Attualità | Cronaca
Il video dell’uccisione di George Floyd e la sua brutale necessità
Perché solo quando la violenza diventa virale si riesce a inquadrare il problema?
Minneapolis, Usa, 27 maggio: alcuni omaggi in memoria di George Floyd (Photo by Steel Brooks/Anadolu Agency via Getty Images)
A fine aprile, un video che ritraeva l’inseguimento e l’uccisione di un uomo nero che faceva jogging in Georgia, negli Stati Uniti, è comparso sui social media, causando l’oltraggio dell’opinione pubblica e il conseguente arresto, a due mesi dal reale svolgimento dei fatti, delle persone (tutte bianche) coinvolte. Quell’uomo si chiamava Ahmaud Arbery, aveva 25 anni (era poco più di un ragazzo, quindi) e i suoi inseguitori lo avevano scambiato per un ladro, nonostante i filmati successivamente visionati dalle autorità abbiano dimostrato che Arbery si era solo avvicinato a una casa in costruzione senza toccare nulla. Eppure è stato inseguito e freddato sul colpo, dalle stesse persone che hanno filmato i suoi ultimi momenti di vita. Martedì scorso, un altro video è diventato virale: quello che riprendeva la morte di George Floyd, 46enne (nero) di Minneapolis, che è stato fermato e soffocato a morte da un poliziotto (bianco) durante un controllo. Le prime dichiarazioni ufficiali della polizia sul caso parlavano di un soggetto che «opponeva resistenza fisica», «sembrava sotto l’effetto di stupefacenti» e «in preda a problemi di natura medica», ma sono state sconfessate dal video, in cui si vede il poliziotto premere il ginocchio sul collo di Floyd, già immobilizzato a terra, per 8 minuti consecutivi, mentre i suoi tre colleghi lo guardano senza intervenire e mentre Floyd dice più volte «Non posso respirare». Morirà poco dopo in ospedale.
La brutalità della sua morte è uno shock per molti motivi, ma è anche qualcosa a cui, negli ultimi anni, la comunità afroamericana – ma non solo, il video ha causato commozione e rabbia in tutto il mondo – si è drammaticamente abituata: se questi video non esistessero, ci sarebbe una sola versione dei fatti, quella ufficiale, che troppo spesso è molto distante dalla verità. «Se non fosse per l’onnipresenza delle prove video, queste morti verrebbero nascoste sotto il tappeto. Le storie sarebbero diverse. La colpa ricadrebbe sulle vittime. E la giustizia passerebbe in secondo piano. Ma non possiamo non vedere gli 8 minuti in cui il ginocchio di quell’agente è fermo sul collo di George, fino alla sua morte lenta e orribile», ha scritto Ben Crump, che ha preso in carica la difesa per conto della famiglia di Floyd, sul Washington Post. A Minneapolis in tanti sono scesi in strada a protestare – una protesta che ha suscitato polemiche anche per il modo, violento, con cui è stata repressa – mentre il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, ha detto durante la diretta Facebook con cui ha annunciato ai giornalisti il licenziamento degli agenti coinvolti: «Tutto quello che ho visto in quel video era sbagliato. Era malvagio. Ed era inaccettabile. Non c’è nessuna zona grigia in casi come questo». Ma se il video non ci fosse stato?
Solo qualche giorno prima, si era discusso, sempre negli Stati Uniti, di un altro incidente a sfondo “razziale”: quello accaduto fra una donna bianca e un uomo nero a Central Park, New York, anche questa volta per via di un video diventato virale. L’uomo, Christian Cooper, aveva chiesto alla donna, Amy Cooper (i due non sono chiaramente imparentati), di mettere il guinzaglio al suo cane, come d’altra parte prevede il regolamento del parco per via degli uccelli che ospita in quella determinata parte, e lei per tutta risposta ha chiamato il 911 dicendo che «un uomo afroamericano» la stava minacciando. Come ha scritto Adrienne Green su The Cut, il comportamento di Amy Cooper è tutt’altro che inusuale, al contrario racconta di un’abitudine radicata che ha a che fare con la stessa storia degli Stati Uniti. «Il video è agghiacciante non perché mostra una donna che sta andando fuori di testa, ma perché rivela come lei sia consapevole delle ingiustizie e del razzismo sistemico che minacciano la vita delle persone nere e, nonostante questo, è disposta a usarle per continuare a giocare indisturbata con il suo cane». Quell’incidente si è concluso con il licenziamento di Amy Cooper e la consueta gogna social (le è stato tolto il cane ed è stata bannata da Central Park), una reazione che, nonostante la donna se la fosse decisamente cercata, ha messo a disagio lo stesso Christian Cooper, che in un’intervista al New York Times ha detto: «Non sto scusando il suo comportamento razzista, ma non saprei dire se è giusto che la sua vita venga fatta a pezzi». Il tenore dello scambio tra i Cooper è ovviamente molto diverso dai video di Floyd e Arbery, che piuttosto ricordano le morti in diretta di Eric Garner e Philando Castile, giusto per citare alcuni esempi, ma anche quel video è sintomatico di una nuova, a suo modo perversa, abitudine che connota sempre più gli scambi tra chi appartiene a una cosiddetta “minoranza” etnica e i bianchi, negli Stati Uniti come altrove.
Nel 2016, Will Smith aveva detto a Stephen Colbert che «il razzismo non sta peggiorando, viene solo filmato» e aveva ragione: negli anni ci siamo abituati a vedere sui social sbrocchi in metropolitana, micro aggressioni per strada, comportamenti razzisti da Starbucks e ogni genere di insulti rivolti a chi ha la pelle scura, gli occhi a mandorla, il velo in testa, parla una lingua che non è l’inglese o la lingua ufficiale del Paese in cui si trovano, Italia compresa. A volte (a noi bianchi) hanno fatto alzare gli occhi al cielo – «Questo è pazzo, mica razzista» – ma quei video sono una necessaria forma di difesa per molte persone, che hanno sviluppato il riflesso istantaneo di iniziare a riprendere quando qualcosa inizia ad andare storto, sono stati la prova decisiva per far muovere la giustizia ma allo stesso tempo la prova, schiacciante, di un fallimento sociale. Sollevano molte questioni, da quella giornalistica, se cavalcare l’onda dell’indignazione social o meno e con quale peso riportare i diversi incidenti, a quella giudiziaria, perché evidenziano un problema che non esiste certo solo in America (si pensi all’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, avvenuto nel luglio 2016 a Fermo, dove l’aggravante razziale aveva significato solo 3 mesi in più sulla condanna di Amedeo Mancini), fino a quella politica, con i leader populisti che negli ultimi anni hanno incoraggiato e infine sdoganato comportamenti che prima venivano nascosti, come l’appoggiare apertamente il suprematismo bianco. Basti pensare a quello che è successo in Italia con Luca Traini, che militava nelle Lega e che nel febbraio del 2018 ha sparato su un gruppo di persone nere a Macerata. Quei video non ci piacciono per niente, eppure abbiamo fatto di tutto perché diventassero l’unica strada percorribile per arrivare alla verità.