Attualità

Il caso della d minuscola

Da de Bortoli a d'Alema passando per Balzac, breve storia di una particella che va maneggiata con cura.

di Michele Masneri

C’è un caso, certamente minuscolo nella maiuscola questione dell’ex direttore de Bortoli in attacco o persecuzione sull’ex presidente Renzi, che ha a che fare con l’onomastica e con l’araldica, dunque minoritario oltre che minuscolo, nell’Italia repubblicana. Caso solo incidentalmente (perfidamente) segnalato da Giuliano Ferrara, che ha definito de Bortoli «un nobile del giornalismo con la “d” minuscola del cognome». Il fatto è che i più anziani si ricorderanno i pensosi editoriali firmati da de Bortoli negli anni Duemila,  firmati da un “De” Bortoli che certamente doveva essere lo stesso autore, autore oltretutto orgoglioso discendente di un «bidello della Statale». La discendenza bidellica orgogliosa – che ritorna anche nel memoir debortoliano pietra dello scandalo, e che tecnicamente peraltro potrebbe non essere incompatibile con prosapie nobiliari, del resto anche i reali di Romania hanno fatto i meccanici per anni – si accompagna al gigante “de” minuscolo che campeggia oggi sulla copertina molto araldica del volume edito dalla Nave di (minuscolo) Teseo.

Ci fu del resto un altro caso in cui il “De” cambiava talvolta in “de”, con conseguenze forse anche politiche o metaforiche, era naturalmente Max D’Alema, che, sebbene troppo scaltro per fare goffamente il downsize della particella, perseguiva la nobilitazione in altro modo: nel modo vinicolo, naturalmente, con la cantina La Madeleine e i suoi vini francesi e etichette dai nomi da intimo d’alto bordo o fumetto Lanciostory, “Nerosé”, quando lo si vide a suo agio e affabile e finalmente pacificato solo in una notte di contesse e marchese toscane Frescobaldi e Antinori in cui si discuteva di vanga, vigna, di solfiti. E però Max cadeva nella più sottile delle trappole, quella dell’araldica sartoriale. Ripescando gloriosi reportage di Guia Soncini dal Mezzogiorno infuocato in una campagna elettorale dalemiana la cronista si chiedeva: «Ma se sulla scheda c’è scritto di votare D’Alema, perché le iniziali sulla camicia sono Md’A»?

È chiaro, qui si rischia di cadere in una nicchia, e (più grave) in una metafora.  La tentazione del minimalismo sartoriale (a fianco di un massimalismo esistenziale e politico, qui) è la più facile delle tentazioni. Questione di ago e filo, di Singer, e forse era un caso di nobilitazione a propria insaputa, un sarto più realista del re. Può accadere a tutti i possessori anche orgogliosi di borghesi cognomi in De, o Di; andare a un convegno, scrivere un articolo, dirigere una testata: trovarsi improvvisamente il cognome miniaturizzato, da dipendenti, organizzatori, ammiratori, che traslitterandoci vogliano nobilitarci, come quando scrivono “Amministratore Delegato” maiuscolo. Càpita. Pochi se ne accorgono, qualcuno anzi si affeziona al suo nuovo cognome minuscolo, e se lo porta dietro, a propria insaputa, per un’intera carriera. Distinguere un “de” da un “De” e un “di” da un “Di” è poi molto complesso, «non essendo la particella, solitamente seguita dall’indicazione del patronimico, o del luogo d’origine o del feudo – prova e nemmeno semplice indizio di nobiltà» (enciclopedia Treccani).

In Paesi più seri come la Germania, la particella araldica (minuscola) fa parte del cognome e lì si distingue ulteriormente tra il “von” che indica l’origine di un feudo – e lo “zu”, che indica il possesso continuo di quel feudo. Anni fa, si ebbe modo di parlare con Ira Fürstenberg, attrice e principessa, che tenne a ribadire a proposito: «Io sono una principessa vera, mica come tutte queste finte che si vedono in giro!», mostrando un passaporto col nome completo di Virginia Carolina Theresa Pancrazia Galdina Prinzessin zu Fürstenberg (sua madre Clara Agnelli si era poi risposata con l’eccentrico mantovano Giovanni Nuvoletti, che per colmare il gap si era fatto adottare da un conte Perdomini in punto di morte. E il soprannome fu subito: l’autonobile Fiat).

