Attualità

Multiculturalismo a scadenza

Quello che un film di Mira Nair, nonché il dibattito su una variazione statistica infinitesimale, raccontano sull'America dei matrimoni misti.

di Anna Momigliano

Qualcuno avrà visto Il Destino del Nome, film ormai vecchiotto di Mira Nair (quella che ha vinto il Leone d’Oro per Monsoon Wedding e che ha inaugurato l’ultima mostra di Venezia con Il fondamentalista Riluttante). Che riassumerò, snaturandolo, come segue: ragazzo americano un po’ nerd e figlio di immigrati indiani va al college, si mette con una bionda di buona famiglia, poi però gli muore il padre e, durante il funerale, si rende conto che le differenze culturali sono troppe, ergo pianta la bionda e si sposa con un’indiana cicciottella che cucina bene però ha anche un dottorato alla Sorbona. Per un po’ le cose vanno bene.

Un modello comportamentale che meriterebbe di finire nei manuali di etologia collegiale al pari di tropi ormai consolidati come «Bug» o «Lug» (Bisexual Until Graduation, Lesbian Until Graduation).

È quello che io chiamo il “multiculturalismo con data di scadenza”. Ovvero il fenomeno (tipicamente americano? è una domanda) in base al quale esci con chi vuoi, ti porti a letto chi vuoi, ti fidanzi con chi vuoi, fin tanto che stai sotto i 25-30 anni, poi però ti sistemi con uno della tua tribù. Un modello comportamentale che meriterebbe di finire nei manuali di etologia collegiale al pari di tropi ormai consolidati come BugLug (Bisexual Until Graduation, Lesbian Until Graduation): anzi, strano che nessuno finora abbia aggiunto a urban dictionary la voce “Color Blind Until Graduation”…

Può non piacere (e a me non piace), però l’incidenza delle coppie multiculturali-con-data-di-scadenza nei campus americani è un dato di fatto, che viene quasi dato per scontato. Ai miei tempi, quando frequentavo un ateneo liberal della costa orientale, non fece neppure troppo scandalo quando qualcuno sentenziò sul giornale universitario che gli studenti ebrei “passavano i primi tre anni a cercare trombamiche che i loro genitori avrebbero disapprovato e l’ultimo anno a cercare una moglie che i loro genitori avrebbero approvato”. Touché. Lo stesso, del resto, si sarebbe potuto dire di qualsiasi altro gruppo etnico-religioso: indiani, afro-americani, musulmani, e anche i buoni vecchi bianchi wasp.

Con una, notevole, eccezione: gli asiatici, o, meglio, le ragazze asiatiche. Americane di origine cinese, coreana, taiwanese, giapponese, ecc. Quelle, lo si sa che alla fine sposano un tipo bianco.

L’equazione Asian-girl-marries-white-guy è uno stereotipo razziale talmente radicato che una certa stampa finisce per stupirsi quando il luogo comune non viene confermato.

Messa così pare una cosa un tantino razzista da dirsi, eppure in America (in una certa America) l’equazione Asian-girl-marries-white-guy è un luogo comune talmente radicato che non solo è accettabile parlarne senza giri di parole (e pensare che siamo nella patria del politicamente corretto!), ma che addirittura si finisce per stupirsi quando lo stereotipo non viene confermato. E qui veniamo al punto.

Qualche tempo fa è uscito uno studio del Pew Research Center secondo cui i matrimoni inter-razziali sono in aumento negli Usa. In questo contesto di crescente multiculturalità, le donne asiatiche restano il gruppo maggiormente predisposto a sposare qualcuno con un diverso background etnico… però lo sono un pochino meno di prima. (Nota per i più puntigliosi: negli Usa, diversamente da quanto avviene in Gran Bretagna, il termine “Asian” viene utilizzato per indicare persone originarie del lontano oriente, indiani e pachistani invece sono “South Asian”)

A questo punto, il New York Times pubblica un articolo in cui si annuncia che sempre più Asian Americans preferiscono sposarsi tra di loro. La notizia – per una certa stampa: non solo il Nyt, ma anche il Wall Street Journal, come vedremo più avanti – non è che i matrimoni misti sono in aumento. Ma che l’assioma Asian-girl-marries-white-guy sta perdendo colpi.

