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Come Dwayne Johnson è diventato The Rock

Storia dell'ex wrestler che interpretava il Re Scorpione nel pessimo film omonimo, e che oggi è l’attore più pagato di Hollywood.

di Francesco Gerardi

The Rock in una scena di "Jumanji"

Il 4 maggio del 2002 nelle sale cinematografiche americane arriva La Mummia – Il ritorno, sequel del La Mummia del 1999, già remake de La Mummia del 1932, uno dei classici “film di mostri” della Universal con Boris Karloff nella parte del cadavere imbalsamato. Il film è un discreto successo di pubblico, una vacca dalla quale si riuscirà a mungere un altro sequel (La Mummia – La tomba dell’imperatore dragone) e uno spin-off dedicato a uno dei suoi personaggi più amati (e canzonati): il Re Scorpione Mathayus, interpretato da quello che all’epoca era il wrestler The Rock e che oggi conosciamo come l’attore più pagato di Hollywood, secondo la recente classifica di Forbes. Nella storia del cinema, come di tutte le arti, ci sono esordi che fanno capire tutto e subito: era facile immaginare cosa sarebbe stato di Orson Welles dopo che a 25 anni scrisse, diresse e interpretò Quarto Potere. Per lo stesso ragionamento, l’esordio sul grande schermo non lasciava intravedere nel futuro di The Rock borse di studio istituite in suo onore presso l’Actors Studio di New York. Non che la sua prova attoriale fosse passata inosservata, sia chiaro: lo Stinkers Bad Movie Awards come peggior attore non protagonista di quell’anno tutti sapevano a chi sarebbe andato.

Dwayne Johnson però non è tipo da prendersi sul serio, non è uomo permaloso. In fondo, quanta considerazione poteva aspettarsi un wrestler prestato al cinema per interpretare un leggendario guerriero à la Conan il Barbaro, capace di trasformarsi in uomo-scorpione grazie ai miracoli di una delle peggiori CGI mai impiegate in un film? Un buon successo al botteghino era l’obiettivo, uno spin-off dedicato al personaggio da lui interpretato addirittura un sogno. Al pubblico Mathayus piace abbastanza da convincere chi ci mette i soldi a produrre un film tutto per lui intitolato Il Re Scorpione (a scanso di equivoci). Un paio di settimane in testa al box office, più di questo non si poteva chiedere. Ma nella confusione di una sceneggiatura di recupero e di una CGI mortificante, tra combattimenti tutt’altro che memorabili ed esplosioni di difficile comprensione, chi ha occhi per vedere, vede: nella sua recensione per il Chicago Sun-Times, Roger Ebert scrive che si aspetta una lunga carriera da action-star per The Rock. Ebert aveva forse previsto Fast & Furious – Hobbs & Shaw? Jumanji? Rampage? Baywatch? Black Adam? In ogni caso, Ebert è il primo (forse l’unico, all’epoca) a intuire per la carriera cinematografica di The Rock una traiettoria diversa da quella che i suoi primi film (e le precedenti escursioni di wrestler sul grande schermo) lasciano immaginare.

Forse il segreto del successo sta nella personale definizione di insuccesso. Quanto devi essere stato povero prima di poterti dire ricco? Quanto tempo impantanato nella depressione per capire di essere arrivato alla felicità? Con il sorriso accecante e i muscoli guizzanti di oggi è difficile immaginare Dwayne Johnson incapace di scendere dal letto, di portare il cibo alla bocca, di trattenere le lacrime. Quando capì che il primo sogno della sua vita, diventare un giocatore di football professionista, non si sarebbe realizzato, Johnson arrivò a quello che lui stesso ha definito il momento peggiore della sua vita. «Non volevo fare nulla, non volevo andare da nessuna parte, piangevo in continuazione. Arrivi a un certo punto in cui non hai più lacrime». Abbandonare il sogno di giocare nella NFL fu tanto più difficile perché Johnson aveva già accettato tanti compromessi pur di realizzarlo: aveva vinto un National Championship con l’università di Miami, ma aveva giocato pochissimo a causa dell’imbattibile concorrenza di Warren Sapp. Le sue mediocri statistiche allontanarono l’interesse degli scout della massima lega e nel 1995 Johnson si ritrovò, ormai giovane uomo, a inseguire i sogni di un ragazzino. In attesa della telefonata giusta andò a giocare per il Calgary Stampede: durò due mesi, e poi niente più football.