ITALY-MEDIA-CORRIERE DELLA SERA

In alcuni casi però è facile distinguere: il “di” di Tomasi di Lampedusa non è lo stesso, mettiamo, del patronimico Di di un  “Di Pietro” o “Di Battista” e lo stesso Lampedusa era a conoscenza delle smanie sottintese a certi cambiamenti cognomici. «Il casato è antico o finirà con l’esserlo», fa dire al principe di Salina a proposito del futuro parente don Calogero Sedara, papà di Angelica. E lo stesso Sedara sostiene programmaticamente che «un giorno si saprà che vostro nipote ha sposato una baronessina del Biscotto», gli manca «solo un attacco» cioè un aiutino araldico-burocratico. Lampedusa, forte del suo “di” principesco infieriva poi nel Gattopardo che «quello degli attacchi mancanti, delle quasi omonimie, era, cento anni fa, un elemento importante nella vita di molti siciliani, e forniva alternate esaltazioni e depressioni a migliaia di persone». Evidentemente i siciliani qui erano una sineddoche, una parte per il tutto.

Ma l’ossessione per la particella “de” non è esclusiva sicula o italica, e trapassa i secoli. Balzac, per il quale semplicemente ogni cambiamento di classe sociale era il magico “clic” che dava vita a una storia romanzesca, aveva incarnato il destino del povero Lucien de Rubempré nel suo essere privato alla nascita del suffisso nobiliare (e ascesa e riconquista del suo posto nel mondo avrebbero coinciso naturalmente col riacquisto della particella). Balzac stesso, coerentemente, decise di aggiungersi un “de”, sostenendo d’essere titolato a portarlo in quanto discendente dei Balzac d’Entrague, antica stirpe di cavalieri della Gallia. Una parentela usurpata frutto solo «del desiderio del grande romanziere» su cui il padre, borghese orgoglioso del suo status, aveva sempre ironizzato, ma su cui lo scrittore non scherzò mai, come racconta Stefan Zweig nella biografia.

Ma in Francia, se un Macron non si sognerebbe di aggiungersi un “de”, in altri tempi un roccioso presidente, Valéry Giscard, aggiunse il predicato “d’Estaing” tra molti dubbi, e poi al nuovo cognome conformò il suo essere, la postura araldica e il mento in su, mentre Sarkozy, che nobile era davvero, non avendo particelle passò sempre per truzzo.

Del resto il fascino del “de” attraversa i secoli: nella Recherche, i demi-mondaine del clan Verdurin vivono nella paranoia dei “noiosi”, cioè gli aristocratici che Charles Swann frequenta di nascosto, e ai cui circoli non sono ammessi. I Verdurin infatti tengono molto alla nobiltà fingendo di disprezzarla, soprattutto non sanno come maneggiare quel “de”, se si pronuncia o no. Verdurin marito «si era accorto che più volte Swann e Forcheville avevano soppresso la particella davanti a quel nome». Madame, «sicura che l’avessero fatto per dare a vedere che non erano intimiditi dai titoli, avrebbe voluto imitare la loro dignità, ma non aveva ben afferrato la forma grammaticale attraverso la quale essa si manifestava. Così, il suo difettoso modo di esprimersi avendo la meglio sull’intelligenza repubblicana, diceva ancora “i de la Tremoïlle”, o meglio, con un’abbreviazione dissimulante il “de” utilizzata nei testi delle canzoni da caffè-concerto e nelle didascalie dei caricaturisti, “i d’la Tremoïlle”, salvo poi rivalersi dicendo ” Madame la Tremoïlle”», e poi infine, stremata: «La duchessa, come dice Swann».

La particella va dunque maneggiata con cura. Anche se poi, alla fine, ognuno dovrebbe chiamarsi come più gli piace poiché, come scrive Zweig sempre a proposito di Honoré (de) Balzac, «la poesia vince sempre la storia».

 

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