Per arrivare alla ricerca del Pew, si parte dalla storia di tale Liane Young, 29 anni, una ex studentessa di Harvard, figlia di immigrati cinesi, che la scorsa estate si è sposata con il fidanzato Xin Gao: parlano tutti e due cantonese e mandarino, pensate un po’. Quando era a Harvard, racconta la giornalista del Nyt, Liane usciva quasi solo con ragazzi bianchi e lo stesso facevano le sue amiche, di origine cinese come lei. Oggi non solo lei si è sposata con un altro americano di origine cinese, ma grazie a Facebook sa che la maggior parte delle sue ex compagne asiatiche di Harvard ha messo su famiglia con “uno dei loro”. E qui, proprio come nel film di Mira Nair, entra in gioco la dinamica del “Color Blind Until Graduation”. Perché, alla fine, la famiglia è importante, si avverte il bisogno di tornare alle origini, eccetera, eccetera.

Vuoi vedere che la moda del multiculturalismo con data di scadenza ha finito per diffondersi con l’unico gruppo che, finora, ne era rimasto esente?

Ora, non so voi, ma io ho due problemi con l’articolo del New York Times. Il primo è che quella storia della ex studentessa di Harvard che vede su Facebook che “quasi tutte” le sue ex compagne asiatiche hanno un marito asiatico fa uno strano effetto. Per carità, sarà pure vero che le amiche di Liane si sono tutte sposate con uno della comunità, però messo così, all’inizio dell’articolo, rischia di essere un po’ fuorviante, quasi fosse un dato rappresentativo.

E, numeri alla mano, non lo è. Ad oggi, stando alla ricerca del Pew (i cui ultimi dati sono del 2010), il 36% delle donne asiatiche americane sposa uomini di retaggi etnici e culturali diversi dai loro. Per gli uomini, la percentuale scende sotto il 17%. Ad oggi, come si diceva all’inizio, gli asiatici americani restano, complessivamente, la minoranza più incline ai matrimoni inter-razziali (il 27,7% di loro sceglie un partner di un altro gruppo) anche se ultimamente questa incidenza è di poco calata (una volta era al 30,5%).

La tesi di Tao Jones, la web column del Wsj dedicata alle questioni asiatico americane è che il ritorno alle radici non c’entra niente. Piuttosto c’entra la coolness.

Il secondo problema dell’articolo del New York Times sta nella spiegazione: le radici, la cultura, il volere trovare un marito che non protesti se un domani la suocera si trasferisce a vivere con voi… Ok, qui siamo alla pura interpretazione personale, ma non mi convince. Pare più sensata (ancora: opinione personale), la spiegazione che ho trovato su un blog del Wall Street Journal.  La tesi di Tao Jones, la web column del Wsj dedicata alle questioni asiatico americane è che il ritorno alle radici non c’entra niente. Piuttosto c’entra la coolness. [A proposito, un’osservazione: sì, uno spostamento di tre punti in due anni nell’incidenza dell’Asian-girl-marries-white-guy ha prodotto ben due articoli, di due testate serie, a riprova del fatto che è uno stereotipo assai radicato. In compenso io ho scoperto Tao Jones, che non conoscevo]

Tornando alla column Tao Jones, il tizio che la scrive – tale Jeff Young, che fin dal primo paragrafo tiene a fare presente di avere reso felice la mamma sposando una donna di origini taiwanesi come lui– sostiene che se le ragazze asiatiche sposano più volentieri ragazzi asiatici… è perché i ragazzi asiatici sono meno sfigati di prima. O, meglio, è cambiato il contesto culturale che contribuiva alla percezione dei maschi asiatici come dei secchioni sfigati. Come in questa cover del Time magazine:

 

Ora, non saprei. Anche la spiegazione di Jeff Young aka Tao Jones ha dei punti deboli. A partire dal fatto che, per giungere alla conclusione che ormai il maschio asiatico è figo, porta ad esempio un tipo tutto muscoli che ha vinto un reality ed è di origine coreana. Poi si potrebbe obiettare che dal punto di vista femminile ha più senso uscire con un tipo generalmente percepito come cool durante gli anni universitari, per poi sistemarsi con un nerd totale, magari di buono stipendio munito – scusate, oggi è proprio la giornata dei cliché – e che quindi casi come quelli citati dal New York Times (lei esce con ragazzi bianchi, ma poi si sposa con uno della tribù) non hanno nulla a che vedere con la riabilitazione mediatica del maschio asiatico.

Se non altro, però, il blog del Wsj batte l’articolo del New York Times per onestà intellettuale, almeno nella modesta opinione di chi scrive: offre una prospettiva personale – Jeff, con la sua bella mogliettina, la sua madre rompipalle e i suoi pessimi canoni estetico/televisivi – a differenza di una generica statistica da Facebook affiancata a dati del Pew.

E comunque, tornando al film di Mira Nair, il protagonista poi divorzia. Anche dalla moglie indiana.