Attualità

Fantascienza “impegnata”

Elysium è un bel film e Blomkamp ha contribuito a fare tornare la sci-fi di moda. Ma c'era proprio bisogno di darsi un tono da autore politicizzato?

di Federico Bernocchi

La storia è abbastanza nota, ma vale la pena ricordarla. Neill Blomkamp è un giovane ragazzo sudafricano specializzato in effetti speciali. A soli sedici anni ha già un buon curriculum e le cose migliorano dopo la sua laurea in cinema presso la Vancouver Film School, in Canada. Comincia a dirigere e curare spot pubblicitari e, grazie a un indiscutibile talento, riesce a diventare uno dei registi più famosi e prolifici nel suo campo. Lo vogliono tutti, dalla Nike alla Citroen, passando per la ricchissima industria dei videogiochi. Ed è proprio qui che la sua carriera decolla.

Nel 2007, dirige tre cortometraggi ambientati nell’universo del videogame Halo. Sono tre piccoli capolavori che riescono a rapire lo sguardo anche di chi Halo non sa nemmeno cosa sia. Il secondo di questi tre corti, Halo: Combat, vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Il passaggio successivo è quello più naturale: grazie a una serie di produttori tra cui l’allora gigantesco e potentissimo Peter Jackson, che lo prende sotto la sua ala protettiva, gli viene proposto di dirigere un vero e proprio film live action tratto da Halo.

“Neill, dillo a Peter tuo: a parte Halo che proprio non s’ha da fare, che altro film vuoi dirigere, bello di zio?”

Neill ovviamente accetta ma poi si trova a dover fare i conti con una produzione fin troppo mastodontica. Il budget diventa sempre più grande e i vari produttori interessati alla questione non riescono a trovare un accordo su come dividersi spese e guadagni. Dopo un lungo e stressante periodo di pre produzione Halo viene bloccato e Neill si trova da un momento all’altro disoccupato. E allora ci pensa lo zio Peter Jackson a risolvere la situazione: “Neill, dillo a Peter tuo: a parte Halo che proprio non s’ha da fare, che altro film vuoi dirigere, bello di zio?”. E allora Neill tira fuori un suo vecchio cortometraggio del 2005 intitolato Alive in Joburg, lo fa vedere a Jackson: “Sì, è bello! Te lo faccio fare! Più bello e pure più grosso!”.

Per cui ecco a voi, District 9. Certo, si sta esagerando e scherzando, ma il rapporto Jackson – Blomkamp, è poi diventato una prassi in quel di Hollywood, giovani registi autori di un bel cortometraggio spalleggiati da grandi numi tutelari. Vedi per esempio l’ultimo caso del giovane Fede Alvarez alle prese con il remake de La Casa del maestro Sam Raimi. In questo caso, Jackson e Blomkamp hanno anche diretto un cortometraggio insieme nel 2007, Crossing The Line.

District 9 parte come un mockumentary che racconta un’invasione aliena. Ma a differenza di quelle che abbiamo visto in milioni di film a stelle e strisce, questa non avviene a New York o Washington D.C., ma a Johannesburg. Sopra il cielo della città sudafricana spunta una grandissima nave spaziale che lì staziona per mesi. Poi, grazie all’intervento dell’uomo, si scopre che all’interno di questa nave, evidentemente guasta, ci sono migliaia di orribili alieni che potremmo descrivere come delle cavallette lievemente antropomorfe.

Scoperto, dopo alcuni goffi tentativi, che l’integrazione tra umani e cavallette non è un opzione praticabile, si decide di ghettizzarli e di confinarli tutti nel District 9 del titolo. Da qui parte poi una storia che ha a che fare con uno strano liquido che ha il potere di trasformare gli umani in alieni e al tempo stesso funziona come carburante della navicella guasta, cibo per gatti e un piccolo uomo (Sharlto Copley, amico di lunga data di Blomkamp e attore dotato di una delle facce più interessanti degli ultimi anni), che passa da una parte all’altra della barricata.

Il film, costato solo 30 milioni di dollari, funziona perfettamente al botteghino, lancia la carriera di Blomkamp e Copley e si porta a casa ben quattro candidature agli Oscar 2010, tra cui quella per il miglior film. Il segreto dell’operazione District 9 sta quasi tutta in quello che è il paratesto del film: il lancio virale, il mistero che circonda la pellicola, le riprese spacciate come vere, l’idea del mockumentary non ancora del tutto assimilata in ambiti così commerciali. L’attenzione è tutta su questi elementi.

