Attualità

Il fascino indiscreto del reparto pediatria

Da Braccialetti rossi a Braccialetti azzurri (giovedì nelle librerie): perché le storie di ragazzini malati piacciono soprattutto ai ragazzini sani.

di Arianna Giorgia Bonazzi

È uno dei pochi argomenti su cui non si può scherzare, la gaffe più temuta, il più strappalacrime dei soggetti per qualunque storia. I bambini malati. E c’è una sola categoria capace di accogliere senza alcun senso del patetico le storie di malattia infantile: i ragazzini. C’è una dose di perverso godimento nell’entusiasmo con cui i dieci-quattordicenni acclamano i libri e i serial ambientati nei reparti pediatria, e somiglia un po’ al noto sentimento di desiderare di assistere al proprio funerale.

Questa settimana esce in Italia, per Rai Eri e Salani, Braccialetti azzurri (in lingua originale El mundo azul), il nuovo libro per ragazzi dell’acclamato Albert Espinosa; mentre in estate, in Puglia, si girerà la terza stagione italiana di Braccialetti rossi, un serial mainstream, adattamento dello show catalano Polseres vermelles, a sua volta tratto da precedente romanzo di Espinosa El mundo amarillo. I colori, che cambiano dal libro alla trasposizione televisiva, in cui il riferimento va ai braccialetti indossati dai bambini ospedalizzati, servono a definire il mondo infantile. Un mondo giallo (amarillo), “senza norme, senza etichette, un mondo caldo come il sole, dove i baci durano dieci minuti.” Un mondo dove ogni giorno potrebbe essere veramente l’ultimo, e allora non pensiamo mica a lavorare o a pagare le tasse (certo, siamo minorenni!), ma a sorridere e ad amare.

Provateci voi a togliere speranza al mondo ingenuo di Espinosa senza sentirvi dei mostri.

Espinosa, quarantun anni, molte parti del suo corpo mangiate da un tumore – una gamba finta, un solo polmone in petto – viso e look puliti da ragazzone, ricorda la malattia come il periodo migliore della sua vita. Il suo spirito sembra essersi fermato a quel tempo; lì ha trovato le radici di una lunga e potente narrazione che oggi lo rende l’idolo dei ragazzini nel mondo.  Provateci voi a togliere speranza al mondo ingenuo di Espinosa senza sentirvi dei mostri e cercate di ricordare quando, da ragazzini sani o cagionevoli che foste, non prendevate nemmeno in considerazione l’ipotesi che il vostro futuro non sarebbe stato popolato di SOGNI (sottotitolo del nuovo libro: ama il tuo caos).

E infatti, ai ragazzi, il mondo creato da Espinosa piace. Così come l’adattamento televisivo catalano, e quello italiano, fedelmente mutuato dall’originale per la sceneggiatura di Sandro Petraglia e la regia di Giacomo Campiotti.

L’adattamento italiano Braccialetti rossi, che prende il nome dai bracciali in plastica tipo “festival di musica” saldati ai polsi dei bambini operati, è un teen drama, o meglio un dramedy pieno di humour e leggerezza, ambientato in un ospedale pediatrico “speciale, immerso tra gli ulivi, e col campo di basket sul tetto”, come recita il voice over sulla sigla, un pezzo oscenamente sgrammaticato (“Ci sono sogni in cui ci credo ancora”), composta da Niccolò Agliardi, uno che scrive per la Pausini, Emma Marrone e dj Francesco. Ma se si riesce a stringere i denti di fronte ai dialoghi didascalici (“Ah, sei senza una gamba anche tu!”) e a mettere da parte futili cinismi, si può godere di una serie di trovate fantasiose, efficaci, perfino belle.

Quando mi sono resa conto del fenomeno Braccialetti rossi, un déja-vu mi ha fatto ripensare a un altro prodotto Rai, Amico mio con Massimo Dapporto, un serial del 1993 con un cast abbastanza importante (c’erano Pierfrancesco Favino, e Claudia Pandolfi nei panni di una svenevole infermierina che non sopporta la vista del sangue) e con le musiche struggenti di Nicola Piovani. Avevo 11 anni e la mia vita era scandita dalla messa in onda dell’episodio successivo. Pensavo di essere semplicemente una ragazzina strana e melodrammatica, invece leggo che Amico mio faceva punte di 9 milioni di telespettatori, e rintraccio coetanei che all’epoca stravedevano per le sfuriate di Dapporto contro le lungaggini burocratiche, i primari carrieristi e le dottoresse raccomandate (ma bellissime). In seguito, sarebbero passati le varie Dottoresse Giò e i Medici in famiglia, ma Amico mio fece da apripista per il “fortunato” genere strappalacrime e strappaconsensi, oltre a costituire un precursore indiscusso del medical teen.

