Cultura | Dal numero
Filippo Scotti voleva essere Billy Elliot
Conversazione con il protagonista di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino: con lui abbiamo parlato del suo passato teatrale, della passione per la danza e di cosa significhi lavorare con un Premio Oscar.
Per Filippo Scotti recitare è una sfida continua e, allo stesso tempo, una gioia senza confini. Quando ne parla, usa la stessa delicata accortezza degli innamorati: accenna, sfuma, ricorda. Ha i capelli ricci. Non sono lunghi come quando ha recitato in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, il film che l’ha consacrato e che gli ha fatto vincere, a Venezia, il premio Mastroianni. Ma conservano la loro forma. Un po’ Maradona, un po’ Massimo Troisi. Filippo è nato nel 1999 e fa parte di una generazione che fa fatica a definirsi e a ritrovarsi. Vede nel futuro una possibilità, come tutti. Eppure riconosce il peso e l’importanza del passato, e nel presente vuole rimanere fedele a sé stesso.
ⓢ È stata tua madre, all’inizio, a dirti di fare teatro. Andavi ancora alle medie. Era una cosa che ti piaceva?
Dico la verità: io volevo fare il ballerino. Quando ho visto La finestra sul cortile l’ho pensato, certo: voglio fare l’attore. Allo stesso tempo, però, ero innamorato del Billy Elliot di Stephen Daldry e ancora oggi provo la stessa emozione. Daldry è un grandissimo regista. Quello che volevo era potermi esprimere con il mio corpo. Ho partecipato ai provini per entrare al San Carlo e quando non ci sono riuscito non ci ho nemmeno riprovato. Forse perché ero troppo piccolo. Forse perché sono stato leggero. Non lo so. Quando non ci ho riprovato, mia madre mi ha consigliato di fare teatro.
ⓢ E che tipo di teatro era? Una compagnia scolastica?
Ne avevo già fatto un po’ alle elementari. Questo era diverso. Era un corso al Teatro Totò. L’ho frequentato per due anni. Poi, su consiglio di alcuni amici, sono passato a un teatro dei Tribunali, a Napoli, che era in una chiesa sconsacrata. E da quel momento non ho più smesso. Sono stato a Percorsi d’arte, a piazza Forcella, per parecchio tempo. E grazie a un laboratorio di lettura espressiva di Patrizia Di Martino sono arrivato al Bellini.
ⓢ Torniamo per un momento a Billy Elliot. Hai conosciuto Stephen Daldry. Com’è andata?
Ero a una festa per i Bafta, e a un certo punto ho incontrato quest’uomo; abbiamo cominciato a parlare, e mi ha fatto i complimenti per la mia interpretazione in È stata la mano di Dio. Io l’ho ringraziato e sono andato via. Dopo un po’, l’ho ritrovato con Paolo Sorrentino e Paolo mi ha chiesto: Filippo, conosci Stephen Daldry? Hai visto Billy Elliot? E tu come hai reagito? Io mi sono bloccato. È stato come incontrare qualcuno che hai sempre ammirato ma che non hai mai avuto la possibilità di vedere dal vivo. Abbiamo ripreso a parlare con un’intenzione e una temperatura completamente diverse.
ⓢ Tuo padre ti ha consigliato di leggere, e non semplicemente di vedere, i film. In che senso?
In parte per difendermi. Perché alcuni dei film che vedevamo avevano delle scene piuttosto crude ed esplicite. Pensiamo allo stupro in Arancia meccanica. I miei genitori mi hanno sempre accompagnato nella visione di queste storie quando ero più piccolo. E poi me l’ha consigliato anche per allargare il mio punto di vista, per concentrarmi su altri dettagli. La fotografia, la regia, la musica. Con il tempo, leggere i film è diventato interpretare le immagini, andare oltre le apparenze, cominciare una ricerca di significati.
ⓢ Il rapporto con tua sorella, hai detto, è speciale. Le confidi i tuoi segreti e le chiedi consigli. Anche sulle tue relazioni sentimentali.
Non so come spiegarlo, ma io e mia sorella Eugenia ci capiamo. Negli anni sono cambiate tante cose. Anche il nostro rapporto. Crescendo, vuoi parlare di altri argomenti. E con lei posso confrontarmi senza problema. Per me, mia sorella è una colonna. Un punto di riferimento. È metà del mio cuore. E mi sento molto fortunato in questo: non è così scontato.
ⓢ Una relazione del genere è presente anche in È stata la
mano di Dio.
Sì. In Marlon Joubert, che interpreta Marchino Schisa, ho ritrovato immediatamente mio fratello. Già nella primissima scena che abbiamo fatto insieme.
ⓢ Che scena era?
Quella dell’addio tra Fabietto e Marchino a Stromboli. E perché l’hai immediatamente riconosciuto come tuo fratello? Marlon mi ha aiutato. È uno di quei rapporti che si hanno con le persone più grandi di noi, una cosa a cui sono abituato. I coetanei, spesso, sono molto più diretti e cattivi. Gli adulti, invece, hanno un’altra delicatezza.
ⓢ Questo però non rischia di privarti di alcune esperienze?
