Attualità

Il ristorante preferito

Cinque firme di Studio raccontano qual è la loro cucina dello spirito e perché, dalla Liguria a Londra.

di Aa.Vv.

Tutti abbiamo un posto preferito dove andare a mangiare oppure, anche se ci siamo andati una sola volta, una cucina dello spirito. Per questo abbiamo deciso di chiedere a cinque nostre firme di parlarci del loro ristorante preferito e di raccontarci perché. Da un ristorante possiamo farci l’idea di una persona? Ed è solo una questione legata alla qualità dei piatti o c’è dell’altro? La seconda puntata (la prima è qui) di una piccola indagine gastronomica-letteraria.

Errico Buonanno – Da Augusto (Roma)

Se c’è una cosa che mi ha sempre angosciato, dell’andare a cena fuori, è la scelta. La mia capacità di rimanere bloccato davanti al menù, indeciso su che prendere, e di tormentarmi poi, per il resto della cena, nel pensiero di aver fatto la scelta sbagliata. Ecco perché la Trattoria da Augusto, a Piazza De’ Renzi (Trastevere, Roma), è il ristorante perfetto per me. Prima di tutto perché un menù praticamente non c’è. Credo ne esista un esemplare o due, però è inutile. Ma soprattutto perché Augusto presenta la versione basic della trattoria. Non solo ci sono sempre le stesse cose, quattro stagioni su quattro, mattina e sera. Il punto, piuttosto, è che le cose sono quattro. Due primi: rigatoni cacio e pepe e rigatoni all’amatriciana. Stessi rigatoni: cambia la pentola da cui pescano il sugo. Due secondi: spezzatino e straccetti con la rucola. Augusto non deve assumere pose. Non è la trattoria romana con l’insegna falso-genuina (“Dar buchetto”, “Dar fregnone”… Diffidare sempre, a Roma, delle trattorie con le insegne in romanesco; Augusto l’insegna non ce l’ha). Augusto non è finto cortese. Appena varchi la porta hai la coscienza che ad Augusto stai rompendo le palle. Che ti sopporta a malapena. E questa è la migliore garanzia che il servizio sarà rapido e senza trucchi. Insomma, Augusto ci riporta alle origini: non imbroglia e non intorta. Lui nutre. E di questo gli sarò per sempre grato.

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Claudia Durastanti – Chilli Cool (Londra)

A volte penso sia uno dei miei posti preferiti in cui mangiare a Londra perché ha un nome così pacchiano che non riesco a pronunciarlo senza fare una smorfia; come qualcosa di scritto sul bomber acetato di un rivale di Ralph Macchio. Chilli Cool è una trattoria cinese composta da due ambienti: in uno servono solo l’hot pot, un calderone in cui spetta al cliente riversare funghi, bambù, pesce e interiora in un magma rossastro pieno di bolle, mentre l’altro è una sala più ambiziosa in cui vengono proposti i piatti tipici del Sichuan. Intingoli piccanti che, una volta posati sul tavolo, trasformano i consumatori nelle vittime di un esorcismo: in cinque anni di affezionata presenza, ho visto lacrime, svenimenti e gente che parlava in lingua dietro una coltre di vapore. La clientela è composta quasi esclusivamente da studenti o famiglie asiatiche; ogni volta che ci vado vengo servita per ultima. Ci ho fatto l’abitudine, dopo anni la ruvidezza del personale mi sembra anche una forma di rispetto. Ma forse la vera ragione per cui mi piace andarci l’ho scoperta l’ultima volta che ci sono stata: alle undici di sera, con i capelli bagnati per gentile concessione del meteo, mentre il posto era vuoto e la cameriera stava già rovesciando l’acqua saponata sul marciapiede eppure ci ha serviti lo stesso, e io guardandomi intorno ho sentito la mancanza di Ben Gazzara e ho pensato che prima o poi sarebbe apparso dietro la tenda di plastica per rovesciare i tavoli e pescare qualcosa dal mio hot pot senza chiedere permesso.

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Alcide Pierantozzi – El Porteño (Milano)

