Attualità

Ok computer, raccontami una favola

Come si insegna a una macchina come raccontare una favola? È molto difficile ma qualcuno ci sta provando, e c'è già chi immagina un futuro di storie create al momento dai computer sulla base dei nostri gusti.

di Alberto Mucci

Quando Margaret Sarlej, ricercatrice presso l’australiana New South Wales University ha cominciato il suo dottorato in informatica, sapeva soltanto di voler lavorare all’incrocio tra tecnologia e letteratura. Sette anni dopo Sarlej, assieme al responsabile del dipartimento di intelligenza artificiale dell’università, Malcolm Ryan, ha creato un programma in grado di produrre semplici favole con tanto di morale. Quello dei due ricercatori non è stato però un percorso semplice. «Per loro natura i computer» ha spiegato Sarlej a Studio «comprendono soltanto istruzioni basate su rigidi passaggi logici: che per esempio ad A segue B ed a B segue C». È stato questo limite che ha portato Ryan e Sarlej a decidere di cominciare la propria ricerca dalle fiabe di Esopo, dalle sue storie semplici, costituite per lo più da un limitato numero di passaggi. “La Volpe e l’Uva”, forse la più famosa delle favole dell’autore greco, è per esempio suddivisibile in quattro fasi principali: una volpe, il suo desiderio, l’impossibilità di ottenere l’oggetto del desiderio e per finire una reazione il cui intento è coprire la difficile accettazione del mancato appagamento. Uno, due, tre, quattro. Facile. La stessa semplicità vale per quasi tutte le altre favole.

Ma, cosa hanno fatto esattamente i due informatici? Sarlej spiega così. Primo. Le 357 storie di Esopo sono state analizzate da un machine learning software, un programma in grado di mettere in evidenza gli elementi ricorrenti delle diverse storie, valutarne le similitudini e suddividerle in una trentina di categorie (a seconda della conclusione morale), ognuna delle quali è andata poi a rappresentare una possibile variabile del racconto. Secondo. I due ricercatori hanno utilizzato le idee di Ortony, Clore e Collins (OCC), una teoria presa in prestito dalla psicologia che raggruppa l’emotività dell’uomo in 22 categorie, ognuna delle quali, come nel caso precedente, è diventata una variabile del sistema. Terzo. La creazione di diversi possibili scenari, quelli che la ricercatrice chiama “mondi”. Quarto. la creazione di un numero di possibili personaggi. Quinto e ultimo. L’interazione e le possibili combinazioni di queste quattro macrovariabili. Da qui le favole. Sotto un esempio (traduzione mia):

Tanto tempo fa un unicorno, un cavaliere ed una fata vivevano assieme. L’unicorno era innamorato del cavaliere. Una mattina d’estate la fata decise di rubare la spada del cavaliere e questo si trovò senza. Il cavaliere allora, siccome aveva perso la spada, divenne triste e si arrabbiò con la fata. L’unicorno e il cavaliere iniziarono entrambi ad odiare la fata. Il giorno seguente l’unicorno decise di rapire la fata e questa si trovò imprigionata e triste.

Semplice e lineare, quasi brutta; e come nel caso de “La Volpe e L’Uva” costituita appunto soltanto da semplici passaggi logici. Di nuovo: uno, due , tre, quattro. Fine. I problemi iniziano quando le storie si fanno più complesse. In un’intervista apparsa sulla rivista dell’università Ryan racconta di quando nel 2007 tentò per la prima volta di spiegare ad un computer i passaggi emotivi di una pagina di Peter Rabbit di Beatrix Potter (Sperling & Kupfer) e dovette desistere a causa delle difficoltà riscontrata nel tentare di scomporre le diverse emozioni nelle loro molteplici parti. Per capirne la complessità basta un esempio: come spiegare in passaggi logici per un computer una sensazione di invidia mista al senso di colpa di aver provato invidia? O: in che modo far comprendere quella che i tedeschi chiamano schadenfreude, ovvero la felicità provata nel vedere il fallimento di un altro/a? E ancora, domanda forse ancora più complessa: come può una macchina intuire quando la personalità e le caratteristiche di una persona portano questo/a a  reagire in un modo piuttosto che un altro? Anche quando per esempio ad un computer viene spiegato che se X ha una mela e Y la ruba, c’è una situazione di ingiustizia, le cose non sono così scontate. Se la mela in questione è state rubata da un mendicante (la cui vita è sempre stata piena di ostacoli e per motivi esterni alla sua persona si è ritrovato essere un “perdente” della “società”) ad un riccone (il cui patrimonio è stato accumulato con soprusi e ingiustizie) la nostra intuizione morale di ingiustizia cambia perché se da un lato siamo portati a condannare il furto, dall’altro siamo però in grado di empatizzare con le azioni di chi ha rubato. «Per il momento il programma è lontanissimo dal poter creare storie complesse in cui i protagonisti affrontano veri e propri dilemmi. Un romanzo come Guerra e Pace di Tolstoj sarebbe assolutamente impossibile», spiega Sarlej ridendo, ma nei prossimi dieci anni, evidenzia  Ryan, «i computer saranno in grado di contribuire in maniera interessante e significativa al mondo letterario».

