Attualità

Il giornalista killer

Figura complessa, sfaccettata, piena di ombre, Hassan Hanafi, giustiziato l'11 aprile, era uno dei personaggi più simbolici della disastrata Somalia di oggi.

di Mattia Salvia

Quando lo scorso 3 marzo ha ascoltato la sentenza che lo condannava a morte tramite plotone d’esecuzione, pare che il giornalista e terrorista somalo Hassan Hanafi Haji sia scoppiato a ridere. I diversi giornalisti presenti in aula hanno riportato una sua dichiarazione che sapeva di presagio: «Non mi interessa se mi uccidete. Vedrete se dopo la mia morte gli omicidi si fermeranno». L’11 aprile mattina Hanafi è stato bendato, legato a un palo e fucilato nel cortile di una stazione di polizia di Mogadiscio. Poche ore dopo, in serata, quando un’autobomba è esplosa di fronte ad alcuni edifici governativi causando quattro morti e tre feriti, si è visto che probabilmente aveva ragione.

Al momento della sua morte, Hanafi aveva 30 anni. Pur essendo così giovane era già riuscito a diventare uno dei personaggi più iconici di quel carnaio che è la Somalia di oggi, uno Stato fallito dove la prima causa di morte è la dissenteria. A guardarlo nelle foto che lo ritraggono sorridente e spaccone in tribunale o visibilmente terrorizzato al patibolo, sembra un personaggio uscito da un romanzo di Moresco. Strabico e con una grossa cicatrice in faccia, è una specie di Tersite la cui bruttezza esteriore sembra dover per forza implicare anche un’equivalente depravazione morale.

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Nato nella regione di Hiran, al centro della Somalia, Hanafi è stato l’unico membro della sua famiglia a essere rimasto nel Paese quando, negli anni Novanta, tutti gli altri sono fuggiti in Europa dopo il crollo della dittatura di Siad Barre, il fallimento della missione ONU e l’inizio del caos che ancora oggi, a vent’anni di distanza, governa il Paese. Nel 2003, quando la fine del conflitto sembrava imminente grazie a un governo di transizione, all’ennesima (la quattordicesima) conferenza di pace e alla mediazione di Stati Uniti e Unione Europea, Hanafi ha cominciato a lavorare per Quran FM, una delle stazioni radio più ascoltate a Mogadiscio.

Lavorando in radio, Hanafi si è fatto un nome negli ambienti giornalistici somali. Un suo — purtroppo breve — profilo sul sito della BBC lo definisce «un reporter rispettato». Ed effettivamente tale è stato almeno fino al 2006, quando le Corti islamiche che controllavano Mogadiscio non sono state scacciate dalla città dalle forze del governo provvisorio sostenuto da Etiopia e Stati Uniti. A quel punto, Hanafi ha lasciato la radio, ufficialmente per fare il giornalista freelance. In realtà, in segreto, era stato reclutato da un neonato gruppo terrorista: al-Shabaab, “La gioventù,” che oggi dopo aver giurato fedeltà allo Stato Islamico ne è diventato la costola operativa nel corno d’Africa.

Diversi giornalisti somali avevano iniziato a sospettare che ci fosse Hanafi dietro gli omicidi dei loro colleghi

Quello immediatamente successivo è stato il periodo d’oro di Hanafi come giornalista, ma è stato anche il periodo in cui la sua figura si è fatta più complessa, sfaccettata, piena di ombre; il periodo in cui Hanafi ha smesso di essere solo un giornalista ed è diventato qualcos’altro. Ha cominciato ad arrivare sempre per primo sulle scene di attentati e omicidi poi rivendicati da al-Shabaab. Ha iniziato a diventare una fonte privilegiata da cui ottenere notizie sull’organizzazione e una delle prime a rilanciare le sue rivendicazioni. È diventato l’intervistatore ufficiale di alcuni dei più importanti comandanti di al-Shabaab. Tutto questo l’ha reso sempre più sospetto, finché a un certo punto i giornalisti somali non hanno cominciato a scomparire a uno a uno.

Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, negli ultimi cinque anni in Somalia sono stati uccisi 32 giornalisti. La maggior parte di questi omicidi ha seguito lo stesso schema: le vittime sono state uccise a colpi d’arma da fuoco a bruciapelo o sono saltate in aria per una bomba piazzata sotto la loro auto. Secondo il tribunale militare che l’ha condannato, Hanafi sarebbe stato coinvolto in molti di questi delitti e avrebbe ucciso personalmente almeno cinque giornalisti.

