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La magia di Call Me by Your Name

Con 4 nomination agli Oscar, esce nelle nostre sale il film che farà riscoprire Guadagnino agli italiani, 19 anni dopo il suo esordio da regista.

di Mattia Carzaniga

Io c’ero quando, alla Mostra del Cinema di Venezia del 2009, Io sono l’amore di Luca Guadagnino venne furiosamente fischiato. Era la proiezione ufficiale in Sala Darsena, con pubblico e giornalisti insieme perché il film stava nella sezione collaterale Orizzonti, con le prime ufficiali senza Sala Grande e senza smoking. Sul primo cartello dei titoli di coda parte una serie di “buuu” che manco alla Corrida, poi chi ha visto il film sa che c’è una breve ripresa (spoiler: Tilda Swinton e Edoardo Gabbriellini ad amarsi, finalmente, dentro una specie di grotta), e su quella un tizio grida: «Andava bene anche senza!». Non l’ho amato nemmeno io, non l’ho fischiato. All’uscita dalla sala, tutti decretavano la fine del giovane regista con troppa ambizione: in realtà era nata una stella. Il destino di Io sono l’amore lo sappiamo. Non fu scelto come candidato italiano agli Oscar dell’anno successivo (il titolo designato fu La prima cosa bella di Paolo Virzì, che non entrò nella cinquina finalista), strappò però quella come miglior film straniero ai Golden Globe e agli Academy Award ci arrivò comunque, nominato per i migliori costumi.

Negli Stati Uniti fece cinque milioni di dollari nelle sale, cifra ragguardevole che lanciò Guadagnino nel cosiddetto “circuito”, Tilda Swinton era già un’amica (era anche nel cast del suo debutto del regista, The Protagonists, 1999: sempre a Venezia, sempre fischi), altri attori gli concedono la loro stima, passano sei anni ed ecco A Bigger Splash (sempre Venezia, meno fischi ma sempre indifferenza generale), nel cast ancora Swinton più Ralph Fiennes e Dakota Johnson, in Italia è un flop al botteghino. È la seconda fine di Guadagnino, in realtà la stella era sempre accesa. Circola la notizia «Luca Guadagnino girerà il remake di Suspiria», oggi forse è meglio dire reboot. Protagoniste Tilda Swinton e Dakota Johnson, aridaje. I detrattori già friggono: giù le mani da Dario Argento! Poi arriva la mossa che spariglia tutto.

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Guadagnino – racconta oggi – si ritrova coinvolto nell’adattamento del romanzo Call Me by Your Name di André Aciman. Lo firma James Ivory, non proprio l’ultimo degli stronzi. L’avrebbe pure diretto (con Shia LaBeouf!), solo che chiedeva troppi soldi e non trovava finanziatori disponibili (per una storia di educazione omo-sentimentale, figuriamoci). Guadagnino, ingaggiato inizialmente come consulente per le location (il libro è ambientato in Liguria), diventa produttore, inizia a portarlo in giro, vengono fuori i nomi di possibili registi: Gabriele Muccino, Ferzan Ozpetek, Sam Taylor-Johnson. Alla fine dice: lo faccio io. La sfida – dichiara lui a Vanity Fair – era riuscire a girare due film praticamente insieme, Suspiria e questo. Il destino lo sappiamo. Chiamami col tuo nome viene presentato al Sundance Film Festival dell’anno scorso, non è boom immediato, c’è il passaggio subito dopo alla Berlinale, la corsa continua piano piano per trovare i distributori internazionali, i festival dell’autunno sono una benedizione, finisce nelle liste dei film migliori dell’anno di pressoché tutti i critici e i blogger e gli influencer, su Rotten Tomatoes registra il 96% di reazioni positive.

Chiamami col tuo nome è un gran bel film. Come dice un’amica mia, ha qualcosa di magico, fa risuonare qualche corda. È persino riuscito ad aggirare la polemica per il fatto che (spoiler!) un venticinquenne va a letto con un diciassettenne, non senza sforzi considerati i tempi che corrono. Soprattutto, è un film sulla nostalgia ma senza la retorica della nostalgia. Noi ex ragazzini del Nord ci sguazziamo. Sempre per aggirare i costi, Guadagnino ha scelto di girarlo a Crema, dove vive, e non più in Liguria. Nel cartello iniziale resta la geolocalizzazione in un’imprecisata Italia settentrionale. Ora pure gli attori ospiti di Jimmy Fallon dicono: «È bellissimo il Nord Italia, dovete andarci», qualunque cosa significhi. Il protagonista Elio (Timothée Chalamet, bravissimo e simpaticissimo, almeno finché come tanti colleghi non ha deciso di devolvere in beneficenza femminista il cachet sindacale del prossimo Woody Allen) è un ragazzetto colto, si rifugia nei libri e suona Busoni al pianoforte, fa i bagni al fiume e sta ad ascoltare i discorsi multilingua a tavola su Craxi e il pentapartito (è il 1983).

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Poi arriva Oliver (Armie Hammer, finalmente un altro bel ruolo dopo i gemelli stronzi di The Social Network), studente del padre archeologo, figo, sfrontato, gli fa vedere con occhi diversi persino i vecchietti che giocano a scopa al bar (con sottofondo di J’adore Venise di Fossati/Bertè: wow). Fa capire a Elio che la vita di provincia può essere meno brutta di quel che sembra. Gli fa capire l’amore. Dentro Guadagnino ci mette tante citazioni, tanta musica, Bach e Ryūichi Sakamoto, pure due bellissime canzoni originali di Sufjan Stevens, i cinefili hipster sono conquistati definitivamente. E noi palpitiamo per e con Elio, e con i due amanti forse passeggeri, perché in fondo siamo tutti un po’ sciampiste, ci ricordiamo di quand’eravamo ragazzini e sospiriamo, e piangiamo. Fino al finale, la telefonata, il primo piano del protagonista davanti al camino, ma non spoileriamo oltre. Il regista ha detto che potrebbe non essere un finale per davvero. Che per il giovane Elio potrebbe esserci un futuro alla Antoine Doinel, il bambino dei 400 colpi di Truffaut (1959) che poi crebbe sullo schermo nei vent’anni successivi.

Negli Stati Uniti Guadagnino è l’uomo del momento. Nomi sparsi di attori che prenderanno parte ai suoi prossimi progetti, per ora due oltre a Suspiria: Jake Gyllenhaal, Benedict Cumberbatch, Jennifer Lawrence, Michelle Williams. Forse adesso la stella di Guadagnino comincerà a brillare anche in Italia, diciannove anni dopo l’esordio, quattro film dopo (tra cui Melissa P., l’unico andato bene al botteghino e l’unico vero pasticcio, riconosciuto dallo stesso autore). Dico forse perché il film esce questa settimana, chissà come andrà, però ci sono buone chance perché i guadagni nazionali siano un po’ più consistenti delle volte passate. Non tutti scoveranno le citazioni, le fonti, i maestri. Lo stesso Guadagnino ne ha nominati quattro, lo spettatore un po’ attento li becca facilmente: Jean Renoir, Jacques Rivette, Éric Rohmer, insieme all’italiano più bravo di tutti a raccontare il turbamento e la pianura padana, e cioè Bernardo Bertolucci. Ma quella magia può darsi che la coglieranno in molti. Senza fischi. In quest’annata di film belli (miracolo!), forse anche il pubblico italiano può finalmente diventare grande.