Attualità

Perché Easy è una serie diversa dalle altre

Composta da episodi slegati gli uni dagli altri e ambientata a Chicago, racconta i rapporti tra le persone.

di Nicola Bozzi

Non è facile spiegare perché guardare Easy, serie Netflix diretta da Joe Swanberg. A me l’ha consigliata un’amica e, onestamente, non ricordo come mai abbia deciso di cliccarla. La faccio breve: ne è valsa la pena. A prima vista ci sono diversi elementi riconoscibili. Swanberg racconta le vite più o meno ordinarie di un gruppo sparpagliato di giovani e meno giovani, tutti più o meno inseriti in contesti creativi o cool e per questo collegati tramite conoscenze comuni che si manifestano discretamente di episodio in episodio. Del tipo: fumettista, scrittrice, curatrice, ballerina, regista teatrale, e una coppia di fratelli birrai artigianali. Ma non si tratta di un Sense 8 hipster, e nemmeno di un Girls o Master of None più anagraficamente variegato.

La formula di Easy, più che altro, consiste nell’affrontare ogni episodio come un corto slegato dagli altri, seppur esteticamente coerente. Swanberg dirige tutti gli episodi, che hanno quindi un ritmo e un tono piuttosto omogeneo, ma i dialoghi sono semi-improvvisati e anche i personaggi, a detta sua, sono stati creati in modo collaborativo. Cosa che pare necessaria, dato che le prospettive attorno alla quale ruota ciascun racconto costituiscono uno spettro umano più vario della media. C’è comuque un’innegabile uniformità di classe che inquadra la serie e il suo pubblico, ma nonostante molti dei protagonisti sembrino fare una vita densa di appuntamenti culturali, feste e brunch, Easy va oltre l’estetizzazione/autocritica del consumismo cosciente da comunità gentrificata per focalizzarsi con eleganza sui rapporti tra le persone.

Oltre alla regia di Swanberg, a mantenere un senso di continuità è la città di Chicago, che se ne sta tranquillamente sullo sfondo. Occasionalmente suburbano come Los Angeles e denso di insegne e muri dai mattoni rossi come New York, il suo paesaggio urbano si presta a narrazioni diverse: strizza l’occhio ai locali tramite riferimenti a caffetterie o birrifici del posto – Swanberg è di lì – ma non proietta un eccessivo alone mistico sullo spettatore, che si orienta più tramite le apparizioni di facce conosciute e non identificate di storia in storia, un tessuto sociale che viene svelato senza fretta.

Come già detto prima il formato poco “seriale” non promette archi narrativi totalizzanti o cliffhanger emozionali, quindi si prende la leggerezza di un incontro e ci si costruisce attorno una narrazione a maglie molto larghe, che si può permettere il lusso di non intersecare immediatamente la trama degli episodi precedenti e successivi. I fratelli birrai (Dave Franco ed Evan Jonigkeit) tornano ad aggiornarci sulla propria impresa a intervalli irregolari e, come dimostra l’episodio in cui le rispettive partner (Zazie Beetz e Aya Cash) avviano un business insieme, di successo più immediato, anche senza pieno protagonismo. Alcuni episodi sono più leggeri, altri assumono toni un po’ più intensi, ma in generale c’è un tocco leggero e ci si abitua a non aspettarsi grosse risoluzioni o cerchi che si chiudono.

Una cosa che si nota è l’abbondanza e la varietà delle scene di sesso, generalmente premiate dalla critica come “sex-positive”. Sesso coniugale, adultero, sicuro, incerto, etero, lesbico, spontaneo, a pagamento. Coppie annoiate o in cerca di nuovi stimoli sperimentano role-playing, ménage à trois o relazioni aperte; in uno degli episodi più interessanti, la routine di una scrittrice che si mantiene soddisfacendo le fantasie sessuali di sconosciuti (Karley Sciortino) viene alternata a quella di un aspirante comico che sbarca il lunario facendo la guida e l’autista Uber (Odinaka Ezeokoli); una curatrice femminista (Jacqueline Toboni) si fa un esame di coscienza per aver storto il naso alla notizia che la sua ragazza (Kiersey Clemons) vuole mettere su uno show di burlesque. Quando vengono mostrati, gli incontri sessuali sono sia eccitanti che imbarazzanti, senza che questa sensualità o quell’imbarazzo raggiungano picchi critici o morali (tanto che in un paio di casi, dove il sesso sembra più deciso di quanto non appaia consensuale, questa ambiguità è stata anche motivo di critiche).