The Rock in “Rampage”

Come un ventenne qualunque, torna a casa di mamma e papà e accetta di lavorare per l’azienda di famiglia, solo che l’azienda della sua famiglia è il wrestling professionistico. Il fisico ce l’ha, risultato dell’unico metodo trovato per combattere prima la rabbia adolescenziale e poi la depressione giovanile: «L’unica cosa che potevo fare era allenarmi e migliorare il fisico. Tutti gli uomini di successo che conoscevo lo facevano». Ma nei confronti della tradizione di famiglia ha sentimenti contrastanti: c’è l’ammirazione per i nonni, Peter e Lia Maivia, fondatori della Polynesian Pacific Pro Westling, e quella per il padre, Rocky Johnson, uno dei primi neri a conquistare una cintura nella WWF (quella di campione di coppia, assieme a Tony Atlas). Ma dietro i trofei di scintillante finto oro e le fotografie incorniciate, c’era una povertà che ha riempito la sua adolescenza di tanti, spiacevoli (anche se necessari, per la trama della sua vita) MacGuffin: i sette dollari con i quali ha dovuto sopravvivere per lunghi periodi, la macchina pignorata di sua mamma, il cartello appeso alla porta di casa che notificava lo sfratto a lui e alla sua famiglia. E siccome ogni città è inevitabilmente divisa in due, da una parte i ricchi e dall’altra i poveri, l’adolescente Dwayne Johnson decise che avrebbe preso dalla città dei ricchi quello che la sua non poteva dargli. Iniziò a derubare ricchi turisti intenti a fare shopping tra negozi d’alta moda e gioiellerie, e il suo nome divenne noto alle forze dell’ordine di Waikiki.

A trascinarlo via di peso dalla brutta strada saranno gli Stati Uniti, dove si trasferisce a 16 anni, e il football, nella persona del suo primo coach, Jody Cwik, figura paterna che riempirà il vuoto lasciato da un padre sempre in giro per lavoro. Il fortissimo legame con il football e l’enorme delusione per non essere riuscito a farne il suo mestiere nascono da qui, dalla convinzione che quello sport sarebbe stata la sua unica via di fuga dalla città dei poveri. Chiusa quella via, rimaneva solo il terrore di percorrerla a ritroso. Non aveva sbagliato poi di molto, l’adolescente Dwayne Johnson. Sarà infatti lo sport a cambiargli la vita, solo non quello che immaginava lui: accettato il fatto che siamo quello che le nostre famiglie ci concedono o ci vietano di essere, Dwayne alla fine si dedica al wrestling. Non ha i soldi per comprare abbigliamento buono per il ring, quindi se lo fa prestare; per impressionare il suo futuro datore di lavoro vanta inesistenti trascorsi di lotta credibili soltanto grazie al prestigio che il suo cognome porta in certi ambienti. È una truffa talmente esagerata che rischia di essere scoperta in qualsiasi momento, ma Dwayne è un con-man di talento e ce la fa: comincia così la sua carriera nella più grande federazione di wrestling dell’epoca, la WWF. Grazie al wrestling, Dwayne Johnson diventa The Rock: una leggenda in quel microcosmo, vincitore di tutto ciò che si può vincere su un ring e osannato nei palazzetti dello sport di tutta America. Ma oltre al successo, alla ricchezza, alla fama, in questi anni (dal 1996 al 2004) Johnson acquisisce gli attrezzi che gli saranno poi indispensabili per la scalata alla montagna hollywoodiana: la showmanship, l’autoironia e la ruffianeria che oggi si possono intuire dietro il sorriso smagliante, la passione, la dedizione e l’ossessione che tengono su i suoi muscoli, l’egocentrismo indispensabile ad accettare l’appellativo di “mogul”.

Nel momento in cui un dirigente WWE ha l’intuizione di mettergli un microfono in mano e farlo parlare, Dwayne Johnson smette di essere Rocky Maivia, la noiosa superstar di terza generazione con i parenti famosi, e diventa The Rock, il campione di tutti. Frammenti di questo alter ego vanno a puntellare le rovine lasciate dal giovane uomo arrabbiato del passato e da questa riparazione e manutenzione viene fuori l’attore, il produttore, il filantropo. A sentir lui, chissà, in futuro potrebbe venir fuori anche il politico. La sua è una una storia quintessenzialmente americana. Uno che ha lavorato sodo piace sempre di più di un genio, perché l’alternanza con il fallimento è l’unica cosa che rende accettabile il successo altrui. Di più: lo rende finalmente comprensibile, perfino ammirevole. Un vincitore è accettabile solo se è stato anche lui un underdog, uno sfigato. E cosa c’è di più americano, di più underdog, di più hard worker di un uomo che riassume la svolta della sua vita con la frase: «1995. Avevo sette dollari in tasca. Sapevo due cose: che ero al verde e che un giorno non lo sarei più stato». The Rock, appunto.