orrenda. McGonagall ha fallito meglio di tutti, proiettandoci verso una poesia che poteva essere e non è mai stata.

Quando leggi una poesia che fallisce miserabilmente tutti i suoi intenti, allora puoi iniziare a elencare tutti i modi in cui fallisce e ti ritrovi alla fine a tracciare in negativo il profilo di una bella poesia. È la stessa strategia filosofica con cui Cartesio e altri filosofi provano l’esistenza di Dio: se abbiamo un’idea di perfezione è perché il mondo che esperiamo è imperfetto, e questo significa che la perfezione deve esistere, sia questa Dio o quello che vuoi. Di nuovo, però, a me non interessa la verità metafisica di queste cose, mi interessa il loro aspetto sociale e cioè perché ci piace odiare certe poesie: credo che sia perché ci permettono di produrre un’immagine di perfezione, un po’ come se ci fosse dell’idealismo mescolato con questa forma negativa di bellezza. E la cosa buffa è che le poesie orribili mettono d’accordo le persone più di quanto lo facciano altre; è interessante vedere che la poesia è sempre o quasi imbarazzante: le persone sono infastidite, innervosite dalla poesia, anche quando è di buona qualità, forse a causa del rischio che la poesia si prende. La relazione tra vergogna e poesia credo abbia a che fare con la relazione tra essere poeta e essere persona, come se si scrivesse poesia in virtù della nostra umanità. Non vale altrettanto per i romanzi: si dice che tutti i bambini sono poeti, non certo che ogni bambino è un romanziere. Credo che la vergogna abbia a che fare con l’idea che se scrivi una poesia e quella poesia non è riuscita, allora sei tu a fallire, proprio in quanto persona, una specie di bancarotta interiore; non è che le persone credano coscientemente a questa roba, ma alcune di queste idee infettano la nostra relazione con la poesia, in un modo che trovo interessante.

Finishing Touches Applied To Dreamlands Theme Park Ahead Of The Official Re-opening

ⓢ In The Hatred of Poetry parli anche del potere delle parole, di come riescano a modificare la realtà, a distruggerla addirittura; si chiama “saturazione semantica” ma è la stessa cosa che accade ai ragazzini che vengono presi in giro dai coetanei. Per uno scrittore consapevole dell’uso e la forza delle parole come te, qual è il tuo rapporto con il processo di traduzione?

Il poeta Robert Duncan una volta ha detto della traduzione che è a un tempo impossibile e inevitabile: voglio dire che è meraviglioso avere i miei libri tradotti in lingue che non so leggere, ma significa anche che non posso farmi un’idea della bontà della traduzione. Ma con questa domanda mi hai fatto pensare a un’altra cosa: tutte le discussioni sulla traduzione parlano di perdita, ma quello che mi accade leggendo una poesia che è stata tradotta è che questo testo mi piace anche in virtù dell’aura che lo circonda: se è bello in traduzione, figuriamoci quanto sarà grandioso nella sua lingua originale. Non mi pare di ricordare nessuno che ne parli, eppure ogni traduzione carica il testo con un senso di potenzialità, una sorta di luccichio, perché è percepito come una pallida ombra dell’originale. Non so cosa trarre dalla considerazione che tradurre è un fatto impossibile, come scrittore di romanzi sono stato fortemente influenzato da libri scritti in altre lingue – per la poesia è diverso – ma posso dire che la traduzione è un caso speciale di virtualità e che a questo proposito The Hatred of Poetry può essere usato in sua difesa. Se parte del piacere della lettura sta nell’assorbire come un vampiro la sintassi e il ritmo di uno scrittore, la traduzione non è che una forma ancora più forte dello stesso processo.

ⓢ Entrambi i tuoi romanzi sono ambientati all’indomani di eventi catastrofici – gli attacchi terroristici a Madrid in Un uomo di passaggio, l’uragano Sandy a New York in Nel mondo a venire – situazioni eccezionali in cui si crea una specie di zona franca in cui le regole sociali sono sospese. Perché scegliere questi momenti?

C’è qualcosa di utopico in questi momenti cruciali, perché permettono di creare un soggetto collettivo, un senso di comunità, è parte del motivo per cui li ho utilizzati; non che abbia scelto del tutto intenzionalmente certe ambientazioni, credo piuttosto che questo sia accaduto perché queste mi permettevano di mostrare uno stato di eccezione, in cui percepire un senso di possibilità sociale aumentata, un momento in cui i ritmi mondani o lavorativi sono sospesi, una zona in cui la narrazione del nostro quotidiano diventa più afferrabile.

ⓢ Nel film One more time with feeling Nick Cave, a proposito della morte del figlio, afferma che aspettiamo tutta la vita che ci accada qualcosa drammatico, per poterne scriverne, ma che nel momento in cui questo avviene non resta spazio per altro, che il dolore è dannoso per il processo creativo. C’è un punto di Un uomo di passaggio in cui discuti di questioni simili con Cyrus, ma mi sono resa conto di una cosa, che tu non descrivi mai momenti traumatici nei tuoi libri, c’è piuttosto la sensazione che qualcosa stia per accadere. È una letteratura dal futuro fragile.

