Attualità I libri del mese Cosa hanno letto a settembre amici e collaboratori di Studio.di Redazione 30 Settembre 2015 James Salter – Una perfetta felicità (Guanda) Questo romanzo degli anni Settanta ha creato problemi in casa mia. A qualcuno sembra superficiale, a qualcun altro sembra Whitman mescolato con Tolstoj. La storia, come dice il primo, è un po’ inutile. La storia di un matrimonio e della famiglia che ne deriva (due figlie), raccontata per decenni, di palo in frasca. Il secondo dice che è forse il miglior romanzo americano dal dopoguerra a oggi perché per una volta, invece di fare sociologia, parla esclusivamente sub specie aeternitatis, come se al narratore onnisciente interessasse solo che i suoi protagonisti raffinati della east coast sono mortali, moriranno. Così, invece di scherzare a fare satira sui vizi di classe, ma con la stessa dovizia di particolari di un Arbasino o un Roth, si racconta la vita come un lungo terribile e dolce tramonto, che ammiriamo senza sapere chi siamo, navigando di bolina, barche contro la corrente, riportati senza posa nel passato. (Francesco Pacifico) Charles Nodier – Bibliografia dei folli (Quodlibet) Attenzione, questo è un libro di culto. Pubblicato in francese nel 1835, ha dato vita a un intero genere letterario, amatissimo da Raymond Queneau e Umberto Eco: lo studio dei cosiddetti “folli letterari”. Filosofi dilettanti, inventori eccentrici, poeti lunatici, i folli letterari sono tutti quegli scrittori marginali — oggi diremmo “outsider” — che nessun canone ha mai voluto accogliere, ma che per qualche ragione meritano di essere ricordati. Perché fanno ridere, perché fanno viaggiare, perché le loro meticolose ossessioni ci mostrano il mondo sotto una nuova luce. Dopo aver dedicato un libro intero ai Mattoidi italiani (Paolo Albani), Quodlibet pubblica per la prima volta in italiano il testo seminale di Nodier, sfortunatamente soltanto in edizione ebook, tradotto e curato da Jacopo Narros. Tra i suoi folli lo scrittore romantico citava Francesco Colonna, esploratore di sogni, e Cyrano de Bergerac, esploratori di mondi: entrambi ampiamente sdoganati nel frattempo e riaccolti a braccia aperte nel canone. Ma i folli non hanno certo smesso di scrivere nel 1835, e ve ne sono sempre di nuovi da scoprire. I surrealisti, eredi di Nodier, votarono un culto quasi religioso a Jean-Pierre Brisset, che aveva scritto diversi trattati per sostenere che l’uomo discende dalla rana. E oggi? Nell’epoca del self-publishing e del LOL considerato come una delle belle arti, dei trattati sul signoraggio bancario e degli emendamenti generati col computer, i folli letterari non sono mai stati così attuali. Les fous littéraires, c’est nous. (Raffaele Alberto Ventura) Alexandra Kleeman – You Too Can Have a Body Like Mine (HarperCollins) Ho comprato questo libro per invidia: è l’opera prima di una ragazza molto molto carina che ha esordito 5 anni fa (a 24 anni) con un racconto pubblicato su The Paris Review. E quando ho iniziato a leggerlo ho scoperto che l’invidia è uno dei tanti grumi emotivi riguardanti il corpo (o la sua immagine) che Kleeman descrive con inquietante meticolosità. A, la voce narrante, ha un rapporto morboso con B, la sua coinquilina. Il binomio viene talvolta interrotto da C, il fidanzato di A. A, B e C passano le loro giornate guardando la tv. Tutto ruota intorno a prodotti di bellezza, cibo, pubblicità, realityshow. In preda a una sorta di dissociazione A osserva incredula gli oggetti che la circondano, il proprio corpo e la presenza viva di B e C: percepisce ciò che vede in tv come più reale della realtà e, infatti, nell’economia del libro, le descrizioni delle immagini sullo schermo hanno un peso maggiore della descrizione della routine dei personaggi (ad es. le persone in tv hanno nomi