Se femminismo e inclusione sono capisaldi di un certo tipo di serie molto “Millennial” (questa etichetta molto vaga e un po’ infame sinonimo di edonismo a base di avocado e futuro a base di depressione), Easy ha come dicevo un baricentro anagrafico un po’ diverso. Come nelle serie di Dunham e Ansari si parla di gente più o meno giovane, ma nel senso allargato da 21esimo secolo: si va dal ventenne al cinquantenne immaturo, passando per le giovani coppie di genitori che cercano soluzioni alla routine coniugale. Aggiungerei anche che manca quell’attrito intergenerazionale tipico delle narrazioni improntate sul nucleo familiare: non ci sono nonni saggi o teenager che imparano la lezione, ma sono spesso i più maturi a imparare dai giovani.

È il caso del fumettista in declino (interpretato senza troppi sforzi da Marc Maron), noto per l’assorbimento coatto dei cari nelle proprie graphic novel, che si trova ad assaggiare la propria stessa medicina venendo incluso nell’opera di un’artista molto Instagram generation (Emily Ratajkowsky). Ma lo scontro generazionale, invece di portare a una prevedibile escalation drammatica, si consuma in maniera relativamente civile.

Sicuramente il limite di formato incoraggia la risoluzione dei conflitti in maniera, appunto, easy, ma è proprio il mood generale a mantenere i toni il più soft possibile. Un’eccezione è forse il picco morale della serie, che si tocca nell’episodio in cui una giovane di famiglia ricca e religiosa (Danielle Macdonald, quella di Patti Cake$), viene costretta ad andare a messa. Non si capisce se per punirli o per illuminazione personale, lei inizia a intraprendere un percorso di abbandono dei beni materiali che finisce per mandare in crisi i pii genitori. Qui il conflitto è più evidente, ma la ribellione giovanile non è solo inquadrata come disfunzione educativa, ma ha sullo sfondo questioni più grandi e (convenientemente) inesplorabili all’interno di un episodio da mezz’ora scarsa.

Sicuramente Easy è un prodotto dei tempi, e le storie che racconta abbracciano volutamente età, background etnici e sessualità diverse. Ma, come da titolo, questo approccio alla diversità è pregevolmente morbido e in generale non appare forzato. Ad esempio, l’abbondantissima Danielle MacDonald non appare in quanto cicciona emarginata, ma come giovane teenager sessualmente attiva e popolare. Allo stesso modo, i tre protagonisti ispano-americani nell’episodio “Controlada” (quasi interamente in spagnolo) non devono giustificare la loro provenienza o il perché vivano in America. Insomma, Swanberg è molto attento a non cadere, per quanto possibile, in quell’approccio pigro alla diversità che oltreoceano chiamano “tokenism”.

Diversità a parte, di Easy ho personalmente apprezzato molto l’approccio al dialogo. Non tanto a livello di scrittura, che come dicevo è limitata, quanto il fatto che i personaggi si trovino quasi sempre a confrontarsi ed esprimersi in maniera spontanea, piuttosto che giocare su stratagemmi di detto/non detto sui quali vengono spesso costruite sceneggiature intere. I sentimenti inespressi non rimangono tali a lungo e l’interiorità dei personaggi è rivelata senza cadere nel didascalico. Quello che i protagonisti di Easy fanno, in molti casi, è arrabattarsi o gestire una delusione, un conflitto, un fallimento, un imbarazzo senza drammi strumentali, senza svolte moralizzanti.

In un periodo in cui va un po’ di moda accanirsi contro il narcisismo dei Millennial, gen-Xers, o chi per loro, fa piacere vedere un racconto che affronta temi come solitudine, noia o screzi interpersonali senza cedere alla tentazione di imporre il cinismo narrativo sulla dignità umana, senza mettere per forza la vita presente sotto il peso di valori tradizionali o futuro incerto. Nonostante se ne parli pochino, insomma, Easy il suo 97% su Rotten Tomatoes per me se lo merita. Si tratta di un prodotto decisamente atipico in un contesto di streaming dove il potenziale “binge” sembra la moneta più corrente, ma anche se non ci vuole tanto a vederla tutta (appena 16 episodi totali, di mezz’ora scarsa l’uno) per una volta una visione meno ossessiva non può fare che bene.