Attualità

Francesco Carrozzini, un’eredità sentimentale

Il doc su sua madre Franca: Chaos and Creation arriverà negli Usa su Netflix, ma il regista italiano pensa già al suo prossimo film, tratto da Nesbø.

di Mattia Carzaniga

«Come diresti “legacy” in italiano?». Me lo chiede Francesco Carrozzini, e io non ho pronta una risposta convincente. Eredità, certo. Lascito, ma che ridondanza. Mi sembrano tutte traduzioni imperfette. Alla fine della nostra lunga chiacchierata mi verrà da pensare: quello che rimane. E anche tutto ciò che viene dopo. Forse sono queste le parole giuste. Trentacinque anni appena compiuti, una carriera da fotografo, Carrozzini l’anno scorso ha girato un film che esce ora al cinema in Italia, poi negli Stati Uniti su Netflix. Si intitola Franca: Chaos and Creation. Franca è Franca Sozzani. Franca era sua madre. Fa ancora un certo effetto parlarne al passato, soprattutto per lui. Il documentario è stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2016, era settembre. Franca è morta tre giorni prima di Natale. «Per sei mesi non ho voluto saperne, non l’ho più rivisto», dice oggi Francesco. Azzardo: ora c’è la giusta distanza? «Non ci sarà mai. È un dolore che non passa, soprattutto per me che sono figlio unico. Devo solo provare a vincerlo».

Quello che lascia una madre è un figlio che oggi trova l’ironia anche là dove non dovrebbe starci. «È stato difficile convincerla a girare il film, poi ha accettato, all’inizio senza però capire che sarebbe stato un documentario. “Chi può fare me? Tilda Swinton?”». Gli scappa una risata. «È un progetto che nasce da un bisogno solo mio: fare luce su mio padre. Non sono cresciuto con lui, ed è morto quando avevo ventisette anni. Poi, mentre giravo, mia madre si è ammalata, e allora il film è diventato il ponte tra la morte di uno e la fine dell’altra. L’avevo fatto per me, poi mi sono reso conto di averlo fatto per lei, dopo ancora ho capito che era diventato un racconto di tutti. Oggi mi capita di incontrare gente che non mi conosce ma mi ferma per dirmi: tua madre mi ha cambiato la vita. È un punto di vista nuovo. In questa fase della vita penso ancora solo a me, alla costruzione del mio futuro. Se un giorno avessi un po’ di potere, vorrei essere capace di usarlo per aiutare gli altri. Lei l’ha fatto». Della versione originale sono cambiati solo gli ultimi minuti. «Nel nuovo finale ci siamo io e mia madre che guardiamo il film insieme, e alla fine le parole “Questa è la nostra storia”. A chi mi dice che è incompleta, che ci sono troppi buchi, io rispondo che proprio in quei silenzi e in quelle omissioni c’è la nostra storia. Siamo quello che eravamo l’uno per l’altra, in quel preciso momento della nostra vita». Abbiamo letto e visto abbastanza per affermare una verità solo apparentemente banale: la versione che ciascuno sceglie di dare della propria storia è la storia.

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Quella di Francesco Carrozzini affonda nell’educazione milanese degli anni Ottanta, quando prendeva forma e definizione la capitale della moda che oggi diamo per scontata. «Allora gli uffici di Vogue erano in piazza Castello, spesso ci andavo con mia madre, il layout del giornale si faceva ancora con la colla spray. La gente che lavorava lì sapeva che stava mettendo in piedi qualcosa di eccezionale, ma la fama è arrivata molto più tardi. Allora nessuno diceva “Sono il direttore di questo”, “Sono l’art director di quello”. Era solo lavoro. La sera, avrò avuto sei o sette anni, mia madre staccava magari alle dieci e mezza e andavamo al Paper Moon (ristorante del Quadrilatero della moda). Aveva lavorato quindici ore ma non era un problema. Era un bel momento, era la vita». Francesco cresce lì in mezzo, diventa grande, aggira facilmente il rischio di passare eternamente per “il figlio di”. «Mia madre trattava tutti alla pari. Che ci fossi davanti io alle primissime armi o nomi affermati come Peter Lindbergh, il suo tono era sempre lo stesso, e cioè: sappi che ti sto solo facendo un favore. Le portavi degli scatti e lei ti liquidava: non è assolutamente all’altezza di quello che faccio io o di quello che potresti fare tu. Lo faceva con tutti. Era il modo per farci trovare il nostro trampolino, e al tempo stesso per spingerci da subito oltre il limite. Ti diceva solo: vai, portami delle foto. Tu sapevi che dovevi tornare e sorprenderla».

