Attualità

Fare a pezzi Internet

Siamo soliti darla per scontata, ma la rete libera e globale è soltanto il frutto di una fortunata coincidenza storica. Un'intervista a Daniel Castro, lo studioso che ci mette in guardia dal "data nationalism".

di Alberto Mucci

Una minoranza sempre più consistente di studiosi ed esperti del web è convinta che Internet come lo conosciamo oggi potrebbe presto non esistere più. Il motivo? Un crescente numero di controversie legate alla gestione della rete e il possibile evolversi (in peggio) della sua governance. Alcuni esempi citati. Primo, la recente proposta del Cancelliere tedesco di creare «un Internet europeo» dopo aver scoperto che il governo americano spiava le sue telefonate e i suoi dati. Secondo, la posa del nuovo cavo sottomarino tra Brasile e Europa voluto dal presidente brasiliano, Dilma Roussef, con l’intento di contrastare la dipendenza del paese dai server statunitensi. Terzo, un lungo ed informato articolo di Gordon Goldstein, membro della delegazione americana alla Conferenza mondiale delle telecomunicazioni (ITU), apparso sull’Atlantic in cui l’esperto si chiede se sia ormai prossima «la fine di Internet». Per tentare di fare chiarezza sul dibattito Studio ha raggiunto Daniel Castro, analista del centro studi americano Information Technology and Innovation Foundation, e padre dell’espressione “data nationalism” (“nazionalismo dei dati”), coniato per identificare quella che Castro reputa una delle principali minacce a una rete in cui dati e informazioni circolano senza restrizioni.

Eric Schmidt, il presidente di Google, ha più volte parlato di «splinternet» (traduzione: “internet fratturato”). La reputa una descrizione accurata?

Penso sia un modo accurato di descrivere i cambiamenti in atto. Negli ultimi anni i paesi che hanno alzato la voce e detto “questo si” o “quello no” in relazione alla governance di Internet e alla sua futura struttura sono aumentati in maniera consistente. Un primo esempio che mi viene a mente è quello del Brasile (sostenuto da Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Suriname e Venezuela) e il suo de facto veto alla richiesta di Amazon di acquistare il dominio .Amazon. Al momento della decisione Brasilia ha dichiarato che non è possibile utilizzare un nome associato alla foresta più grande del mondo – e patrimonio dell’umanità’ – per scopi commerciali. Un altro esempio è la censura del governo australiano su tutti quei siti il cui contenuto è ritenuto illegale (esempio: pedofilia, pornografia di un certo tipo, etc). E ancora l’Iran, col crescente numero di restrizioni sui siti di social media e informazione che il governo impone al paese dal 2006.

Eli Noam della Columbia University paragona la struttura della rete oggi a quella di un mondo in cui vige il libero scambio. Allo stesso tempo Noam mette in guardia su come uno status quo come quello attuale sia raro e come un modo fatto di tariffe sia al contrario molto più comune. Il medesimo trend, sempre secondo Noam, varrebbe per il Web. Il paragone regge?

Si, penso di si. A parte casi rari come la Cina del “Great Firewall” e l’Iran citato prima, quanto dice Noam è del tutto condivisibile. Oggi dati e informazioni viaggiano senza alcun limite imposto da realtà nazionali. Questo molto spesso lo diamo per scontato, ma bisogna ricordare che è uno status quo assolutamente eccezionale, forse conseguenza del fatto che gran parte dei governi hanno impiegato qualche anno per capire cosa davvero fosse Internet e quali fossero le sue implicazioni. Qualunque sia il motivo, il rischio dell’avanzata di un sistema protezionistico, del ‘data nationalism’ come l’ho chiamato nel mio paper, non è da escludere. Ed è un fatto incontrovertibile che nel breve periodo l’imposizione di dazi può aiutare i governi a fare cassa, proteggere le industrie locali o risolvere un problema politico – la Merkel pensa per esempio che un Internet europeo sia in grado di proteggerla da azioni di spionaggio. Nel lungo periodo, però, le restrizioni sulla circolazione dei beni e dei dati danneggiano sia l’economia sia le libertà individuali.

Quando si parla di limitare il flusso di beni pensiamo ai dazi, quando invece si parla di Internet quale potrebbe essere l’equivalente?

Prendi ad esempio Google.com. Il dominio esiste ed è uguale in quasi tutto il mondo perché l’Internet di oggi è una cosa sola, una singola realtà. Se digiti Google in Italia o negli Stati Uniti appare lo stesso sito. Se al contrario ogni paese dovesse avere un “proprio Internet” quella corrispondenza tra nome e dominio non sarebbe più garantita. Portiamo l’esempio all’estremo: negli Stati Uniti Google.com rimane Google, mentre in Europa il dominio viene acquistato da un’azienda produttrice di occhiali e Google.com diventa il portale di e-marketing della società. Si creerebbe una confusione enorme per tutti gli utenti.