propri, i protagonisti no). La tv è un mezzo ormai obsoleto e forse per questo funziona bene come simbolo: c’è qualcosa di disturbante, preciso e assolutamente contemporaneo nel modo in cui Kleeman descrive la consistenza sempre più molle e indefinita di un’identità assediata dalla propria riproducibilità, e poi la noia, il ruolo del corpo femminile nelle relazioni donnadonna, il difficile rapporto tra questo corpo e il cibo (finalmente esplorato con voce fresca e geniale) e tra i corpi reali e i corpi sullo schermo. (Clara Mazzoleni) Enrique Vila-Matas – Kassel non invita alla logica (Feltrinelli) Vila-Matas fa il lavoro sporco per tutti quelli che, come me, non se la sentono di liquidare l’arte contemporanea come un insieme di assurdità, ma in fondo non saprebbero cavarsela bene davanti a qualcuno dei suoi tanti detrattori. Kassel non invita alla logica è il libro che nasce dall’esperienza dell’autore all’ultima edizione di dOCUMENTA, uno degli eventi più prestigiosi nel mondo dell’arte, ospitato a Kassel ogni cinque anni. Vila-Matas accetta l’invito che l’organizzatrice Chus Martinez gli fa in modi surreali («i coniugi McGuffin vorrebbero rivelarti il segreto dell’Universo») e si trasforma in un’installazione artistica all’interno di un ristorante cinese alla periferia di Kassel in qualità di resident writer. Le riflessioni su questo «numero cinese» ci portano nel cuore della vita psichica dell’autore con l’aiuto di Kafka, Robert Walser e tanti altri, oltre che degli artisti che puntellano le passeggiate intellettualmente iperattive di Vila-Matas. È un libro gigantesco che parte piccino e privato, e si sobbarca un compito titanico, indagare lo stato di salute dell’arte contemporanea che aspira a una certa originalità imponendosi di non riderne mai. «Intuivo che, dietro a quelle risatine facilone nei confronti dei tentativi di innovare nell’arte, in fondo si era sempre nascosto un risentimento, un odio sordo verso chi aveva provato a mettersi in gioco facendo qualcosa di nuovo». Il compito è reso ancora più interessante dalla frattura esistenziale nelle giornate di Vila-Matas: carico di gioia al mattino, triste, malinconico e sconfitto all’imbrunire, quando i suoi tentativi di trovare ricovero dal mondo nella sua capanna per pensare, la sua stanza d’albergo, mettono in scena situazioni irresistibili di umorismo disperante. “Collasso e recupero” è anche il tema di quell’edizione di dOCUMENTA, una sovrapposizione con la vita dell’autore che vibra in modi sempre nuovi restituendo un significato concreto all’espressione “d’avanguardia”. (Fabio Guarnaccia) Edoardo Nesi – L’estate infinita (Bompiani) Fibre che melangiano i tessuti delle cappe, «il diaccio rilucere del prezioso mohair, la confortante brillantezza del cashmere, la secca e austera eleganza del pelo di cammello». Le epoche sono fatte di tessuti, righe, filettature e bottonature. Edoardo Nesi ha scelto di raccontare un decennio per un motivo preciso: fra il 1970 e il 1979 il Pil italiano salì del 40 per cento. Così – lasciato Ivo Barrocciai in un locale di Parigi alla fine del romanzo L’età dell’oro – lo ritroviamo nel libro L’estate infinita, dov’è cominciata la sua parabola di imprenditore tessile. È il racconto dell’azzardo, della sventatezza, del sogno di un’Italia dove c’era posto per tutti. L’estate infinita è soprattutto il racconto di un’abbondanza che sosteneva un sogno collettivo: il sole brilla per tutto il libro e quando non brilla il cielo è comunque colmo, se va male sono gonfie le nuvole, e se il sole va via di notte i cieli sono strapieni di stelle. Ivo Barrocciai fa costruire una fabbrica faraonica con piscina. Le Alfette si aggirano su strade sterrate. Ci si innamora perdutamente. Si respira odore di soldi e odore di lavoro. «Non è mai successo che i