Attualità

I have a dream

In questo giorno, cinquant'anni fa, Martin Luther King Jr. pronunciava tre parole entrate nella Storia. In ricordo di un discorso che ha segnato il '900.

di Cesare Alemanni

Il 28 agosto 1963, già dal mattino presto il centro di Washington ribolliva di uomini e donne, al 70% afro-americani. Erano giunti in pullman da ogni angolo degli Stati Uniti per partecipare a quella che tra di loro informalmente chiamavano “La Grande Marcia”, nonostante il nome ufficiale della manifestazione fosse March On Washington for Jobs and Freedom. La qualifica di “Grande”, la Marcia se l’era guadagnata sul campo. Come si poteva altrimenti definire un’adunata di 250.000 persone compresse tra il Lincoln Memorial e il Washington Monument? Tra loro c’era anche un nutrito pacchetto di volti hollywoodiani, atterrati qualche ora prima con un volo da Los Angeles e immortalati da una foto (pubblicata pochi giorni fa sul numero dedicato da TIME al cinquantesimo anniversario della Marcia) che ritrae Harry Belafonte, James Garner, Charlton Heston, Paul Newman e Marlon Brando mentre scendono dalla scaletta dell’aereo che li aveva portati nella Capitale.

Come ha scritto Jon Meacham su TIME, l’arduo compito di Martin Luther King a quel punto era di alzare il livello di quel momento «dall’ordinario allo storico, dal mondano al sacro»

Il programma di quella giornata prevedeva i discorsi di alcuni dei principali supporter della lotta per i diritti civili. Giovanissimi uomini come John Lewis che a 23 anni aveva già combattuto aspre battaglie in alcuni stati baluardo della segregazione come Mississippi e Tennesse, ma anche anziani come il rabbino Joachim Prinz che portò la propria testimonianza di profugo del Nazismo e parlò di un «senso di completa identificazione» della comunità ebraica con quella nera «nato dalle nostre comuni dolorose esperienze storiche», nonché donne-simbolo come Rosa Parks. Ad aprire e chiudere la serie d’interventi sarebbe stato il veterano della battaglia contro le Jim Crow laws Asa Philip Randolph che, già nel 1941, aveva condotto una marcia su Washington e convinto Roosevelt a porre fine alle discriminazioni razziali nell’industria bellica e in seguito, con l’assenso di Truman, nei ranghi dell’Esercito. Randolph era anche il principale promotore dell’evento di quel 28 agosto, nonché una delle figure a cui più si ispirava l’oratore più atteso di quel giorno, il reverendo Martin Luther King Jr.

Quando salì sul palco, King si trovò di fronte una folla oceanica che tuttavia cominciava ad avvertire il peso della lunga giornata. Come ha scritto Jon Meacham su TIME, l’arduo compito di MLK a quel punto era di alzare il livello di quel momento «dall’ordinario allo storico, dal mondano al sacro». Mentre si avvicinava al microfono King teneva in mano il foglio su cui, insieme ai collaboratori più stretti, nei giorni precedenti aveva steso il proprio discorso. Era un discorso intenso e ricco di citazioni che spaziavano dalla Bibba a Shakespeare, un’orazione potente e diretta che cominciava ricordando il centesimo anniversario dell’Emancipation Proclamation e onorando la memoria di «un grande americano alla cui ombra siamo oggi riuniti»: un riferimento inequivocabile – tanto simbolico quanto fisico (l’ombra dell’eredità storica e quella del monumento) – a Lincoln, ma anche un messaggio mandato da King a Malcom X e ai suoi affiliati, i quali avevano disertato l’evento definendolo la «farsa di Washington», una manifestazione guidata «da bianchi e tenuta di fronte alla statua di un presidente morto da cento anni e che da vivo di certo non ci amava». A differenza di Malcolm X, Luther King era convinto che l’unica via percorribile dalla comunità afroamericana per il riconoscimento dei propri diritti fosse quella della gradualità e della non-violenza. Era una convinzione che gli proveniva dai suoi studi teologici e che era stata rafforzata dall’incontro con la dottrina di Gandhi. Per questo, dopo aver pronunciato parole inequivocabili, quasi minacciose, circa l’inarrestabile impeto della lotta che in lui si incarnava, parole come «Non ci sarà pace nè tranquillità finché al Negro non verranno garantiti i propri diritti di cittadino», MLK invitava al contempo il suo pubblico a non permettere che la «protesta creativa degenerasse nella violenza fisica». Più di tutto, King era consapevole che a poche centinaia di metri dal Lincoln Memorial, uno spettatore particolarmente attento e rilevante stava seguendo l’evento in televisione. Kennedy era stato fino all’ultimo scettico riguardo all’opportunità di svolgere la marcia. Temeva potesse esplodere in tensioni negative per l’immagine del movimento, in una cattiva pubblicità per la sua causa e in ulteriori difficoltà per il passaggio del Civil Rights Act al Congresso. Dovette invece constatare e apprezzare la dignità e la civiltà dei manifestanti e congratulare, ricevendoli poco più tardi alla Casa Bianca, alcuni dei loro rappresentanti, tra cui lo stesso King. Per un’ironia della storia quando, nemmeno un anno dopo, il Civil Rights Act da disegno diventava legge, JFK non era più e a firmare l’atto fu L.B. Johnson sotto lo sguardo di MLK che lo stesso anno, il 1964, ricevette il Nobel per la Pace.

