Attualità
Doppia fiaba per adulti
Il bambino che cade nella gabbia del gorilla. Un altro lasciato dai genitori in un bosco. La cronaca che diventa una versione per grandi dei fratelli Grimm.
Un bambino cade nella gabbia del gorilla allo zoo di Cincinnati e, come un Mowgli moderno, ripreso e condiviso da decine di telefonini, viene strattonato o bruscamente coccolato dal gorilla, pochi istanti prima che i suoi distratti genitori e i guardiani dello zoo decidano di abbattere il nuovo amico di Mowgli, per riportare il bambino selvaggio nella civiltà. Nello stesso momento, il formativo abbandono nel bosco di un indisciplinato bambino giapponese si trasforma in una raggelante sparizione di una settimana in mezzo agli orsi, ma non quelli di Masha e Orso, piuttosto quelli di Brave.
Secondo lo psicanalista Bruno Bettelheim, autore de Il mondo incantato, il bambino ha bisogno di fiabe per superare le difficoltà della vita. La fiaba, infatti, con la sua visione magica del mondo e le sue figure archetipiche portatrici di angosce e desideri, incarna perfettamente le contraddizioni interne al bambino, e lo aiuta a esorcizzare gli incubi e a superare le crisi esistenziali. Sì, ma quando fiabe, invece di limitarsi a titillare l’inconscio e a rappresentare le paure più illogiche, si trasformano in realtà?
I quattro genitori che hanno fatto vivere ai loro figli questa doppia fiaba tragica, dove nessuno visse felice e contento, sono stati subito messi alla gogna virtuale, gli uni dal mondo intero, per la loro mostruosa intransigenza, gli altri dagli animalisti, per la loro colpevole svagatezza. Mi sono chiesta, assurdamente, se per esempio i genitori del bimbo americano lo avessero abbandonato più spesso nel bosco, anche solo per due minuti, forse lui sarebbe stato più timoroso di arrampicarsi sulla gabbia? Avrebbe pensato “se non faccio il bravo, mi ci buttano mamma e papà nella gabbia, e direttamente in quella del leone”?
I genitori americani hanno risposto con superficialità che a tutti capita di distrarsi, che gli incidenti semplicemente accadono, mentre il papà giapponese anaffettivo si è detto “dispiaciuto” (dispiaciuto, mi auguro sia un errore di traduzione!) per il figlio e per aver causato danni alla comunità, ma soprattutto per la comunità: dopo tutto, il figlio era uno che tirava i sassi alle auto durante le gite! Quando poi, infine, il bambino è stato ritrovato, ha detto: «Mi scuso profondamente con le persone della sua scuola, con le persone delle operazioni di ricerca, e con tutti quanti per aver creato problemi». Questi genitori di bambini troppo vivaci, arbitrariamente uniti nel destino da una congiunzione temporale, sono stati pubblicamente attaccati dall’opinione pubblica per motivi opposti: per non aver sorvegliato abbastanza, e quindi aver lasciato cadere un figlio iperattivo nella gabbia, e per aver punito troppo.
Vedendo i nove mila commenti al post di lutto per il gorilla dello zoo di Cincinnati, sembra quasi che avremmo preferito, tra i due, i genitori di Yamato. Genitori che dicessero: siamo dispiaciuti di aver causato tanto trambusto allo zoo, lasciatelo pure lì, così impara a arrampicarsi. E intanto, Yamato, senza cibo e acqua, per quasi una settimana, di sicuro non ha imparato i segreti della foresta di Hokkaido con l’orso Baloo…
Due storie diametralmente opposte, una di genitori orribilmente leggeri, che fanno uccidere una bestia per salvare il bambino che avevano trascurato, l’altra di genitori orribilmente severi, che lasciano un bambino in preda alle belve perché gli aveva fatto fare brutta figura con degli escursionisti. Noi condanniamo i genitori, tutti e indistintamente. Forse perché non ci è mai capitato. Di certo, perché nelle favole vincono i bambini e gli animali, e poi serve un cattivo. Noi siamo indignati, ma non vogliamo scegliere tra il bambino e il gorilla, così come, spesso, non sappiamo scegliere tra punire e non punire.
A tal proposito, Bettelheim disse che l’educazione si instilla e non si impone, e che la punizione insegna al bambino solo che chi ha potere può far fare al debole quello che vuole. In questo caso, i deboli sono Yamato, il bimbo giapponese, e Harambe, il gorilla buono. Quello che ci vuole, di fronte a questa cupa fiaba fattasi realtà, è un po’ più di rispettoso stupore, e un po’ meno giudizio.
Siamo lì, per un attimo, nel fossato, nei panni di una bestia di fronte a un cucciolo umano piovuto dal cielo; o, nel bosco, siamo orsi che vedono un bambino tremante che cammina nella notte. Siamo bambini che hanno appena visto i fari dell’auto allontanarsi, e forse lasciano il sentiero alla ricerca di un albero cavo, come nelle fiabe, o magari di una creatura fatata nata da una canna di bambù… Ma siamo anche i genitori che guardano il bambino nello stagno dello zoo, forse con qualche osso rotto, mentre il gorilla lo ispeziona e il pubblico dello zoo urla e fa i video. Siamo il papà di Hansel e Gretel, quando si pente e decide di tornare a cercarli nel bosco, ma è troppo tardi, loro sono già nella gabbia della strega.
Siamo intrappolati nel dominio dell’illogico, solo che non basterà una rima barocca a salvarci, né arriverà un folletto a portarci un oggetto magico, che non sia un guardiano dello zoo col fucile carico. Come ci muoviamo sbaglieremo, e ci troveremo di fronte all’inaccettabile finale del Cappuccetto Rosso di Perrault: ecco cosa succede ai bambini incauti. Solo che i bambini incauti non hanno colpa. La colpa è tutta nostra.
E forse siamo proprio noi, noi adulti, ad avere quel bisogno di fiabe che Bettelheim attribuiva all’infanzia. Ecco perché queste storie grottesche di bambini smarriti e animali quasi-parlanti ci toccano così nel profondo, e continuano a scavare dolorosamente dentro alla nostra immaginazione, ad attrarci fatalmente.