figli stiano peggio dei loro padri e delle loro madri», dice qualcuno. Altro che romanzo storico, l’Italia frenetica e felice sembra pura ucronia. (Francesco Longo) Józef Czapski – Proust a Grjazovec (Adelphi) «Ma lascia che ti avverta, figlio mio: fare libri su libri è senza scopo, troppo pensiero sfiorisce la carne». Nonostante quello che dice il Qohélet, ultimamente, in questa misera trama settembrina, uno dei pochi piaceri che riesco a procurarmi nella lettura è trovare in un libro lunghi excursus su altri libri o opere d’arte, sui loro autori, sulla loro genesi. Se in più si considera che per me, come per molti, la Recherche è più che un romanzo «una sorta di ricordo circolare», «di mandala di tutta la cosmogonia letteraria» (Barthes), sarà facile comprendere perché ho apprezzato tanto Proust a Grjazovec del pittore e saggista polacco Józef Czapski. Il testo è la trascrizione di una conferenza su Proust tenuta tra il 1940 e il 1941 da Czapski durante la sua detenzione in un ex monastero trasformato in un campo sovietico nei pressi di Grjazovec. In realtà non si tratta di una vera e propria conferenza, ma di un intreccio di aneddoti sparsi sull’autore francese, di note sulla struttura della sua opera, di riassunti delle scene principali e di interi brani citati a memoria: perché ovviamente Czapski, internato nel gulag, non aveva con sé una copia della Recherche da consultare. E infatti gran parte della bellezza di questo piccolo libricino sta proprio nel suo rappresentare un enorme esercizio di memoria su un libro sulla memoria. Bonus track: le pazzesche illustrazioni dello stesso Czapski. (Fabrizio Spinelli) Enrico Deaglio – Storia vera e terribile tra Sicilia e America (Sellerio) Sarebbe potuta esser una canzone di De André. Invece è una storia terribile ed esemplare quella che racconta Enrico Deaglio. Siamo a Tallulah. È il 1899, agli albori del secolo americano. In questo paesino non distante dalle rive del Mississippi, un centinaio di chilometri a nord di New Orleans, ha luogo una battuta di caccia. Sui cavalli, coi fucili carichi, gli americani. Pronti a stanare le prede, i “dagos”, come chiamavano allora i siciliani. Da un po’ i neri non erano più “negri”. Così per lavorare le piantagioni erano necessari nuovi schiavi. Arrivarono a centinaia e poi a migliaia dall’isola. Poi un giorno uno di loro – uno che aveva aperto un piccolo spaccio: non integrato, certo, ma sulla buona strada – spara a un americano. Quest’ultimo gli aveva ucciso la capra perché brucava nel suo giardino. Da lì la caccia e il linciaggio. Cinque siciliani appesi a una corda da una folla “ordinata” (quella stessa massa che uccide descritta da Elias Canetti). Deaglio ricostruisce una storia minima, locale, che contiene in sé l’altra storia, quella che di solito è scritta con la “s” maiuscola. Perché è esemplare di un tempo che è ancora il nostro. Di una violenza non ancora sopita. E dice qualcosa di noi. (Marco Filoni) Edgardo Franzosini – Questa vita tuttavia mi pesa molto (Adelphi) Il libro di Edgardo Franzosini dedicato allo scultore animalista Rembrandt Bugatti è scritto con la delicatezza, la precisione, l’eleganza e la discrezione del suo protagonista, una figura tanto affascinante quanto inquieta e inafferrabile. Ci ricorda che leggere qualcosa di importante non significa leggere tante pagine. Libri come questo non hanno bisogno di molte spiegazioni, si reggono in piedi benissimo da soli e possono essere amati da molti, per ragioni diverse. Una potrebbe essere la riflessione sulla differenza tra la vita degli uomini e quella degli animali in rapporto alla Storia. Può ricordare certi ritratti di Bruce Chatwin o Jean Echenoz, ma la verità è che Franzosini non ha bisogno di paragoni. (Benedetta Ventrella) Foto di copertina Getty Images/Hulton Archive