Nel suo libro Behind The Dream, Jones ricorda che King si voltò per un attimo verso Mahalia Jackson, mise da parte il foglio che stava leggendo e cominciò a improvvisare

A metà del suo discorso, Martin Luther King stava ancora seguendo il canovaccio del testo che aveva sotto gli occhi quando, o almeno così vuole l’agiografia dei quegli istanti, la cantante gospel Mahalia Jackson che si era esibito poco prima, gli urlò a distanza di microfono: “Tell’ em about the dream, Martin. Tell’em about the dream”. A quanto pare è in quel momento che finisce la cronaca del 28 agosto 1963 e inizia la Storia del ‘900. Tra le testimonianze dirette di questo episodio, la versione più accreditata è quella di Clarence B. Jones, uno dei principali speechwriter di King. Nel suo libro Behind The Dream, Jones ricorda che King si voltò per un attimo verso Mahalia Jackson, mise da parte il foglio che stava leggendo e cominciò a improvvisare fino al momento cruciale, quello che inizia con le parole «I still have a dream». Il video del discorso sembra confermare questa ricostruzione mostrando come, nella prima parte del discorso, lo sguardo di King si volga in basso verso il leggio molto più spesso che nella seconda. Secondo Jones, non era la prima volta che King usava l’espressione “I have a dream” ma per quella particolare occasione, almeno nelle fasi di preparazione del discorso, aveva deciso di accantonarla dato che in altre circostanze non aveva ottenuto dal pubblico la risposta sperata. Tuttavia, se davvero è andata così, qualcosa nel termometro della situazione deve avergli fatto cambiare idea sul momento, il che non farebbe che avvalorare le sue doti di oratore.

Sono passati cinquant’anni, e se è vero – come ha affermato Barack Obama in uno dei rari discorsi in cui ha parlato apertamente della sua esperienza di afro-americano, dopo il verdetto sul caso Travyon Martin/George Zimmerman – che una serie di circostanze storiche, sociali e culturali continua ad alimentare nella comunità afro-americana la sensazione che, se nelle stessa situazione di Travyon Martin ci fosse stato un giovane ragazzo bianco: «l’accaduto e le conseguenze di esso sarebbero probabilmente state molto diverse» è anche vero che oggi, cinquant’anni dopo quel giorno, il primo Presidente nero della storia Usa (che non ha mai voluto enfatizzare troppo il rapporto causale tra la sua vicenda personale e quella di King) parlerà dallo stesso podio del reverendo per commemorarne l’eredità.  Lo farà in un momento per mille ragioni particolarmente critico della sua presidenza ma in cui, perlomeno, gli è (quasi unanimemente) garantito questo: che le sue decisioni, giuste o sbagliate, tempestive o tardive che siano, vengono giudicate «not  by the color of their skin but by the content of their character».

 

Nella foto: I leader guidano la marcia. Martin Luther King Jr. è il secondo da sinistra (Getty Images)