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Ammaniti e Il miracolo della nuova tv italiana

Nonostante madonne, mafie e tanti riferimenti all'Italia, l'esordio televisivo dello scrittore ha un respiro internazionale.

di Mattia Carzaniga

Di recente mi chiedevo: esiste un film italiano senza una scena di processione? Sto esagerando, ma pensateci. I santi, i ceri, i paramenti, i gesùcristi, le madonne. La Madonna. Ci cascano tutti, autori grandi e piccoli, comici e drammatici, neo-neorealisti e post-felliniani. La nostra autorappresentazione, soprattutto quella esportata ovunque nel mondo, è ancora fortemente legata a quell’immaginario lì. Il miracolo – esordio televisivo dello scrittore Niccolò Ammaniti, in onda su Sky Atlantic – comincia da un mito tutto nostro: la madonnina che piange sangue. Ancora. Basta. E invece resti lì a guardare. E pensi che è una delle cose meno italiane che hai visto in Italia di recente.

Non solo le lacrime sante (forse), c’è di più. La statuina viene ritrovata nel covo di un boss della ’ndrangheta. La religione e la mafia. Le processioni e le piazze di spaccio. Ecco quello che siamo, ancora, per sempre. I prologhi di tutte le puntate della serie (regia di Ammaniti insieme a Francesco Munzi e Lucio Pellegrini) sono ambientati in Calabria, tra le pieghe dell’ennesimo clan della mala. Eppure, anche lì, pare esserci uno scarto. Ormai non si sente più, perché tutti hanno scoperto che Milano è bella davvero. Fino a qualche anno fa però si diceva spesso, davanti a scorci urbani imprevisti: «Non sembra di essere a Milano». Ecco, oggi con le serie si dice: «Non sembra una roba italiana». Nel Miracolo ci sono la Madonna e la Mafia. E però, pensi, potrebbe essere una produzione francese, o più nordica ancora. Danese, svedese. Quelle cose che vediamo e pensiamo: «Perché non lo facciamo anche noi? Ci vuole tanto?». Forse ora è possibile.

Sarà che il centro del racconto è un personaggio molto italiano e poco italiano, e cioè tale Fabrizio Pietromarchi (interpretato da Guido Caprino), il Presidente del Consiglio preso da un dilemma morale e politico: il Paese deve sapere della madonnina piangente oppure no? Non porterà solo disordine sociale? Lo scenario è realisticamente distopico (ma dai): c’è in ballo un referendum per l’uscita dall’euro, una vigilia di Brexit nostrana, se ci metti pure la fregola mistica la nazione non può che implodere. Pietromarchi è poco italiano, pare un Emmanuel Macron però senza il sorriso da bambino Kinder. Si direbbe di centrosinistra: il personaggio di Alba Rohrwacher dice di averlo votato, ed è una ricercatrice di laboratorio (oddio, oggi come oggi potrebbe essere più facilmente grillina). Pietromarchi ha la barba, dunque non può essere un nuovo berlusconiano, però non pare neanche un leghista hipster alla Salvini. Ha una moglie pochissimo corrispondente all’idea di first lady italiana, una snob milanese tutta carne certificata e bambini sbolognati alla tata russa: Eataly e scuole private, dev’essere per forza del Partito Democratico. Soprattutto, Pietromarchi è bello. «Non sembra di essere in Italia», ecco.

Questi sono i contorni e dentro c’è tutta la collezione di figurine che t’aspetti: il prete corrotto, la fanatica dell’oratorio, lo scienziato che però ha fede, la ragazza di strada. E il marchio di fabbrica della serialità made in Sky. Diceva un’amica: è sempre tutto così plumbeo, così cupo, mai un raggio di sole, ormai è manierismo. È, soprattutto, una forma di riconoscibilità immediata. E di nuova egemonia, perché adesso anche le fiction Rai c’hanno questi colori lividi, pure a Napoli il cielo è sempre coperto. Un’altra amica: «Ormai girano pure Un posto al sole come se fosse Gomorra».

Poi c’è un altro fatto. In un Paese in cui si va al cinema sempre meno e si comprano sempre meno libri, il surrogato futuro potrebbe essere la buona televisione. Dopo Roberto Saviano, ecco Niccolò Ammaniti che si mette a fare lo sceneggiatore e il regista di un soggetto che – forse, chissà – anni fa sarebbe stato semplicemente un romanzo. Direte voi: Saviano e Ammaniti sono tra quelli che i libri continuano a venderli, nonostante tutto. Direte anche: il pubblico di Sky non è esattamente quello di Don Matteo, al cinema ogni tanto ci va ancora, qualche libro ogni tanto se lo compra ancora. Può darsi. Certo è che pure in Italia la forma dell’audiovisivo cambia, si trasforma. Oggi negli Stati Uniti – faccio un esempio a caso – Nicole Kidman vince premi a nastro come attrice di piccolo e non più di grande schermo, anche qui da noi i confini si confondono, chi era di là passa di qua, chi scrive adesso dirige, è un unico storytelling, un grande racconto di nicchia e popolare, per pochi e per tutti. Pure Paolo Sorrentino, al cinema, ha diviso Loro in due parti. Il film non sta andando benissimo nelle sale, nonostante l’attesa, nonostante Berlusconi (domanda tra parentesi: o forse di Berlusconi non frega davvero più niente a nessuno?). Se Loro fosse stato una serie, il pubblico di oggi l’avrebbe capito di più. Tutti, forse, avrebbero detto: «Non sembra neanche una roba italiana».