Cartelloni della campagna per le elezioni europee del Partito dei Verdi tedesco (L) e dei socialdemocratici tedeschi (SPD) il 17 aprile 2019 a Berlino (foto di Sean Gallup/Getty Images)
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Come si diventa un partito di sinistra di successo
Chi e cosa c'è dietro la costante ascesa dei Verdi tedeschi? Un reportage da Berlino alla vigilia delle elezioni europee.
Berlino. È la sera del 14 ottobre 2018 a Monaco di Baviera, due uomini in pantaloni e camicia si lanciano da un palco, facendo stage diving sulle teste di una piccola folla festante. Non si tratta di due rockstar, ma di Robert Habeck e Ludwig Hartmann, rispettivamente uno dei due segretari nazionali del Bündnis 90/Die Grünen, i Verdi tedeschi, e uno dei due candidati bavaresi del partito. C’è da festeggiare: i Verdi hanno appena raccolto un consenso record (17,6%), diventando improvvisamente la seconda forza del ricco Land meridionale della Germania.
Per mesi, il dibattito sulle consultazioni bavaresi era stato monopolizzato dal tema immigrazione e dai tentativi dei cristiano-sociali (Csu) di rincorrere verso destra i populisti di Alternative für Deutschland. Ma appena chiuse le urne è diventato chiaro che la strategia vincente era stata quella dei Verdi: posizionarsi sull’immigrazione (parlando sia dell’imperativo umanitario dell’accoglienza che del bisogno di una sua regolamentazione), ma scegliendo poi di concentrarsi soprattutto su problematiche ben più contingenti per gli elettori bavaresi, come le politiche abitative e il futuro dell’agricoltura.
Due settimane dopo il successo in Baviera, arriva quello in Assia, dove i Verdi quasi raddoppiano il loro consenso, piazzandosi di nuovo secondi con il 19,8% dei voti, grazie anche al carisma del loro candidato presidente, Tarek Al-Wazir, politico tedesco di padre yemenita e ministro regionale dell’Economia in carica.
I due exploit elettorali di ottobre 2018 rafforzano ancora di più un circolo virtuoso per i Grünen, che crescono progressivamente anche nei sondaggi nazionali. Pur mantenendo una significativa debolezza negli stati dell’ex Ddr, i Verdi vanno talvolta a sfondare il muro del 20% e diventano così il secondo partito in Germania, alle spalle della sola Cdu della Kanzlerin Merkel. Dopo che per due anni si è solo parlato dell’avanzata della destra populista tedesca e del declino di cristiano-democratici e socialdemocratici, ora l’attenzione dei media internazionali si rivolge ai Grünen. Quello che più colpisce dei Verdi è la loro capacità di affermarsi sia come forza non tradizionale e innovativa che come partito con una reale e conclamata esperienza di governo. Caratteristiche che sono il frutto della particolare storia politica dei Verdi tedeschi.
Siamo la forza che si è sempre posizionata chiaramente quando si è trattato di difendere la democrazia liberale, e questo ci viene riconosciuto
Nati nel 1980 in Germania Ovest sull’onda lunga del ‘68 e come espressione di diversi movimenti ecologisti, pacifisti e anticapitalisti, dopo l’unificazione tedesca i Verdi si sono fusi con la Bündnis 90, un’associazione di movimenti civici anti-regime dell’ex Germania Est. Nel corso degli anni, i Grünen hanno poi aperto alleanze amministrative su base locale con quasi tutti i più partiti importanti della Germania: la Spd, la Cdu, i liberali Fdp e la Linke, partecipando anche al governo del Paese nell’era Schröder. Oggi i Grünen sono presenti in 9 coalizioni di governo regionale su 16, tra cui quella in Baden-Württemberg, dove il verde Winfried Kretschmann è presidente dal 2011. Una partecipazione alla governance della Germania federale che non ha però eliminato il nucleo radicale dei programmi del partito. In seguito al loro nuovo manifesto programmatico del 2002, i Verdi tedeschi hanno sì abbandonato l’originario anticapitalismo d’ispirazione marxista per avvicinarsi ai criteri dell’economia sociale di mercato, ma hanno poi affermato ancora più decisamente la loro impostazione su temi come i diritti umani, la parità di genere, l’antirazzismo, i diritti Lgbt, la democrazia di base. E oggi continuano a puntare alla completa trasformazione in senso ecologico dell’attuale modello di produzione, a partire dalla totale transizione energetica verso fonti rinnovabili, l’abbandono definitivo del carbone come combustibile fossile e la progressiva eliminazione della produzione e del consumo di plastica.
