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Il genio di Laxness

Islandese, vincitore di un Nobel, dimenticato e ripubblicato da Iperborea, tra le molte cose scrisse un racconto perfetto su una spedizione italiana fascista a Reykjavik.

di Gianluigi Ricuperati

Da qualche tempo mi innamoro soprattutto delle opere che fanno venir voglia di creare altre opere. I film per registi possibili, le installazioni per artisti possibili, i romanzi che instillano la voglia di aggiungere qualcosa a tutto ciò che già è stato aggiunto. Da qualche settimana è in libreria una raccolta di racconti che appartiene a questa categoria. Il suo autore ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1955, ma io non lo conoscevo. Lo pubblica la migliore casa editrice italiana, Iperborea: è uno scrittore islandese. Si chiama Haldorr Laxness, ha vissuto quasi un secolo e il suo lavoro è stato l’argomento dell’ultimo articolo scritto da Susan Sontag prima di morire.

La raccolta di racconti s’intitola Sette maghi, e possiede almeno tre qualità che ritornano in altri romanzi di Laxness, che appare al lettore contemporaneo italiano come un miracoloso improbabile misto sospeso tra Philip Roth e Gianni Celati: totale controllo delle forme e delle strutture, strabiliante capacità di passare da un genere all’altro rimanendo se stesso, una voce distinta, irriverente, comica, bassa, a volte stranamente onirica comunitaria, magica, sospesa nell’incredulità di far parte del mondo. I suoi titoli più noti e classici, Gente indipendente e La base atomica, sono divertenti, commoventi, pieni di idee, e per questo hanno attratto la stima e i commenti entusiastici di Jonathan Franzen e Alice Munro.

I «sette maghi» del titolo sono in verità sette protagonisti lunatici dei racconti, mentre la splendida bandella ci insegna che l’ottavo potrebbe essere proprio lui, l’autore: la raccolta risale al 1942, ma i testi risalgono a un arco temporale di almeno dieci anni precedenti: dieci anni importanti, nei quali l’Europa s’è infiammata a morte, l’America s’è irrobustita a dovere, e in mezzo – tra il dovere capitalistico e la morte nazifascista – restava l’Islanda: isola brutale pacifica distante e occupata da tutti.

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Tutti i racconti di Sette maghi sono magistrali, degni di essere usati come testi necessari nelle scuole di narrazione: ma ce ne sono due che non potete non leggere se volete ricominciare a vivere con gli occhi di scrive un testo perfetto: il primo s’intitola “Il pifferaio”, ed è tecnicamente il miglior tentativo che abbia mai letto di raccontare un sogno o un’allucinazione dopo Strade Perdute di Lynch e “Un luogo chiamato Kindberg” di Cortàzar. Il secondo è “La sconfitta dell’aviazione italiana a Reykjavik nel 1933”, ed è un capolavoro di un genere per me straordinario: la comicità involontaria volontaria. È una storia ambientata durante il mezzogiorno di fuoco del fascismo italiano, quando un gruppo di aviatori, per dimostrare la forza dell’aeronautica mussoliniana, organizzò un periglioso e ridicolo tour islandese, con esiti privi di ogni cliché.

Per restituire l’impressione e la potenza di questo autore, vorrei evidenziare alcuni passaggi nei quali si sublima la potenza de “La sconfitta dell’aviazione italiana a Reykjavik” rendendo a mio parere chiare – a chi volesse cercarle – alcune delle qualità che mi hanno incantato nella prosa di Halldor Laxness. Cominciamo con l’incipit: assolutamente fuori dal proprio tempo, potrebbe essere un Richard Brautigan o un Philip Roth degli anni Sessanta, mentre invece siamo nel 1934:

«L’Islanda è l’unica nazione al mondo a non avere un esercito, ecco perché questi poveri isolani non  hanno mai conosciuto lo splendore glorioso che emana dalle divise, come dai titoli e dai gradi che questi strani capi d’abbigliamento rappresentano.»

