Attualità

Hello Afrika

Un Paese emergente dopo l'altro: dopo i Bric, ora sono nazioni come il Botswana ad attirare l'attenzione di investitori del mercato del lusso.

di Michele Boroni

C’era da aspettarselo. Prima o poi.

Anche i paesi del Bric – Brasile, Russia, India e Cina, sigla nata da un’intuizione dell’economista Jim O’ Neal di Goldman Sachs per riunire i paesi ad alto tasso di crescita – hanno iniziato a percepire gli effetti diretti e indiretti della crisi globale. E’ ciò che emerge da una recente studio del Financial Times chiamato Economist Global Business Barometer.

Nel dettaglio: l’economia russa ed il mercato azionario sono diventati tra i più deboli dei paesi emergenti, dominati da una ricca schiera di oligarchi che detengono il 20% del Pil che, se da una parte tengono alti i consumi del “vecchio lusso”, dall’altra non permettono una crescita stabile e sicura nel lungo periodo. La crescita brasiliana ha subito un repentino calo: dal massimo del 7,5% del 2010 – l’anno che Rio de Janeiro è stata scelta per le Olimpiadi 2016 – quest’anno non dovrebbe crescere più del 2%. Per l’India si parla di “clinical depression”, con la crescita che dal 9% di pochi anni fa è passata al 5% e un sistema politico paralizzato. La Cina ovviamente rimane la potenza principale, anche se il 2012 segnerà la minore crescita del nuovo secolo (inferiore al 8%) e la crescita degli stipendi nelle industrie cinese – che è di per sé una buona notizia – ridurrà la competitività del paese.

La crescita di questi anni non ha portato in nessuno di questi paesi un’armonia politica interna; la rabbia popolare contro la corruzione governativa è crescente e rende gli investitori nervosi sull’instabilità potenziale.

Il risultato è che i 1500 top manager intervistati dal FT ritengono i tre quarti dei Bric (Brasile escluso) non più così “business friendly”.

Quindi le grosse corporation sono alla ricerca di nuovi paesi in crescita che riescano ad assorbire la valanga di nuovi prodotti da lanciare.

E quindi?

Quindi Africa.

E’ da qualche anno che il continente nero è presente tra i temi dei convegni economici e dei report aziendali. Qualche mese fa è uscito in nuovo indice ATKearney (Global Retail Development Index) che misura l’appetibilità per le catene del commercio al dettaglio dei mercati emergenti sulla base della loro stabilità politica, l’attrattività del mercato e il suo grado di saturazione. Insieme ovviamente a Brasile, Cile e Cina, emergono paesi africani come il Botswana dove stanno emergendo nuove dinamiche sociali e quindi di consumo (fino a pochi anni fa gli abitanti non erano per nulla consapevoli di cosa fossero le marche), una crescita continua e sana del Pil e una sostanziale apertura da parte del Governo a nuove aperture.

 

Ma l’Africa oggi è vista non solo come mercato di sbocco, ma anche come straordinaria risorsa produttiva, in termini di artigianato di qualità.

Ed è proprio su tali temi che lo scorso weekend è stato organizzato a Roma la Luxury Conference dell’International Herald Tribune. Dopo il summit indiano sul lusso sostenibile e quello a Berlino sul techno-luxury, questa volta l’abbinamento lusso-Africa rischiava di essere un tema pericoloso o, quantomeno, complesso.

Suzy Menkes è la fashion editor dell’Herald Tribune, giornalista attenta ai macrotrend e all’evoluzione del concetto di lusso in misura inversamente proporzionale allo stile del suo outfit. La Menkes sostiene che l’Africa abbia, in un certo senso, le stesse skill peculiari dell’Italia, ovvero la straordinaria capacità di saper fare prodotti a mano che lasciano un segno e soprattutto un’emozione, caratteristica quest’ultima che sta definendo il nuovo lusso contemporaneo.

Secondo la Menkes ci sono dei segnali interessanti: Hermès si avvale della collaborazione della popolazione nomade dei Tuareg per la realizzazione di alcuni suoi prodotti (bracciali e sciarpe), e Stella McCartney, Vivienne Westwood e Carmina Campus realizzano pezzi unici in Africa prodotte in modo etico (sic); Zegna sta aprendo un grande store a Lagos che grazie anche alla

Lagos Fashion & Design Week si sta imponendo come nuova capitale della moda; in Sudan ci sono molti designer interessanti e il magazine africano Arise organizza anche un fashion festival a New York; e infine la rapida ascesa di Duro Olowu, stilista inglese di origine africana le cui creazioni sono indossate da Michele Obama.

Ok, sono segnali. Resta il fatto che il continente africano continua ad avere nella gran parte dei territori i più gravi problemi di sottosviluppo, dove la mortalità infantile entro il primo anno di vita è ancora del 20%, dove vi è la maggiore diffusione di malattie (malaria, colera, febbre gialla) e la più bassa presenza di medici, dove l’accesso ad acqua e servizi igienici rimane ancora il più basso al mondo, dove il livello di scolarizzazione dei bambini è sotto il 40% e il Pil pro capite non raggiunge i 300 dollari l’anno. Di fronte a tutto questo, il solo pronunciare la parola lusso fa venire i brividi.

Boh, sarò superficiale, come dice la Menkes che ha organizzato questo convegno per «superare l’immagine stereotipata che i media comunicano dell’Africa», ma sinceramente vedere riuniti Diego Della Valle e Manholo Blanhik, Jean Paul Guaultier e Donatella Versace insieme a Bono Vox e Renzo Rosso che vogliono «salvare l’Africa attraverso il business», a me fa molto riflettere.

Sia ben inteso, non sto facendo l’apologia della decrescita, Latouche e compagnia bella, concetti e posizioni che sono piuttosto lontani da me. Come scrive Mauro Magatti nel suo bel saggio La Grande Contrazione basta fare un viaggio in Africa per capire quanto sia fuorviante parlare di decrescita: il problema non è opporsi alla crescita – per gli africani ad esempio sarebbe devastante – ma si tratta di qualificarla cercando di recuperare dimensioni che rischiano di perdersi.

Se da un lato trovo interessante svincolarsi dalla reiterazione delle logiche caritatevoli del neo-colonialismo, dall’altra ritengo che applicare nel continente nero il modello di sviluppo occidentale, seppur nel pieno rispetto delle regole etiche e con un occhio alle tradizioni, se da una parte può portare dei benefici nel breve e nel medio periodo, possa risultare nel lungo periodo una soluzione deleteria. Se il meccanismo sta perdendo colpi nei paesi del Bric, possiamo immaginare quali potranno essere i risvolti negativi in Africa. Lo ha spiegato bene nel summit romano Uche’ Okonokwo, parigina di origine africana a capo di Luxe Corp., società di consulenza leader nel luxury market, illustrando le articolate diversità della classe media africana.

Argomento complesso, che forse necessita l’individuazione di nuovi paradigmi. Comunque un plauso alla Menkes per aver spostato lo sguardo e affrontato un tema che prima o poi tutte le economie dovranno affrontare.

(Suzy Menkes a una conferenza dell’International Herald Tribune via Financial Times)

 

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