La domanda è quindi se la ricerca di Ryan e Sarlej abbia gettato le basi per la creazione, in un futuro non troppo lontano, di libri su misura basati interamente sulle preferenze e i dati lasciati in giro sul web dagli utenti.

Il docente non specifica cosa intende con «significativa», ma tentare di rispondere alla domanda apre scenari su cui vale la pena dibattere. Quali potrebbero essere le implicazioni di un programma in grado di generare storie in lassi di tempo brevissimi? Programmi e algoritmi capaci di sostituire giornalisti già esistono. Narrative Science per esempio, un software in uso dal 2010, prende un set di dati di una partita di calcio (possesso palla, numero di tiri in porta di un giocatore, impatto di un membro della difesa, ecc.) e li traduce in forma di cronaca. Non c’è morale o trama da creare ma è il tentativo della start up di Chicago è indubbiamente un primo passo dell’appropriazione della scrittura da parte della tecnologia. E ancora Amazon, che usando un sistema di deep analytics, può rilevare il comportamento dei lettori sui propri tablet: conoscere i tempi di lettura di un capitolo, i passaggi più sottolineati o le pagine su cui le persone hanno passato più tempo a leggere. Tutte variabili che aiutano a capire quale tipo di libro può avere successo o meno con una determinata categoria.

La domanda è quindi se la ricerca di Ryan e Sarlej abbia gettato le basi per la creazione, in un futuro non troppo lontano, di libri su misura basati interamente sulle preferenze e i dati lasciati in giro sul web dagli utenti (i “like” su Facebook, le ricerche Google, gli argomenti dei tweet, i libri comprati su Amazon negli ultimi anni e via così). Se per esempio il programma è a conoscenza del fatto che sono un appassionato di temi sociali come l’ineguaglianza, protagonisti dalle personalità molto forti (larger-than-life, come direbbero gli americani), contesti medio orientali e un finale di rivalsa, il computer creerà  per me un romanzo con quelle esatte caratteristiche. Ad uno scenario simile la maggior parte dei lettori cominciano a sentirsi a disagio e viene da domandarsi il perché: come non volere qualcosa di perfettamente consono ai propri gusti, qualcosa si è certi apprezzare? Per meglio comprendere i motivi potrebbe essere utile usare quelllo che la filosofia anglosassone chiama “thought experiment” (esperimento di pensiero), ovvero un ragionamento basato su situazioni limite che portano l’interlocutore a dubitare delle sue ipotesi iniziali. Più di preciso viene a mente un though experiment proposto dall’americano Robert Nozick nel suo libro Anarchia, Stato e Libertà (Il Saggiatore Tascabili). Se come uomini, scrive il filosofo, avessimo la possibilità di attaccarci ad un robot/macchina in grado di garantire la nostra felicità in ogni istante la accetteremo? Ricordo ancora l’alzata di mani durante la classe di filosofia analitica a seguito della domanda del professore: una persona sola, e per giunta un provocatore di natura. Il motivo? Secondo Nozick la persistente volontà umana di essere, per quanto possibile, fautrice e responsabile del proprio destino. Lo stesso vale per i libri che leggiamo.

A dire di no al libro-su-misura c’è il desiderio del lettore di trovare da solo la propria nicchia, i propri autori e stili preferiti dovendo passare attraverso migliaia di pagine, magari anche noiose. Parlo della possibilità di un generatore automatico di libri con Sarlej che  però respinge con forza questo scenario letterario da distopia. Il fine dei ricercatori del New South Wales, spiega, è prima di tutto quello di aiutare l’istruzione. Chiarisce la ricercatrice stessa: «Le favole sono spesso usate per insegnare ai bambini. Pensa però a una ragazza a cui le volpi o le cicale non piacciono e immagina se quella stessa storia potesse essere riscritta, in meno di un secondo, con diversi protagonisti e così catturare l’attenzione della bambina e aiutarla ad imparare. Sarebbe fantastico. Ed è questo che vorrei». Molto probabilmente Sarlej e Ryan riusciranno nel loro intento finale, il problema è che spesso invenzioni nate con uno scopo finiscono per servirne un altro. Vedi alla voce TNT.

 

Immagine: Germania, una maestra d’asilo racconta una fiaba alla sua classe (Thomas Lohnes / Getty Images)