Poi, grazie a uno zoom-in entomologico, il narratore ci informa di un dettaglio sublime: è sempre bello conoscere i gradi di un sistema, cinquanta milioni di sfumature di grigio burocratico: «…è stata introdotta in Islanda la carica di garzone d’albergo, che da noi ha un nome italiano, piccolo, e contempla l’uso di una splendida divisa, senza però godere di un prestigio maggiore di altri titoli quassù…»

In seguito lo zoom-in cambia orizzonte geopolitico e descrive in un paio di pagine con mirabile esattezza gli usi e costumi degli italiani, non solo sotto il Fascio: «In Italia è tutto diverso. Laggiù si è rispettati solo se si ha una divisa, e il più riverito è chi porta i vestiti più stravaganti… Secondo certe persone erudite, il patrimonio nazionale degli italiani si sta esaurendo a causa della loro passione per questi buffi travestimenti pieni di orpelli e falpalà, e della loro cieca smania di guerreggiare in deserti remoti. E invece no, quelli sono nientemeno che i fascisti, gli amanti del deserto, … nonostante la plateale ridicolaggine del loro abbigliamento».

Infine giunge l’affondo narrativo, quasi favolistico, ma sempre con il tono di distacco di chi osserva il lato grottesco del precipizio storico:
«Uno dei Paesi a cui era toccata una tale fortuna era l’Islanda, un’intera flotta di aerei fascisti italiani era atterrata nei Vatnagaroar e in ognuno c’erano come minimo due uniformi appena confezionate.… furono presi da tale gioia ed entusiasmo che anche fra perfetti sconosciuti si gettarono l’uno nelle braccia dell’altro per le vie della capitale, baciandosi e piangendo»·

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Il genio di Laxness sta nel non essere ovvio, mai, in nessun romanzo e nessun racconto – proprio non ce la fa – e quindi anziché diventare lacrimevole col povero portiere picchiato dal gerarca in tour, mette in scena la legittima difesa del ragazzo, ed è una cosa che leggerla fa bene alle vene: «Non appena il gerarca Pittigrilli ebbe vibrato la prima bastonata su Stefàn Jònsson, il ragazzo gli balzò addosso e ingaggiò un corpo-a-corpo con lui. Questa reazione colse alla sprovvista il gerarca, dal momento che in Italia i garzoncelli d’albergo non hanno l’usanza di balzare addosso agli alti papaveri del Paese».

La bellezza, la sottigliezza, la raffinatezza di questo magnifico apologo morale sta proprio nella chiusura, intinta nella più lieve sprezzatura, e senza alcuna morale esplicita: per il giovane dominato islandese la reazione è già dimenticata, mentre l’offesa diplomatica e spirituale – l’affondo nell’orgoglio – sta solo nello sguardo di chi vuole dominare: ‘«​L’indomani c’era bel tempo e i fascisti volarono via con le loro uniformi per non tornare mai più in Islanda. Al mattino, Stefàn Jònsson andò al lavoro, indossò la sua divisa e il berretto sulle ventitrè, e in albergo era tutto come doveva essere, nessuno aveva preso alcun provvedimento. Se qualcuno gli avesse detto che il giorno prima l’aviazione italiana era stata sconfitta a Reykjavìk, non avrebbe capito un fico secco»·

L’ultima – ma non ultima – notizia relativa alla doverosa riscoperta di Laxness ha a che fare proprio con il Premio Nobel. Spesso si guarda con sufficienza alle liste di vincitori di decenni fa, ma studiando e leggendo l’autore islandese ho capito che la qualità della mappatura sulle possibilità della letteratura mondiale – uno dei punti forti del premio, evidentemente – è più forte del nostro snobismo postumo. Provate anche con altri nomi perduti e misteriosi, a volte anche assenti dalla programmazione editoriale. Stockholm rocks!

 

Fotografia scatta in Islanda nel luglio 2006 (Marcel Mochet/Afp/Getty Images).