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Incontri ravvicinati a Venezia

Sconosciuti performer svedesi che protestano contro il mercato artistico e carabinieri diplomati in restauro che confessano di non capirci granché di arte contemporanea: racconto di una giornata veneziana, durante l'inaugurazione della Biennale.

di Gabriele Sassone

20, 22 aprile. Per una manciata di giorni, quelli ambitissimi dell’inaugurazione, Venezia è scandita dai passi di chi è arrivato da tutto il mondo per visitare la nuova edizione della Biennale d’arte. Mentre mi preparo alla calca delle sale, dei padiglioni e delle mostre-satellite, percorro un viale alberato che collega i Giardini al resto della città. In testa ho quell’eco di decadenza con cui Giuseppe Berto apre Anonimo veneziano, la morte dappertutto, nei marmi e nei mattoni, nei pavimenti avvallati, negli architravi sconnessi, nell’inquietudine con cui i ratti continuano a moltiplicarsi. La morte che sgombera le vie di fuga verso la terraferma. E invece, nei giorni costosissimi dell’inaugurazione della Biennale, Venezia trabocca di gente e di occasioni. Trabocca di ottimismo. E mentre anch’io, sotto un cielo indeciso se virare al bello, mi precipito a strappare una porzione di profitto e divertimento, ecco che lungo questo viale alberato incontro un uomo sui cinquant’anni. È biondo, abbastanza alto, scarpe di cuoio dalla punta quadrata. Veste un completo scuro e nella mano destra regge una ventiquattrore. Cammina a passi lunghi, petto in fuori, ma la sua andatura ha qualcosa di spigoloso. Mi fermo e lui fa altrettanto. Tre, quattro metri di distanza. Io sorrido, lui resta serio e appoggia la ventiquattrore alla sua destra. Si abbassa, la apre, ed estrae un pugno di foglie. Allora divento serio anch’io, mi sale la paranoia di finire in una candid camera, o peggio di affrontare uno squilibrato. Mi rilasso soltanto quando altra gente si ferma a guardare. Nel frattempo l’uomo recupera dalla tasca del nastro adesivo e piano piano, partendo dal piede sinistro, inizia ad attaccarsi le foglie al completo scuro. Continua così finché ricopre tutta una gamba e poi l’altra, e poi ricopre il busto, le braccia e persino il volto e i capelli. Benché il suo modo di agire suggerisca una certa fermezza, una convinzione anche morale, a me pare di leggere nella performance, che più tardi scoprirò intitolarsi Infraction Venetia, una specie di vuoto, di tentennamento. L’uomo di potere sopraffatto dalla natura compensa una fragilità generale, riempie l’aria di tenerezza. Che cosa sta facendo il performer? Che cosa vuole dimostrare? Non prova vergogna? Ecco, questo è un tipico errore. Giudicare le cose non ufficiali, non riconosciute, non parametrate, con compassione o con sguardo predatorio. In fondo sono proprio l’imprevedibilità, e il rischio, a rendere un’opera d’arte qualcosa di speciale. Mentre mi perdo nelle considerazioni, si avvicinano tre carabinieri.

Il più anziano oscilla sulla sessantina, quello di mezzo dovrebbe avere la mia età e una ragazza giovane completa il trio. Rallentano il passo, si scambiano qualche battuta all’orecchio, si lasciano assorbire dai curiosi sparsi attorno al performer, ormai diventato un uomo-siepe. Li saluto e premetto che sono a Venezia per scrivere un articolo sugli aspetti meno noti della Biennale. Mostro la penna e il taccuino che tengo in tasca e domando loro un parere.

«Chiedi a lui, chiedi a lui, all’artista», mi suggerisce il più anziano riferendosi al collega. La ragazza si mette a ridacchiare. Io mi rivolgo al carabiniere di mezzo, il mio coetaneo, e gli spiego di nuovo che cosa faccio lì e dunque gli chiedo se anche lui fa l’artista.

«Ma va’, ho studiato restauro».

«E poi?»

«Poi ho fatto pratica da un restauratore qui a Venezia, ma niente, non c’è lavoro. Così ho fatto il concorso e m’hanno preso nell’Arma».

«Ha ancora un po’ di familiarità con l’arte?»

«Ho poco tempo. Ovviamente di arte a Venezia ce n’è tanta, e mi piace, però non è che mi metto a seguire tutto».

«E della Biennale cosa ne pensa?»

«Cosa dire… è divertente, dai, cioè, c’è una bella atmosfera».

«È riuscito a vedere qualcosa?»