Si dice che Plutarco, davanti alle carni sugli spiedi, sentisse allucinatoriamente il muggire lamentoso delle vacche. Mi succede la stessa cosa quando vado a El Porteño di via Gian Galeazzo 25 (Milano), ristorante argentino con uno di quei nomi che hanno in sé una grande sapienza – porteño è chi viene dal porto di Buenos Aires, il centro del sapere e della nobiltà per un abitante della città. E la carne è stata per noi tutti, fino all’altro ieri, un “fondamento”. «Una cucina che mette la carne a fondamento di tutto» è scritto non a caso sulla brochure. Fosse esistito vent’anni fa così com’è oggi, questo locale sarebbe assurto a cattedrale, sarebbe stato il duomo della mega-diocesi degli ex carnivori milanesi. Ambiguo, come ogni luogo divino: perché la carne è un premio (i contadini se la concedono una volta la settimana) ma anche una punizione (chi non ha appallottolato pezzi di fettina sotto il tavolo, da piccolo?). Al Porteño ad esempio vanno molto forte le costolette d’agnello, e sì, ogni volta sento urlare quelle povere bestiole, come Clarisse nel Silenzio degli innocenti, odo i maialini che grufolano, commetto empietà contro Demetra legislatrice. Ma non posso farci niente, sono un uomo. L’uomo che sono si vergogna a dover ammettere che, da abruzzese, ogni tanto deve mangiarsi una bella bistecca al sangue o un cesto di arrosticini o un filetto. E la carne come viene scelta, cotta e servita al Porteño, quest’uomo sa di non poterla trovare nemmeno in Abruzzo.

Davide Coppo – Assirto (Moneglia, Genova)

Moneglia è un minuscolo paese della Liguria, a metà strada tra Genova e La Spezia, in cui ho passato una quindicina di estati. Ai non-liguri, i liguri sono tradizionalmente antipatici. Almeno, questo è il luogo comune più diffuso, forse ancor più dell’estrema economia del risparmio. La cucina ligure, fuori dalla regione, non è nemmeno troppo apprezzata. Sì, il pesto, la focaccia. Il meraviglioso mosaico della cima, però, è pressoché sconosciuto; i pansoti al sugo di noci meriterebbero una fama uguale o superiore ai tortelli in brodo. Il mare, contro quello pugliese, sardo, siciliano, e ancora di più per colpa delle lunghe spiagge colonizzate dagli stabilimenti, è tenuto in poco conto. La Liguria, insomma, è una regione sottovalutata. Uno dei motivi per andarci, per andarci ancora di più d’inverno, è Assirto. Arrivarci non è facile: per entrare in Moneglia è necessario aspettare un semaforo che regola il senso alternato, percorrere gallerie strettissime. La scelta dell’inverno, invece, è perché Assirto è chiuso in un carruggio, senza vista sul mare, senza vista da nessuna parte. Ma il polpo alla galega, il vino rosso, le sardine in crosta di pistacchio, la zuppa di trippa (vescica natatoria) di pesce, valgono il viaggio. No, la cucina non è del tutto ligure, ma la ricerca parte dalle radici gastronomiche locali per spaziare a tutto il Mediterraneo. Luca, il proprietario, affosserà i cliché sull’antipatia regionale. C’è un pianoforte, che si può suonare. L’ultima volta che ci sono stato c’era una pagina di Forbes appesa all’ingresso: Assirto era stato nominato “Meal of the year” lo scorso anno. E poi il mare d’inverno è bello, anche se pure questo è un cliché.

GREECE-EUROPE-MIGRANTS-TOURISM

Silvia Schirinzi – LaltroBaffo (Otranto, Lecce)

Partiamo dal presupposto che non amo mangiare fuori, preferisco che cucinino per me, io apparecchio e lavo i piatti perché di solito sottopongo poche persone alla mia, di cucina. Mia madre invece è in grado di organizzare una cena a base di pesce per venti persone, i problemi secondo lei iniziano solo dopo quel numero: fino a venti, assicura lei, te la puoi cavare. Appurato che tale scientifica razionalizzazione delle risorse non è affatto genetica, dalla mia famiglia ho ereditato solo l’essere molto schizzinosa quando si tratta di mangiare il pesce fuori. I miei zii sono pescatori per cui l’assioma di fondo con cui sono cresciuta è riassumibile in «non viene dalle nostre barche, non è fresco», possibilmente dubitare anche di quello proveniente dalla barca accanto. Quando mi chiedono dove si mangi bene dalle mie parti, allora, vado sempre un po’ in crisi, soprattutto perché tutti gli amici e colleghi arrivano puntualmente in agosto, quando il Salento è invivibile. Un consiglio però ce l’ho, finalmente. Scegliete una giornata in cui ci sia un po’ di tramontana e andate a Otranto, vicino al castello aragonese: poco prima di imboccare una delle vie strette in salita del bel centro storico, c’è un localino che si chiama LaltroBaffo. Se la menano un po’, hanno la corda all’ingresso, preferiscono che li avvisiate (ovvero: prenotare prima). Però sono gentili e discreti, meglio se chiedete di stare al piano di sopra, fra i tetti di Otranto. Una volta seduti, scegliete un buon vino, qualche antipasto (sono tutti freschi) e poi ordinate la carbonara di ricci, la loro specialità: garantita, è piaciuta anche a mia madre.

 

Le immagini (Getty Images)nel testo non si riferiscono ai ristoranti nominati