Nuova leadership, ma senza traumi
Franziska Brantner, 39 anni, è deputata verde al Bundestag tedesco e portavoce parlamentare per le politiche europee. La incontro fuori dall’aula del Parlamento, dove si è appena svolta una commemorazione per le vittime del nazionalsocialismo.
«Siamo la forza che negli ultimi anni ha sempre combattuto per i valori umani, la forza politica che si è sempre posizionata chiaramente quando si è trattato di difendere la democrazia liberale, e questo ci viene riconosciuto», mi spiega Brantner, che aggiunge però come sia anche la particolare situazione politica tedesca a favorire la crescita dei Verdi. Il progressivo ridimensionamento della Spd sta portando tanti nuovi voti ai Grünen, ma anche una parte dell’elettorato più centrista e liberale di Merkel sembra sempre ora orientato verso gli ecologisti. L’esecutivo Merkel IV è debole ed è frutto di una grande coalizione nata controvoglia, mentre entrambi i partiti di governo hanno dovuto affrontare turbolenti cambi di leadership. Tra i Verdi le cose sono andate molto diversamente. Nel gennaio 2018 sono stati eletti senza problemi i due nuovi segretari: Annalena Baerbock, 38 anni, formazione giuridica, deputata in Parlamento e cresciuta politicamente nel Brandeburgo, e Robert Habeck, 49 anni, scrittore ed ex ministro dell’Ambiente nello Schleswig-Holstein. «Il cambio di leadership ha sicuramente contribuito a una parte del nostro successo attuale, perché siamo riusciti a fare un passaggio generazionale senza lotte interne al partito», racconta Brantner, «questo tipo di lotte sono proprio quelle che infastidiscono le persone: quando per settimane e mesi in un partito si passa il tempo a combattersi a vicenda. Noi tutto questo lo abbiamo evitato».
Non che i Grünen non conoscano le correnti interne. Per anni anche loro sono stati contraddistinti da una particolare dialettica tra i cosiddetti “fundis”, il gruppo più di sinistra, e i “realos”, nati quando i Verdi hanno iniziato ad accettare le prime esperienze di governo (a partire dai ruoli assunti dallo storico leader Joschka Fischer, la cui carriera lo ha condotto da ministro dell’Ambiente in Assia nel 1985 a ministro degli Esteri e Vice Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005). I nuovi segretari Baerbock e Habeck vengono considerati dei “realos”, ma il loro atteggiamento sembra oggi piuttosto quello di lasciarsi alle spalle il peso eccessivo dello scontro tra correnti, concentrandosi su tutto quello possa unire il partito. Una compattezza al momento certamente favorita dalle imminenti elezioni europee, visto che tra i Grünen sull’europeismo non c’è mai stato alcun dubbio. Basti vedere come negli ultimi mesi i parlamentari verdi tedeschi si siano ostinatamente impegnati contro la Brexit, facendo appelli ai partiti del Regno Unito per indire un secondo referendum sull’abbandono dell’Unione. Proprio Franziska Brantner si è espressa senza sosta sul tema, fino a scegliere di contestare apertamente la sinistra inglese di Jeremy Corbyn in un discorso al Bundestag. «La critica che ho rivolto verso Corbyn», mi dice la deputata, «è che non si è mai posizionato chiaramente, mentre io penso che in tempi in cui è in gioco la democrazia liberale bisogna prendere una posizione chiara».
