Attualità

Deepa Mehta

Oggi esce nelle sale italiane “I Figli della Mezzanotte.” Chi è la regista indiana più controversa, al netto del sodalizio con Salman Rushdie.

di Anna Momigliano

Se avete visto un film indiano, e non appartenete alla categoria tassonomica dei frequentatori di festival del tipo «cinema sociale dal Sud del mondo», e neppure siete appassionati dei polpettoni musicali in stile Bollywood (genere che ha sorprendentemente conquistato una fetta del pubblico mainstream in Italia), ci sono ottime possibilità che il film che avete visto sia stato diretto da una donna. E che quella donna viva nel Nordamerica.

Se uno dovesse fare i nomi dei registi indiani che hanno avuto un discreto successo, di pubblico e di critica, in Occidente, i primi due che verrebbero in mente sarebbero Mira Nair e Deepa Mehta.

Mira Nair, cittadina indiana che da anni vive a New York, ha sfornato alcuni film la cui cifra può essere riassunta come “tema indiano, linguaggio hollywoodiano”, come per esempio “Monsoon Wedding” ( Leone d’Oro nel 2001) e “Il Destino nel Nome” (di cui vi parlavamo qui). Ha avuto il suo momento di impegno sociale con “Salaam Bombay” (Caméra d’or nel 1988), ha anche diretto pellicole squisitamente occidentali (“La Fiera delle Vanità”, 2004), ed è tornata alle cronache per “Il Fondamentalista Riluttante” tratto dall’omonimo romanzo di Mohsin Hamid che ha aperto la scorsa edizione di Venezia e che è uscito recentemente, con distribuzione limitata, negli Stati Uniti.

Poi c’è Deepa Mehta, nata in India, ma canadese d’adozione. Oggi va nelle sale italiane il suo “I Figli della Mezzanotte”, tratto dall’omonimo best seller, long seller, vincitore del Booker Prize e dichiarato pure “Booker di tutti i tempi” in occasione del quarantesimo anniversario del premio (insomma, abbiamo reso l’idea: un mega-caso letterario) di Salman Rushdie. Rushdie ha curato personalmente la sceneggiatura.

I suoi film, proprio perché più pesantucci, fanno di lei un’autrice ancora più lontana da Bollywood di quanto non lo sia Mira Nair, che in Monsoon Wedding aveva flirtato parecchio con gli ingredienti bollywoodiani.

Prima del sodalizio con Rushdie (lei avrebbe voluto trarre un film da Shalimar il Clown, lui le aveva risposto «l’unico mio romanzo che vorrei vedere al cinema è I Figli della Mezzanotte») Deepa Mehta era nota soprattutto per la “trilogia degli elementi”, ossia, nell’ordine “Fire”, “Earth” e “Water.” Il che fa di lei, volendo semplificare parecchio, una Mira Nair più impegnata, più indiana (seppure i suoi film, proprio perché più pesantucci, fanno di lei un’autrice ancora più lontana da Bollywood di quanto non lo sia Mira Nair, che in Monsoon Wedding aveva flirtato parecchio con gli ingredienti bollywoodiani) e, soprattutto, con una dimensione più squisitamente femminile.

A propsito di “cinema impegnato.” Qualche tempo fa, in un’intervista ad al-Jazeera, Deepa Mehta spiegava, e a ragione, che il problema principale del “cinema impegnato” poteva essere riassunto con una frase: «È noioso». Il suo obiettivo, spiegava la regista tra una tirata e l’altra contro i formulari di Hollywood e Bollywood, era fare «film che hanno un messaggio, ma che riescano anche a intrattenere».

Qualche volta c’è riuscita, qualche volta meno. E adesso parliamo della trilogia degli elementi.

Senza nulla togliere al valore, ehm, politico del film, se l’obiettivo di Mehta era produrre una pellicola «con un messaggio ma capace di intrattenere», con “Fire” ha fallito. Piuttosto moscio.

Fire (1996) è ambientato in una grande città dell’India degli anni Novanta, dove le prime avvisaglie della globalizzazione e della crescita economica cominciavano a convivere, e più raramente scontrarsi, con i valori profondamente conservatori della società indiana. È la storia del matrimonio (certamente combinato,se sia forzato – le due cose coincidono spesso, ma non sempre – non è dato sapere) tra due giovani della classe medio bassa. Lei è timida e gentile, non ha mai indossato un paio di jeans. Lui è arrogante, scisso come da cliché tra il desiderio di dominio nei confronti di una donna sottomessa (la moglie indiana) e l’ammirazione nei confronti della donna ambiziosa ed emancipata (la sua amante, che è cinese). In principio, lui ignora lei, poi comincia a maltrattarla. Lei trova una spalla su cui piangere nella cognata, la moglie del fratello maggiore di lui, che parrebbe pure un brav’uomo se non fosse per il fatto che segue un santone che predica il distacco emotivo. Lasciate sole davanti alle violenze e all’insensibilità maschile, le due donne cadono l’una nelle braccia dell’altra, e nasce una relazione romantica.
“Fire” è stato il primo film indiano (semi) mainistream a rappresentare una relazione omosessuale. E, come c’era da aspettarsi, ha sollevato un bel polverone in patria, ricevendo pure minacce dai nazionalisti indù. Senza nulla togliere al valore, ehm, politico del film, non ne ho un buon ricordo. Se l’obiettivo di Mehta era produrre una pellicola «con un messaggio ma capace di intrattenere», con “Fire” ha fallito. Piuttosto moscio.