«Poco. Siamo in presidio per la sicurezza, anche se è tutto tranquillo. Abbiamo fatto un giro ai Giardini.»

«Che cosa le è piaciuto?»

«Oddio, non che mi ricordo un granché. C’era quella scultura di legno, no?, – dice rivolgendosi alla collega – che mi sembra particolare».

«Sì», conferma lei mettendo le mani dietro alla schiena.

«E di questa performance che cosa pensate?»

«Simpatica, dai. Cioè non la capisco, ma ci sta».

«Vedete delle differenze tra quello che c’è in Biennale e queste cose fuori?»

Il carabiniere sorride e abbassa lo sguardo.

«Sono brutte? Vi danno fastidio?»

Lui s’irrigidisce un po’. «No, no, per carità, è solo che, guardi – dice indicando il performer – non si capisce cosa fa. Perché si copre col giornale?»

Gli confido che pure a me succede di non capire l’arte contemporanea, però è difficile ammetterlo, magari ci si concede qualcosa con i colleghi più stretti, timidamente, un po’ per ridere, un po’ per rancore. Li ringrazio e torno a seguire la performance che, in modo inaspettato, ha preso una svolta politica: sul lato anteriore del corpo il performer è coperto dalle pagine di un quotidiano, sul lato posteriore spuntano le foglie. Finito. Il pubblico si disperde. E invece il performer si toglie le scarpe e le fissa sulla faccia con il nastro adesivo; poi rimane immobile, tipo statua, per un minuto. Finito davvero. Ora, come al termine di un trattamento cosmetico, si leva tutta quella roba dalla faccia, raccoglie la ventiquattrore e s’inoltra fra le siepi ai lati del viale. La sua fuga mi coglie alla sprovvista perché vorrei fargli alcune domande. Così lo seguo oltre le panchine, verso la vegetazione, ma lui sembra evaporato. Rimango in attesa di un segnale, di un rumore. Non c’è modo di ritracciarlo.

Sto per andarmene quando sento imprecare in una lingua sconosciuta. Il suono proviene da destra. Penetro nelle siepi facendomi largo con le mani. In un piccolo spiazzo, di schiena, fradicio e arrossato, c’è il performer in mutande che si pulisce, butta tutto in un sacco nero. Si terge con delle salviette, si passa un asciugamano sul collo, così torno sui miei passi per non interromperlo o dare l’impressione di spiarlo. Riemerge qualche minuto più tardi. Pantaloni corti a quadretti, maglietta bianca e borsa a tracolla, sandali con le calze. Capelli bagnati. Mi presento e lui sorride un po’ stupito. Da come parla («Hi, my name is Olaf») sembra un tipo alla mano. Mi racconta che ha quarantasei anni e viene dalla Svezia, «High school teacher» con quattro figli. Il suo inglese è traballante come il mio o forse siamo semplicemente in imbarazzo; o forse, dopo averlo visto trasformarsi da uomo-siepe a Olaf, è come parlare a un supereroe appena uscito dalla doccia. Rilassato, vulnerabile, acciaccato.

Olaf esordisce confermando le mie impressioni su di lui, e cioè si riferisce al «Fucking art system» come a un nemico, il quale, dopo averti sedotto, ti corrompe l’anima. È una tesi un po’ scontata, ma Olaf aggiunge che se non sei sul mercato non sei un artista. Mi colpisce la serenità con cui ne parla, anche perché quello dell’inclusione nel sistema – o meglio, nei sistemi – è un problema centrale. È il problema di Olaf, è il problema di Damien Hirst e compagnia. Il sistema di cui si fa parte determina le economie, gli indici di gradimento, il numero di follower, i premi, le rassegne stampa, la visibilità… Determina le categorie. Per esempio: artista o non-artista. Olaf non è un artista poiché non espone in Biennale. Oppure è un artista perché ha realizzato una performance con del pubblico – una performance manco così lontana da alcune già viste in spazi ufficiali; o ancora, è un artista come tanti, con un buon curriculum, con delle buone idee che non hanno mai esposto in Biennale. Quindi, quali sono i parametri? Chi ha il diritto di definire, di assegnare le categorie? A pensarci bene è una cosa tremenda, da giudizio universale. Questo sì, questo no. Questo vedremo.

Olaf si accorge della mia distrazione e allora precisa che la sua performance, Infraction Venetia, è fuori dal mercato, non si può vendere né si può comprare. Lui è qui, a sue spese, per dire che c’è spazio per tutti, che l’arte è di tutti, e se ai professionisti non interessa chissenefrega. Poi si scusa, dice di essere troppo sconvolto dalla situazione, fa fatica a parlare.