Ma come si fa a sorprendere una donna disposta a pubblicare qualsiasi cosa, dalle modelle ecologiste impestate di petrolio alla parodia delle sciure rovinate dal chirurgo plastico?«Io credo di esserci riuscito un paio di volte. Per la mia prima copertina dell’Uomo Vogue dovevo fotografare Tim Burton nel deserto. Lei mi diede dei consigli, io feci di testa mia. Forse apprezzò proprio quello. Per una foto misi addosso al regista una maschera da wrestler messicano. La mostrai a mia madre convinto che l’avrebbe scartata: su una copertina la faccia del personaggio si deve vedere bene. Lei invece scelse proprio quello scatto». Oggi la fotografia sembra una terra lontana. «Confesso di avere perso l’interesse. Perché è arrivato il cinema. Ma soprattutto perché non posso confrontarmi con lei su questa passione. Non ho più il mio principale interlocutore, e so che la stessa cosa è successa a tanti altri».

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Il cinema che è arrivato è quello vero. Prima un cortometraggio, titolo 1937, sempre presentato a Venezia: era il 2008. Poi Franca, adesso il grande passo è Sole di mezzanotte, dal bestseller di Jo Nesbø. Fa un certo effetto parlare con un regista italiano giovane davvero: da noi sono considerati giovani i registi cinquantenni. Lui ride. «Quel libro mi ha subito attratto, ci ho rivisto me stesso in quel brutto periodo della mia vita. Ho scritto un trattamento, l’ho mandato a Nesbø, la sua agente è la moglie del mio. Hanno iniziato a portare in giro il progetto, Cattleya è entrata nella produzione per l’Italia, ho scritto la sceneggiatura insieme a Stefano Bises, che viene dalla serie di Gomorra. So che sarà dura, che diventerà il punto chiave per la mia carriera, che servirà a confermare tutto quello che ho fatto finora. Ma sono sereno. Credo nella creatività del newcomer, l’innocenza è uno stato che artisticamente ha molto da dare. Finché non si raggiunge il picco, c’è solo da provarci. C’è solo il sogno. Quando si arriva, lì si resta. L’ultimo film di Peter Weir (The Way Back, 2010) è stato massacrato dai critici, ma si può dire che lui non sia comunque un genio assoluto?».

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Il fatto di essere ormai più americano che italiano è forse causa di questo sguardo sulle cose. «Odio quello che mangiano in America, odio che lavorino in pieno agosto, odio le loro incredibili lacune culturali. Ma è il posto in cui tutti ancora vengono a sognare, e ti dicono che si deve sognare in grande. Mi sono trasferito a New York tredici anni fa, passavo ore a guardare il sito di Anonymous Content, una casa di produzione che ha rivoluzionato il modo di fare video, pubblicità. Pensavo: che figo lavorare con gente così, un giorno. Ora uno dei due soci ha aperto Reset, insieme a David Fincher, e oggi io sono lì. Ho appena girato un video con Jay-Z e Beyoncé (“MaNyfaCedGod”). A guardarlo dall’Italia, ha dell’impossibile». L’America per Francesco è sempre più sinonimo di casa. Gli dico due parole: Anna Wintour. «Sta per diventare famiglia. Come amica di mia madre ha dimostrato moltissimo negli ultimi momenti della sua vita. Anche per questo il mio affetto per lei è cresciuto. E poi nella mia vita è capitata sua figlia (Bee Shaffer), ci siamo innamorati, ci sposiamo. È come se l’avesse organizzato mia madre. Un numero perfetto». Anche questa è la legacy di Franca. Quello che rimane.

«La vita mi ha tolto tanto: non conosco nessuno della mia età rimasto orfano di entrambi i genitori. Ma poi decide di rimpiazzare quel vuoto, nel mio caso con il cinema, con l’amore. Pensa se dovessi raccontare la mia storia al primo che passa per la strada: sono un italiano che è venuto in America per fare il regista, poi ha perso suo padre, nel frattempo ha deciso di fare un film su sua madre, lei si è ammalata ed è morta, ora lui sposa la figlia di una signora che fa lo stesso lavoro di sua madre. Manco in un film di Almodóvar». È solo la versione di una storia. È la sua storia.

 

Dal numero 32 di Studio in edicola.
Foto: courtesy Francesco Carrozzini.