Dal 2007 al 2011, Hanafi ha fatto parte a vario titolo — prima in segreto, poi in modo più esplicito — di al-Shabaab. Dopo aver cominciato lavorando per Radio Andalus, l’emittente ufficiale dell’organizzazione, ha fatto carriera ed è stato arruolato nel braccio armato del gruppo diventandone in seguito un alto ufficiale. All’interno del gruppo, Hanafi gestiva un servizio segreto parallelo incaricato di monitorare i giornalisti che lavoravano in Somalia e di occuparsi di quelli che andavano contro gli interessi dell’organizzazione. Tra i suoi compiti: effettuare telefonate minatorie ai giornalisti ritenuti scomodi, minacciarli direttamente e fornire ad al-Shabaab informazioni sulle abitudini e il luogo migliore per colpirli. In molti casi, i giornalisti presi di mira erano costretti a lasciare il Paese. Quelli che decidevano di restare, spesso venivano invitati da Hanafi a incontrarlo da qualche parte, dove venivano ritrovati morti la mattina dopo.

Già prima del suo arresto, diversi giornalisti somali avevano iniziato a sospettare che ci fosse Hanafi dietro gli omicidi dei loro colleghi. I sospetti avevano acquisito sempre più consistenza man mano che i legami tra Hanafi e al-Shabaab si erano fatti sempre più espliciti, ma anche allora le dichiarazioni contraddittorie con cui Hanafi commentava le uccisioni di giornalisti uccisi da parte di al-Shabaab avevano continuato a gettare una luce ambigua sulla sua figura. Mentre si rallegrava per le morti dei nemici, allo stesso tempo si disperava quando la vittima era qualcuno che aveva conosciuto di persona.

Tra il giugno e il luglio 2014, al-Shabaab ha letteralmente assaltato due cittadine keniote, Mpeketoni e Lamu. In entrambi i casi, circa 50 miliziani pesantemente armati sono entrati in città a bordo di un furgone rubato e hanno assaltato le stazioni di polizia, gli alberghi e gli uffici del governo. Poi si sono messi a sparare sulle persone che si erano riunite in alcuni bar per guardare i Mondiali di calcio.

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Poco dopo, ad agosto, Hanafi è stato arrestato in Kenya, in un’operazione congiunta dei servizi segreti somali e kenioti salutata come «un esempio della collaborazione necessaria a sconfiggere il terrorismo». All’inizio ha provato a sostenere di essere vittima di un equivoco, di uno scambio di identità, ma poi è crollato, pur continuando a negare di aver contribuito a organizzare gli attacchi a Mpeketoni e Lamu. A dicembre è stato estradato in Somalia, dov’è stato processato da un tribunale militare in quello che nel Paese è stato il processo dell’anno. La televisione di stato somala, SNTV, ha persino prodotto un documentario sulla sua figura, The Journalist Killer, trasmesso lo scorso febbraio, circa un mese prima della condanna.

Solo due settimane fa, quando Hanafi era già stato condannato a morte, è uscito un altro documentario sulla sua vicenda intitolato Confessions of a Killer. Si tratta di una specie di risposta al precedente ed è stato realizzato da Journalists4Justice, un presunto organo stampa di al-Shabaab con lo stesso nome di un’organizzazione non governativa keniota che si occupa di denunciare violazioni dei diritti umani.

Mescolando una lunga registrazione audio di Hanafi, immagini d’archivio e alcune interviste a fonti anonime, Confessions of Killer ricostruisce la vicenda dell’arresto di Hanafi cercando di dimostrare la sua innocenza e che le prove a suo carico siano tutte riconducibili a confessioni estortegli con la tortura. Il documentario contiene anche diverse accuse ai servizi di sicurezza europei e americani, che opererebbero in Somalia compiendo arresti indiscriminati e utilizzando la tortura per ottenere false confessioni da sospetti membri di al-Shabaab e poterli così condannare a morte.

Le molte inesattezze e incongruenze che contiene fanno pensare che il documentario non sia altro che un tentativo di depistaggio messo insieme in fretta e furia per tentare un’estrema difesa di Hanafi. Ma chi può essere davvero sicuro che le cose stiano effettivamente così? La Somalia è il posto più pericoloso al mondo per i giornalisti e le notizie che arrivano da lì sono, quando va bene, confuse e frammentarie. È anche merito di Hanafi se è così e da questo punto di vista bisogna ammettere che ha fatto un ottimo lavoro.

Pronunciando la sentenza di condanna a morte, il giudice Hassan Ali ha affermato che Hanafi «ha avuto un ruolo chiave nell’organizzazione e nel compimento di diversi omicidi di giornalisti» tra il 2007 e il 2011. «Verrà giustiziato appena possibile», ha poi concluso il giudice. Dal momento del suo arresto, gli omicidi di giornalisti in Somalia sono drasticamente diminuiti.

Illustrazione di Filippo Nicolini. Immagini di Mogadiscio: Mohamed Abdiwahab/Afp/Getty Images.