Non crediamo che si risponda al populismo diventando populisti. Non possiamo rispondere alla polarizzazione interna alla società andandoci a polarizzare a nostra volta
La strategia anti-populista
Il corbynismo inglese e il modello dei Verdi tedeschi sono i due percorsi attualmente più riconoscibili delle sinistre in Europa. Prospettive probabilmente destinate ad allontanarsi sempre più tra loro. Da un lato c’è il ricorso a un progetto post-socialista, dall’altro una riformulazione ecologista della liberaldemocrazia. Ma il discrimine più grande, a ben vedere, è forse il rapporto che le due opzioni politiche hanno con il populismo.
Per capire meglio la strategia che i Grünen hanno scelto in questo senso, vado nella loro sede berlinese, in Platz vor dem Neuen Tor, all’interno di un palazzo i cui uffici molto informali sembrano più quelli di una qualsiasi associazione che il quartier generale di uno dei maggiori partiti della quarta potenza economica mondiale. Qui incontro Nicola Kabel, che dal marzo 2018 è la portavoce nazionale della direzione del partito: «Al momento nella comunicazione politica vale la regola che più fai rumore più ricevi attenzione, più offendi gli avversari e più funzioni mediaticamente. Noi abbiamo scelto di non sottometterci a questa dinamica. Vogliamo parlare con rispetto, cerchiamo di contestare le idee ma non le persone. Se iniziassimo a farci coinvolgere dai meccanismi populisti, diventeremmo parte della spirale populista», mi spiega Kabel, «questo significa anche non reagire sempre alle idee o alle dichiarazioni degli altri, ad esempio indignandoci di fronte alle provocazioni di partiti come AfD, e concentrarsi piuttosto sull’elaborazione del proprio programma e delle proprie proposte. Non crediamo che si risponda al populismo diventando populisti. Non possiamo rispondere alla polarizzazione interna alla società andandoci a polarizzare a nostra volta. Dobbiamo sempre cercare di superare le potenziali lacerazioni e contemporaneamente preservare i nostri valori».
Una strategia comunicativa che sta funzionando e sembra essere stata capace d’invertire proprio i trend mediatici stigmatizzati da Kabel. Secondo una statistica dello Spiegel, i due leader verdi sono alla prima e seconda posizione delle presenze nei maggiori talk-show televisivi tedeschi e questo ha sicuramente favorito il loro hype di consensi.
Ovviamente le cose saranno meno semplici se e quando i Verdi dovranno prendersi la responsabilità di governare la Germania. Non è per niente scontato che l’esecutivo Merkel IV possa durare fino a fine mandato e, se si andasse al voto con gli attuali equilibri dati dai sondaggi, i Grünen potrebbero dover formare una coalizione di governo nero-verde con la Cdu della nuova leader Annegret Kramp-Karrenbauer. In quel caso, considerando anche la delicatezza degli attuali equilibri geopolitici e anche il rallentamento della congiuntura economica positiva tedesca, i Verdi si troverebbero di fronte a un vero e proprio momento della verità. Un’agenda ecologista, infatti, può avere conseguenze precise e molto pratiche. In Francia, ad esempio, è stato l’aumento della carbon tax sui carburanti a scatenare le proteste dei gilet gialli, che si sono poi fatti espressione di un disagio sociale ben più profondo e generalizzato. Chiedo quindi a Nicola Kabel se anche in Germania o in tutta l’Ue non ci sia il rischio di far passare l’idea, già diffusa, che l’ecologismo finisca per pesare sulle spalle dei meno abbienti e del ceto medio impoverito.
Bisogna rendere chiaro che, se non si affronta l’emergenza climatica, a soffrirne le conseguenze saranno proprio i più poveri e i più deboli. Su scala globale e locale
La sua risposta sul tema punta a definire uno dei nuclei programmatici dei Grünen: «Non deve mai accadere che l’ecologia e la questione sociale entrino in conflitto, com’è successo in Francia. Bisogna rendere chiaro che, se non si affronta l’emergenza climatica, a soffrirne le conseguenze saranno proprio i più poveri e i più deboli. Questo vale su scala globale e locale. Ad esempio, ci sarà una differenza tra chi in futuro potrà proteggere la propria casa da un caldo estremo e chi no, tra chi potrà spostarsi dalle aree più inquinate e chi no. Al tempo stesso, è evidente che alcune tasse sui consumi colpiscano chi guadagna di meno, e a questo si deve rispondere praticamente, come abbiamo fatto ad esempio nel nostro programma europeo». In questo caso Kabel fa soprattutto riferimento a un provvedimento inserito nel programma dei Grünen per le elezioni europee di maggio, che prevede che una parte del ricavo delle tasse contro la Co2 (che colpiscono i consumi di auto, riscaldamento e agricoltura) venga attivamente ridistribuita ai cittadini.