Rispetto all’adolescenza, no. Quando si è piccoli, si conoscono tantissimi segreti. E inconsciamente facciamo un grande sforzo nel mantenerli. Io, spesso, scoprivo delle cose, cose delicate, e avevo già la maturità, come i miei coetanei, di trattarle come tali. Come confidenze. I bambini sanno e fanno finta di non sapere.
ⓢ Suona molto come recitare.
Sono un po’ la stessa cosa, essere innocenti e recitare. Chi recita cerca anche un modo per illudersi, per essere altro.
ⓢ Recitare, diceva Marcello Mastroianni, «vuol dire divertirsi; difatti i francesi dicono jouer, proprio perché recitare è giocare».
Secondo te dove inizia la preparazione e dove, invece, l’istinto? Un anno fa, avrei detto che la recitazione è una cosa più ragionata. Oggi mi correggo e parlo di istinto ragionato. So che per fare una scena devo prepararmi ma so pure che devo lasciarmi andare. Non è un meccanismo. E non è una formula perfetta. Io non sono nessuno per dare consigli. La recitazione è una ricerca costante.
ⓢ In questo ultimo anno quanto sei cambiato?
Ho una consapevolezza diversa. Soprattutto su quella che è la promozione di un film. Quando smetti di girare credi di rimanere fermo e solo, e non è così. È come il set. Ti abitui alle persone e poi, all’improvviso, tutto finisce. E devi imparare a convivere con le pause, con il nuovo ritmo, con il silenzio. Questo però è un lavoro. Tu, certo, puoi fare delle scelte. Ma a volte sono le scelte a trovarti, e tu devi essere pronto.
ⓢ La solitudine ti spaventa?
Quando sei da solo, devi fare i conti con te stesso. Con quello che sei. Scopri, paradossalmente, un’altra realtà. Una che non è mediata da niente e da nessuno. Nel non-ritmo di questa realtà puoi stare bene, sì. Oppure devi trovare un modo per compensarlo. Ci sono i libri, i film. C’è il mondo intero. Un po’ la solitudine mi disturba. Ma, allo stesso tempo, riesce a darmi del piacere. Questo è un mestiere che amo, che voglio fare e che contemporaneamente mi terrorizza. Io cerco l’esplosione dopo una buona scena: cerco quella scintilla che non capita sempre, ma che quando c’è è totalizzante.
ⓢ Come si fa a fidarsi di un regista?
Può essere difficile. Ma anche questo fa parte del lavoro. A volte, e può succedere, possiamo non avere voglia di parlare con qualcuno. Eppure dobbiamo farlo. Inevitabilmente. Proprio per instaurare un rapporto e poter lavorare insieme. È complicato lasciarsi guidare da qualcuno, e lo dico in generale; per me, invece, è una cosa quasi naturale. Perché in alcuni momenti preferisco affidarmi agli altri e non a me stesso. Sento meno responsabilità.
ⓢ In Paolo Sorrentino e sua moglie Daniela D’Antonio hai detto di aver trovato una nuova famiglia durante la promozione di È stata la mano di Dio. La famiglia è importante per te?
Molto. Personalmente cerco questa dimensione. E quando trovo una persona di cui potermi fidare, un amico, sono felice. Nel quotidiano mi sento sempre un po’ pesante. Mi giudico tanto. E l’idea di incontrare qualcuno con cui interagire senza problemi, in sintonia, coincide con la mia idea di vivere bene. Io provo a non avere rapporti negativi con nessuno; provo a disinnescare ogni attrito.
ⓢ E il conflitto?
Serve anche quello. Perché ci si può confrontare e si può imparare a conoscere le persone nella loro complessità.
ⓢ Non ti arrabbi mai?
Lo faccio spesso, ma lo do a vedere poche volte.
ⓢ Creare un contatto genuino, vero, con colleghi della tua stessa età è una sfida?
In generale c’è una competizione che può essere sia sana che non sana. Io provo a concentrarmi sul mio percorso. Ma la presenza di così tanti attori, di così tanta diversità, non è un problema. Anzi. Più c’è diversità, più c’è possibilità di emozionare il pubblico. Ogni attore ha qualcosa da dare. È importante sapersi riconoscere e saper riconoscere i propri limiti. Bisogna saper fare tutto e bisogna saper ascoltare.
ⓢ Di che cosa hai paura oggi?
Ho un po’ paura del lavoro, come ti dicevo. Ho vissuto un momento bellissimo con Paolo Sorrentino e con È stata la mano di Dio. E ho paura, forse, di non riuscire più a sorprendermi come in quel periodo della mia vita. Ma sono anche consapevole: e quindi so di non dover perdere il mio entusiasmo.
ⓢ Luciano De Crescenzo divideva gli uomini in uomini d’amore, cioè quelli che preferiscono vivere con gli altri, e uomini di libertà, che invece preferiscono stare da soli. Tu che uomo sei?
Forse sono più un uomo d’amore.
ⓢ Perché?
Perché il rapporto con gli altri, per me, è fondamentale. Ed è sempre stato così. Sono gli altri a portare qualcosa di nuovo nelle nostre vite. Anche nella noia.
ⓢ La noia è una risorsa?
La noia, a volte, è tutto.
Foto di Marta Marinotti
Moda di Francesca Cisani
Assistente fotografo Juliette Buono
Make up Serena Congiu at Blend
Hair Marco Minunno at Blend
Produzione Simona Ghinassi
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