Earth è un film potente, in tutte le accezioni del termine. Merito anche della bellezza del romanzo da cui era tratto, della pachistana Bapsi Sidhwa: ancora oggi il titolo, The Ice Candy Man, mi dà i brividi

Earth (1998) è tutto un altro paio di maniche. Ambientata nella città di Lahore, oggi Pakistan, del 1947, è la storia della (cruentissima) spartizione tra India e Pakistan, osservata da Lenny, una ragazzina undicenne figlia di ricchi mercanti parsi, gli zoroastriani dell’India, che rimasero neutrali nel conflitto tra musulmani e indù.
Amir Kahn, l’uber star del cinema indiano che salta senza difficoltà dai musical bollywoodiani ai film impegnati, passando da una rispettabile carriera televisiva, è un venditore di ghiaccioli (musulmano) che fa la corte alla baby sitter (induista) di Lenny. Lenny ama Amir Khan, perché lui ama la sua nanny, e perché la ricopre di dolciumi. L’uomo dei gelati è un amico, un fratellone, lo zio giovane che ti vizia. Poi arriva la guerra civile, arrivano gli stupri di massa, i templi e gli ospedali dati alle fiamme mentre i vigili del fuoco buttano benzina, anziché acqua, treni pieni di donne dai seni mozzati che rimbalzano da un confine all’altro. L’uomo dei gelati taglia teste, mozza seni, getta benzina. Non trova il coraggio di stuprare la fidanzata di persona, così trova alcuni amici che lo facciano per lui. La scena finale dello stupro, solo intuito mentre l’uomo dei gelati tiene in braccio Lenny, è epica e inquietante fino al midollo. Earth è un film potente, in tutte le accezioni del termine. Ma quando l’avevo visto avevo attribuito (col senno di poi: mi sbagliavo) il merito di un film riuscito alla bellezza del romanzo da cui era tratto, della pachistana Bapsi Sidhwa: ancora oggi il titolo, The Ice Candy Man, mi dà i brividi.

Con “Water”, Mehta sembra essersi resa conto (finalmente!) che anche l’occhio vuole la sua parte. Ogni fotogramma è pensato apposta per trasmettere allo spettatore un appagamento estetico.

Water (2005), il film più politicamente controverso di Mehta, segna anche una svolta nella direzione dell’intrattenimento. Sia ben chiaro, il tema è serissimo. Nello specifico: il trattamento delle vedove, e soprattutto delle vedove bambine, nell’India prima di Gandhi (il quale, tra le altre cose, disse che era il caso di smetterla di bruciarle vive). Solo che, con “Water”, Mehta sembra essersi resa conto (finalmente!) che anche l’occhio vuole la sua parte. Ambientato a Varanasi, la città sacra sulle rive del Gange, negli anni Trenta, ma girato all’estero perché i fondamentalisti indù hanno minacciato ripetutamente l’intero cast (cosa che spiega anche perché ci abbiano messo tanto a girarlo, visto che è uscito sette anni dopo “Fire”), “Water” è una vera gioia per gli occhi. E si capisce benissimo che ogni fotogramma è pensato apposta per trasmettere allo spettatore un appagamento estetico, che un po’ fa da contraltare a una trama drammaticissima, e un po’ la esalta.
Non a caso, come protagonista maschile Mehta ha scelto l’ex Mister Universo John Abraham, mentre per il ruolo femminile ha voluto la modella Lisa Ray (inizialmente si era parlato di Nandita Das, che era stata protagonista di “Earth” e “Fire”, ma che non aveva la bellezza ipnotica di Lisa Ray).
La trama, si diceva, è tragica che più tragica di così non si può: una bambina di cinque anni, sposata a sua insaputa con un uomo anziano, resta vedova (sempre a sua insaputa) e viene spedita in un monastero, dove una vecchia cicciona – un incrocio tra una madre badessa, una maîtresse e una zia scorbutica ma dal cuore tenero – costringe le vedove più giovani a prostituirsi. Di fatto il monastero vive grazie una bellissima vedova adolescente (Lisa Ray), che sfama tutte le sue compagne ma viene trattata con disprezzo. Come “Earth” anche “Water” si conclude con uno stupro. Ma, a differenza di “Earth”, il finale di “Water” contempla anche un messaggio di speranza.
È quanto più di vicino a un happy ending ci si potesse aspettare da Deepa Mehta.

“Water” è stato proiettato nelle sale indiane soltanto nel 2007, a ben due anni dall’uscita nel resto del mondo (se ben ricordo è stato l’unico della trilogia ad apparire nei cinema italiani), tanto gli estremisti indù avevano protestato, ed ha definitivamente consacrato Deepa Mehta come la regista più controversa dell’India.

Quando ha annunciato l’uscita del suo film tratto da un romanzo di Salman Rushdie, un altro che di essere perseguitato dagli estremisti ne sa qualcosa, Deepa Mehta ha detto: «A lui i musulmani, a me gli indù».

 

 

Foto: Jemal Countess/Getty Images