Quali condizioni porterebbero un governo a prendere una decisione del genere?

Numerose. Per esempio: basta pensare agli ultimi mesi e a come diversi politici hanno parlato di protezione di dati e del loro stoccaggio a livello nazionale. Al momento poco o nulla è stato fatto (le dichiarazioni iniziali sono state in alcuni casi ritrattate), ma se l’ondata di ‘data nationalism’ dovesse prendere il sopravvento e diventare politicamente accettabile è facile immaginare la grossa compagnia di telecomunicazioni locale prendere la palla al balzo e iniziare a fare lobby sui rispettivi governi per assicurarsi un contratto per la creazione di un “Internet nazionale”. E qui torna comodo il paragone di Noam: immagina che una società italiana produttrice di gomma spinga il Parlamento a votare per un aumento dei dazi sulla gomma proveniente dall’estero. Per l’azienda in questione questo significa facili margini di profitto e un mercato protetto, per il consumatore prezzi più alti e minor qualità. Lo stesso varrebbe con lo sviluppo di “Internet locali” protetti da norme nazionali.

Le rivelazioni di Snowden hanno avuto un ruolo nell’accelerare il processo di balcanizzazione del web?

Si, e oltre ai motivi più ovvi – la volontà di non essere spiati e di proteggere i propri dati – anche per una ragione più strutturale. Fino a Snowden gli Stati Uniti sono stati il paese leader nella promozione di un web aperto e libero, un ruolo accettato dagli altri paesi. Nel post-NSA, e con la messa in discussione di questo ruolo di guida, per la prima volta dalla nascita del web la governance di Internet e il suo funzionamento possono essere re-immaginati.

Per usare un’espressione di Bush, quali sono i «paesi canaglia»?

Non so se «canaglia» sia la descrizione giusta, ma in ogni caso: nel 2012, a Dubai, si e’ svolta la conferenza dell’International Union of Telecomunications (ITU). Lo scopo ultimo dell’incontro era giungere a un nuovo trattato riguardo la governance di Internet (l’ultimo è del 1998). All’inizio sembrava ci fosse la volontà politica di trovare un accordo, ma giunti alla conferenza si sono formati due blocchi contrapposti: quello occidentale, la cui posizione era riassumibile in un “manteniamo lo status quo” e quello guidato da Russia, Cina ed Emirati Arabi Uniti che spingeva per un maggior controllo del Web a cura delle autorità nazionali. L’argomento di questi paesi era che siccome il web passa attraverso le compagnie di telecomunicazioni locali dovrebbe dunque essere soggetto a regolamentazioni nazionali. Alla fine del nuovo trattato non si è fatto più nulla perché gli Stati Uniti si sono rifiutati di firmare il documento finale, ma il tentativo da parte di alcuni paesi di asserire maggior controllo sul web c’è stato e questo non va scordato.

Qual è il peggior scenario possibile?

Riconsidera l’esempio di Google.com. Moltiplicalo per decine di migliaia di pagine web in 193 paesi diversi. Disastro assoluto: siti diversi tra loro con lo stesso nome in paesi differenti. Una catastrofe soprattutto per le grandi multinazionali che vedrebbero i loro costi operativi lievitare in maniera significativa. Se per esempio Google volesse mantenere lo stesso nome in tutti i 193 paesi dove opera dovrebbe acquistare lo stesso dominio 193 volte. Ma soprattutto, uno scenario del genere significa maggiore inefficienza ed inefficienza significa diminuzione del potenziale economico del web – posti di lavoro creati, flussi di investimenti ed idee tra i diversi paesi, etc.

È verosimile?

Non in una forma così estrema, ma attenzione: questo non significa che i vari Schmith e Noam non facciamo bene a metterci in guardia e ad evidenziare il problema. Il sonno della ragione genera mostri, titola un’acquafòrte di Goya e bisogna sempre analizzare i cambiamenti intorno a noi. Al di là di questo c’è anche da considerare il costo di uscita di un paese dal sistema del web di oggi. Se per esempio l’Italia decidesse di andarsene per conto proprio e creasse un suo Internet avrebbe molto da perdere in termini economici, perché si escluderebbe da un flusso di dati essenziale alla crescita economica di un paese moderno. “Splinternet” potrebbe diventare realtà soltanto se a decidere di uscire dall’odierno sistema del web fossero allo stesso tempo numerosi paesi in comune accordo tra di loro.
 

Nell’immagine: le connessioni mondiali a Facebook, mappate. (Michael Coghlan/Flickr)