In questi show, la verosimiglianza della vita ospedaliera è del tutto irrilevante rispetto all’esigenze di teatralità dei dolori dei giovani protagonisti: i trovatelli possono restare ricoverati per anni nell’ospedale più allegro del mondo inventandosi piccoli malanni per evitare l’orfanotrofio delle suore; i ragazzini colpiti da un lieve malore vengono ricoverati direttamente accanto ai lungo-degenti più simpatici e ganzi senza neanche passare per il pronto-soccorso.    

Nella vicenda di Toni di Braccialetti Rossi, la scarsa verosimiglianza travalica addirittura nella magia, vera cifra “espinosiana” del genere: Toni è una specie di medium tra il mondo della vita e della morte. Un bambino capace di parlare sia coi comatosi che coi fantasmi. Un ragazzo che, sì, sfoggia una recitazione farsesca da sceneggiata napoletana, ma che da vero visionario abita una membrana tra l’essere e il non essere.

Toni esplicita forse la tonalità emotiva dell’intero medical-drama, ovvero il senso della malattia nell’esperienza infantile. La malattia, nel bambino (incosciente, invulnerabile), non è necessariamente l’anticamera della morte, ma una prova che rinforza e tempra, una condizione onirica che catapulta fuori dallo scorrere monotono del tempo, una zona franca che va esplorata. Per l’adulto, invece, la malattia ha già l’odore cattivo di una prossima morte. La malattia è anche metafora della condizione adolescenziale. Vivo la mia età come un’ospedalizzazione. La malattia darebbe dunque ai telespettatori bambini la “scusa” per struggersi senza freni della propria condizione infantile, immedesimandosi con protagonisti che, rispetto a loro, hanno solo una ragione più accettabile per soffrire: cioè, una condizione clinica.

Dal punto di vista drammaturgico, il dono di Toni è solo una tra le tante soluzioni stupefacenti adottate in Braccialetti. La voce narrante della prima stagione, infatti, è Rocco, un bambino in coma da nove mesi. La voce narrante della seconda stagione, invece, è il fantasma di un bambino sbruffone morto nella quarta puntata della prima. Sembra troppo per tutti, e invece fila.

Il piccolo Rocco racconta le vicende dei compagni di reparto. Ne fa la cronaca da un luogo fatato, tra la vita e la morte, che è proprio la piscina dove ha avuto l’incidente in seguito al quale è in coma. Appena nell’ospedale si accende un defibrillatore, e un ragazzino entra nello stato di premorte, si materializza a bordo-piscina, e parla con Rocco. Rocco gli spiega che il trampolino è la vita, mentre la profondità dell’acqua è la morte, dove nuotano, in una raffigurazione rovesciata rispetto al classico cielo, le anime dei cari che abbiamo perso (di solito, la mamma del moribondo, che, come in Amico mio, e in Dickens, e in Tom Sawyer, è pure orfano).

Vige lo schema dell’amore a tre (i due mutilati lottano per l’anoressica), esattamente come nel libro e film di successo Bianca come il latte rossa come il sangue (non a caso, sempre per la regia di Campiotti), in cui il protagonista si rassegnava a fidanzarsi con la sua migliore amica, dopo che il suo vero amore era data per spacciata per leucemia.

Il sacrificio del protagonista sembra appartenere all’evoluzione odierna del genere.

La malattia, come giustificazione per il dolore innato degli emo kids, ritorna almeno in un altro best seller recente, Colpa delle stelle di John Green. Anche qui, il protagonista è un ex giocatore di basket con la gamba amputata, proprio come Albert Espinosa e Leo, il “leader” dei Braccialetti. Anche qui, la ragazzina malata di tumore, che se ne innamora al gruppo di supporto, è costretta a rinunciare a lui quando il ragazzo è colpito da una grave recidiva. Alla fine della seconda stagione di Braccialetti, Leo – orfano di mamma, tumore alla tibia, un papà che assurdamente non lo viene mai a trovare, ma un umore sempre a mille – viene colpito da un secondo tumore maligno, stavolta al cervello, e, capendo di non avere speranze, cerca di riavvicinare l’ex-anoressica e il collega senza gamba, benedicendo la loro relazione (come accade in Bianca come il latte). Nei vecchi medical drama, come Amico mio, c’erano le patologie alimentari, le famiglie disfunzionali, le crisi epilettiche, ma non si moriva. Il sacrificio del protagonista sembra appartenere all’evoluzione odierna del genere.

Dopo diverse opere uscite in sordina, lo scrittore francese Philippe Forest ha conquistato il pubblico mondiale e il rispetto della comunità intellettuale con la storia vera della sua bambina malata. Qui, il sacrificio della protagonista non era un trucco drammaturgico, ma una realtà inaccettabile. Nel 2005, Forest intitolava il suo doloroso libro autobiografico L’enfant éternel, in italiano Tutti i bambini tranne uno, citando naturalmente una fiaba, quella di Peter Pan. Tutti i bambini, tranne uno, crescono. È una frase che riguarda ogni adolescente che abbia bisogno di riflettere – quando va bene – sul suo passaggio tra una malattia (l’infanzia) e l’altra (l’età adulta).