E poi c’è l’asso nella manica: la politica. District 9 è un film politico, o per lo meno è così che ci viene venduto. Potrebbe apparire ai meno smaliziati di noi come un semplice film di fantascienza ma in realtà c’è la Metafora. Con la M maiuscola. Quella che è garanzia di film serio e impegnato. Siamo in Sud Africa e si parla di Diversi che arrivano sulla nostra Terra e che non sappiamo come contenere. Si parla di razzismo, di integrazione e di xenofobia. Neill Blomkamp diventa dunque un Autore, un bizzarro filmaker pazzo per gli effetti speciali che utilizza il cinema di genere per parlare di cose serie. In controluce, ma fino a un certo punto, si nota come al regista interessi anche realizzare sequenze in cui ci sono esoscheletri pieni di complesse armi aliene che permettono di far esplodere gangster sudafricani in elaborate sequenze action.

C’è la supposta serietà del soggetto ma anche un deciso approccio votato all’ entertainment che riesce a far accettare il film ad un vasto pubblico. Poco importa che in realtà, una volta accettato il discorso politico, ci si trovi di fronte a un film che ha alcuni momenti di umorismo involontario, come il finale piuttosto ricattatorio, e alcune cose che evidentemente non funzionano. Il pubblico prende l’operazione in modo estremamente serio.

La scusa ufficiale è questa: si utilizza il genere per parlare d’altro. In questo modo non si parla solo di cinema popolare ma ci si fa ingannare e si rassicura il proprio gusto personale.

In questo modo la fantascienza, dopo un lungo periodo in cui era stata snobbata quasi totalmente da Hollywood, torna interessante. Il mockumentary diventa un genere molto frequentato sia per quanto riguarda la sci-fi sia per l’horror (soprattutto in produzione più modeste rispetto a District 9), ma è proprio il genere fantascientifico a tornare attraente per i produttori. La scusa ufficiale è questa: si utilizza il genere per parlare d’altro. In questo modo non si parla solo di cinema popolare ma ci si fa ingannare e si rassicura il proprio gusto personale.

Dietro a questi strani film, con navicelle spaziali piene di porte esagonali, sembra esserci qualcosa di più profondo o intenso. Cosa che il genere ha sempre fatto. Non tutti parlano di politica, come fa Blomkamp, il più delle volte si vuole mostrare il lato umanistico della sci-fi. C’è il fenomeno Duncan Jones, autore di Moon e Source Code, ma ci sono anche titoli come The Adjustment Bureau diretto da George Nolfi o The Man From Earth di Richard Schenkman.

Nell’arco di un quinquennio, anche grazie a Blomkamp, la fantascienza è tornata di moda. Ma lui nel frattempo cosa ha fatto? Nel frattempo Neill s’è convinto di essere un regista politico e ha realizzato il suo secondo lungometraggio Elysium. La storia è questa: siamo in un prossimo futuro. La Terra, come in Wall-E, è ormai completamente distrutta dall’inquinamento ed incredibilmente sovrappopolata. Sempre come nel film della Pixar, una piccola parte dell’umanità ha scelto di andare a vivere all’interno di una nave spaziale chiamata Elysium con ogni tipo di tecnologicissimo comfort. Ma se quelli ricchi sono lì, i poveri – il 98% della popolazione – sono rimasti sulla Terra. Sono tanti, sporchi e operosi e lavorano tutti per permettere ai ricchi di godersi la vita su Elysium.

Poter vivere in quella bella stazione orbitante è il sogno di chiunque ma praticamente nessuno se lo può permettere. E allora si tentano gli sbarchi di clandestini che vengono però a colpi di cannone.

Vi basta come Metafora? Forse non sapete però che la cosa migliore di Elysium è la sanità. Se scopri di avere un tumore, ti metti all’interno di una capsula simile a quelle dove noi facciamo la Tac e ti sparisce tutto in men che non si dica. E i poveri sulla Terra? No, niente, loro possono anche morire visto che sono poveri e brutti. Insomma l’approccio politico di Elysium è oltre l’esile ma è comunque l’aspetto più pubblicizzato.

In realtà il secondo lungometraggio di Blomkamp è un ottimo film d’azione: veloce, adrenalinico, esagerato, testosteronico. Una volta spiegato il prologo politico non si vede l’ora di vedere Matt Damon fare a botte con il cattivissimo Copley tutti e due muniti di armature esoscheletriche che aumentano la loro forza. Macchine che esplodono, colpi di fucile sparati in faccia alla gente a bruciapelo, inseguimenti, duelli. E in lontananza gli echi di un film politico che parla dei ricchi che sono cattivissimi e dei poveri che sono buonissimi.

Brutto? Assolutamente no. Elysium è un film estremamente divertente, con un buon cast e con un ritmo degno di una produzione Canon degli anni ’80. Per chi scrive, estremamente consigliato. Ma allo stesso tempo consiglierei a Blomkamp di rinunciare alle sue velleità politiche (in questo caso pesanti come una zavorra) e di darsi alla realizzazione di pellicole prettamente e strettamente action.