A prova di futuro
La complessità delle prospettive e dei programmi che si sono prefissati i Verdi rendono evidente che per una vera affermazione politica non bastano un intelligente cambio di leadership, la capacità di muoversi mediaticamente o una collaudata esperienza amministrativa e di governance. Ci vuole ancora qualcosa in più: un’elaborazione teorica all’altezza dei propri obiettivi. Di questo aspetto si occupa soprattutto la Heinrich Böll Stiftung, un think thank separato e indipendente, ma affiliato ai Grünen. Fondata nel 1997 e intitolata al grande scrittore tedesco e Premio Nobel per la letteratura, la fondazione ha come scopo quello di essere un laboratorio d’idee verdi. Con trenta uffici in tutto il mondo, la sede centrale della Böll Stiftung è nel cuore della capitale tedesca, dove occupa un grande palazzo di cinque piani, costruito secondo particolari standard di risparmio ed efficienza energetici.
Salgo all’ultimo piano e incontro nel suo ufficio Ellen Ueberschär, una delle due direttrici della Stiftung, che mi accoglie mostrandomi proprio una frase di Böll, in cui l’autore sottolineava l’ambivalente potenza del linguaggio umano. Teologa evangelica, nata nell’ex Berlino est, Ueberschär è convinta che «i Verdi vengano percepiti come attori di modernizzazione, come un partito che ha un’idea su come affrontare i cambiamenti di una società influenzata dalla globalizzazione, dalle crescenti diseguaglianze. Il tema ecologico è il tema fondamentale del Ventunesimo secolo. Sempre più persone capiscono che l’ecologia è prerogativa di tematiche come il lavoro, l’economia, la giustizia sociale. Ci sono domande radicali a cui i metodi politici del passato non possono rispondere». Compito della fondazione è porsi queste domande. Tramite progetti di ricerca, borse di studio, conferenze e pubblicazioni, la Böll Stiftung affronta le questioni ecologiche e quelle di genere, si occupa di sicurezza globale e politica internazionale, studia i modelli democratici e i metodi per affrontare le discriminazioni sociali, persegue l’obiettivo generale di valutare ciascun concetto e idea in base alla sua fattibilità o, come dice la direttrice, alla sua Zukunftsfähigkeit, che può essere tradotta come la «capacità o abilità di affermarsi nel futuro».
E nella Germania e nell’Europa contemporanee, dove i processi di tribalizzazione sono sempre più forti, per il pensiero verde un simile impegno sembra anche tendere verso la ricerca di un progetto politico che sia realmente e complessivamente alternativo all’identitarismo etnico e nazionalista: «La sfida di un mondo globale è chiedersi: siamo una società con origini territoriali diverse, differenti identità, religioni, etnie, orientamenti sessuali, cos’è importante per tutti, cosa ci unisce anche sul piano emozionale, cosa ci tiene tutti insieme?» mi dice Ueberschär “Questa è la grande domanda a cui, data la nostra storia del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, abbiamo difficoltà a rispondere. Abbiamo il concetto di nazione, abbiamo concetti specifici di identità, ma cosa tiene insieme una società fatta di molteplicità, cosa condividiamo? In Germania c’è questa idea del Verfassungspatriotismus, il patriottismo della Costituzione, ma non so se sia sufficiente, perché anche una Costituzione ha bisogno di prerequisiti. Il primo articolo della Costituzione tedesca, “La dignità della persona è inviolabile”, è molto forte, ma come lo rendiamo concreto, come lo rendiamo qualcosa su cui siamo tutti d’accordo?».