È vero, è così. Di recente ho letto un libro di critica che si chiama Tense Future e parla del futuro come forma verbale. Inizia raccontando come a Hiroshima e Nagasaki, prima che venissero bombardate nella Seconda guerra mondiale, i giapponesi avessero questa sensazione che qualcosa stava per accadere: si chiede se sia possibile o meno essere traumatizzati dal futuro, come se il presente diventasse difficilmente leggibile, quando si ha la percezione di una catastrofe imminente. La tua domanda mi fa pensare a come entrambi i miei romanzi raccontino la preparazione a eventi che forse non avverranno mai. Non so se “trauma” sia la parola giusta, ma in tutti e due i libri si medita a lungo su argomenti come la mortalità dei genitori e sulla fragilità delle cose e del corpo, su quanto del presente venga determinato dalla prospettiva di possibili eventi futuri, piuttosto che da quello che si sta vivendo; ecco, in questo senso è ragionevole parlare di una letteratura legata all’ansia.

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ⓢ Quando si tratta poi di eventi catastrofici è difficile scrivere qualcosa senza sentirsi quasi costretti a tirarne fuori un senso. Mi vengono in mente pochi libri, pochi film che riescono a farlo, proprio perché c’è questa sensazione che si debba imparare qualcosa da un dolore. Forse è solo questione di essere rassicurati, di trovare un senso. Tu lo eviti.

Gran parte della letteratura ci delude perché prende traumi storici e li descrive come fossero un viaggio sentimentale; invece per me il romanzo deve rimanere impermeabile a queste soluzioni facili e lusinghiere, per cui il protagonista subisce una perdita tremenda, ma poi sopravvive: la forma dei romanzi deve essere ben più aperta di questo modello terapeutico della storia. Dipende da quanto sei disposto a lasciare aperta la forma del  romanzo, se il tuo libro avrà punti di omissione o brecce nella struttura, per quanto questa sia densa: per me questo tipo di apertura è molto più interessante di tutti quei circuiti chiusi che prendono un evento, lo analizzano mostrando le varie implicazioni psicologiche e poi arrivano a un coronamento finale. La questione su quale forma sia il corrispettivo ideale per raccontare l’esperienza individuale di un trauma collettivo è ancora riassumibile in una parola: modernismo. Ed è – ancora – una domanda, non una risposta.

Nel mondo a venire è un libro in cui l’atto di camminare per la città diventa modo di spostarsi nello spazio e nel tempo. Olivia Laing ha scritto in The Lonely City che «ogni città è un luogo di sparizioni, ma Manhattan è un’isola e per reinventarsi è costretta a demolire letteralmente il passato»: questo passaggio mi dà il senso della tua scrittura, il modo di presentare la città come una ragnatela di presenze che emergono mentre la si attraversa, come una nebbia, una foschia.

Basta guardare alla densità dello spazio costruito per comprendere come ogni spostamento equivalga a un viaggio nel tempo, anche se la standardizzazione operata dalla finanza sta minacciando la complessità della storia sedimentata nella città. Non so se sei mai stata a New York, ma ti consiglio di farlo prima che diventi un’enorme Chase Bank. Recentemente ho scritto una storia per il New Yorker (“The Polish rider”) e, nonostante sia un’opera di fiction hanno voluto verificare la verosimiglianza di quanto avevo scritto: nel racconto a un certo punto dico che un certo garage di taxi doveva essere stato rimpiazzato da una filiale della Chase Bank, ma chi si è occupato del fact-checking mi ha detto che mi ero sbagliato, non era una Chase Bank adesso, ma una City Bank. Quindi lo spazio è minacciato dalla gentrificazione, dalla standardizzazione finanziaria, dall’innalzamento dei mari, ma c’è ancora un enorme serbatoio di esperienze che rendono la città un archivio vivente, sia in rapporto alle tue coordinate personali, sia rispetto a una storia che ti tocca trasversalmente; in questo senso la città è ancora rilevante.

ⓢ Cosa succede però quando la tecnologia cambia il nostro modo di relazionarci alla città? Se parliamo di archivi di esperienze, cosa accade quando queste esperienze non avvengono materialmente in un luogo, ma tra due telefoni in connessione? Come registriamo messaggi, email, informazioni incorporee in uno spazio reale? È come se la nebbia di cui parlavamo prima avesse un odore chimico.

Quello che penso renda il romanzo ancora rilevante come forma è che è una tecnologia vecchia capace però di rappresentare i cambiamenti delle tecnologie più nuove. Prendi le descrizioni di Proust di telefoni e aeroplani: il romanzo è capace di catturare il modo in cui questi cambiamenti avvengono, se accetta di prendersi dei rischi. La scrittura sembra sempre meno rilevante in relazione a certa tecnologia, ma il romanzo a me pare via via più importante perché capace di parlare di altri strumenti di comunicazione; proprio da questo deriva il mio ottimismo nei suoi confronti.

Nelle immagini: il parco divertimenti Dreamland di Margate, Inghilterra (Rob Stothard/Getty Images)