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Per ricordare Brian Wilson, Vulture ha pubblicato un estratto del suo bellissimo memoir Si intitola I Am Brian Wilson ed è uscito nel 2016. In Italia, purtroppo, è ancora inedito.

Cruz è un antidoto?

Hillary Clinton parla di novembre, i repubblicani no. Cruz può dare qualche problema a Trump. Si va verso una convention caotica.

16 Marzo 2016

Premessa. Un giornalista del Washington Post ha lanciato un appello. Le primarie americane prevedono soltanto un SuperTuesday, quest’anno è caduto il primo di marzo: possiamo trovare un altro modo per  definire le giornate elettorali previste di martedì in cui si vota in più stati, con un buon bottino di delegati? Altrimenti ci confondiamo: se tutto è super, nulla è super (e in effetti nulla è super). Questo vale naturalmente a partire dal 2020, perché l’ultima tornata di voti che si è svolta ieri, il 15 marzo, è passata alla storia come il SuperTuesday II, o secondo una definizione impareggiabile sempre del Washington Post, «SuperTuesday II: Electric Boogaloo». A questo punto della corsa, solitamente, i giochi sono più o meno fatti, si inizia a parlare del voto di novembre, si sistemano le alleanze e le strategie per consolidare la propria base elettorale. Quest’anno, si sa, nulla è come al solito. Hillary Clinton parla di novembre, i repubblicani no.

La sintesi dell’ultima nottata elettorale americana è: state comodi, c’è ancora da aspettare. Questo vale per il campo dei repubblicani, perché tra i democratici Hillary ha avuto una giornata super, di quelle in cui la paura va via. Ha vinto in Stati importanti, la Florida, l’Ohio, l’Illinois, la Carolina del nord, e pareggia in Missouri, dove ancora i conta e dove invece il suo rivale, Bernie Sanders, sperava di darle ancora qualche dispiacere di più. Soprattutto per la prima volta ha conquistato i voti della middle class bianca che, finora, si era entusiasmata più per Bernie, e aveva costretto il team della Clinton a rifare tutti i calcoli e le proiezioni per gli Stati in cui ancora si deve votare. La nomination tecnicamente non c’è ancora – si ottiene quando si raggiungono 2.383 delegati, Hillary ne ha poco più di mille – ma la grande minaccia di Sanders, il voto antisistema, è sempre meno pericolosa.

Democratic Presidential Candidate Hillary Clinton Holds Primary Night Event In Florida

Tra i repubblicani Donald Trump continua a crescere e a vincere. Il tempo per arrestare l’avanzata dell’imprenditore showman è finito: ora si possono soltanto contenere i danni e continuare a sperare in una convention negoziata a luglio a Cleveland – cioè sperare nel caos. Se avete visto o state guardando l’ultima stagione di House of Cards, sapete di che cosa stiamo parlando: la politica diventa per qualche giorno un grandissimo e vociante bazaar. Nei salottini degli alberghi della convention si incontrano i leader politici e  si fanno le trattative, i delegati vengono chiamati a uno a uno, i capidelegazione dei diversi Stati non dormono mai, le pareti delle stanze sono piene di tabelle fittissime con conteggi, frecce, post-it, cosa promettiamo a questi e cosa invece non possiamo dare a questi altri. Si fanno moltissime battute nostalgiche su Nixon: tutti vorrebbero origliare nella stanza accanto. Il caos è spettacolare e divertente, forse non edificante, ma certo vorresti che non finisse mai. L’esito è più che incerto.

Il fatto che i repubblicani siano ormai appesi alla speranza di una “brockered convention” dà la misura del disastro che sono riusciti a creare. E questa misura è risultata chiarissima l’altra notte, quando Marco Rubio, promettente senatore della Florida con una storia appassionata e le priorità al posto giusto, ha abbandonato la corsa elettorale: Trump ha conquistato venti punti percentuali in più di lui proprio in Florida. Annunciando l’abbandono, Rubio ha detto che l’America è in mezzo a una «tempesta politica», la gente è «frustrata e arrabbiata», perché si sente abbandonata. «So bene cosa vuol dire», ha detto Rubio, e «ho cercato di fare una compagna realistica», con i numeri e il sogno americano a illuminarli, «sarebbe stato più facile rendere tutti più arrabbiati e più frustrati», ma questo «non sarebbe stato un bene per l’America». Rubio era il candidato che più di tutti avrebbe potuto mettere in difficoltà Hillary a novembre, ma la realtà, in queste primarie, ha già perso.

Presidential Candidate Sen. Marco Rubio (R-FL) Holds Primary Night Gathering In Miami

Resta il caos. Non ovunque: John Kasich, noioso e razionale governatore dell’Ohio, è riuscito a vincere nel suo Stato, rilanciandosi come candidato dell’establishment, il moderato (che moderato non è, ma anche queste precisazioni sono ora irrilevanti: collocare i candidati nello spettro tradizionale della politica è complicato, ed è un lavoro che comunque nessuno fa) che può fermare l’avanzata di Trump. Ma la Kasich-mania parte zoppa: per vincere, il governatore dovrebbe conquistare il 100 per cento dei prossimi appuntamenti. Tecnicamente non è impossibile, ma insomma.

Ora la domanda è: si contiene più Trump disperdendo i voti su altri due candidati, o puntando su una alternativa, una soltanto? Detto in altri termini: meglio in tre o meglio in due? Se si dovesse scegliere la seconda strada, l’alternativa a Trump non sarebbe Kasich, che è ultimo nel conteggio dei delegati (dietro anche a Rubio che già si è ritirato): l’alternativa sarebbe Ted Cruz.

La scorsa notte, Ted Cruz, senatore del Texas, si è posizionato secondo in Illinois e Carolina del nord e si batte ancora con Trump in Missouri. Questo significa che nei conteggi proporzionali dei delegati, Cruz non perde la presa su Trump. O almeno, continua a contenerlo. Ora arrivano Stati in cui il profilo di Cruz, destra tradizionale evangelica, potrebbe aspirare a qualche successo, ma il problema del senatore oggi è un altro: non piace all’establishment del Partito repubblicano. Come sia possibile che né il frontrunner né il suo diretto inseguitore siano nelle grazie del Gop è una domanda che ancora non trova risposta, ed è una domanda che fa anche un po’ ridere. I repubblicani sono da otto anni fuori dalla Casa Bianca, hanno vinto le elezioni di mid-term ribaltando il Congresso a proprio favore, hanno avuto il tempo per organizzarsi, prepararsi, posizionarsi. E invece si ritrovano con Trump, che non è nemmeno classificabile come conservatore, e con Cruz che non piace a nessuno.

Non si è mai tolto di dosso l’etichetta di “nasty”, ma intanto ha imparato a coniugare valori, parole e dati

L’indecisione, in politica come in amore, favorisce sempre il più sicuro di tutti, che in questo caso è senza ombra di dubbio Donald Trump. Il tempo che il Partito ci metterà a decidere se affidarsi a Cruz o continuare ad andare avanti con tre candidati per indebolirli tutti potrebbe essere decisivo. Già da oggi, i contribuenti più facoltosi del Gop iniziano a trasferirsi in Florida dove è previsto un incontro per decidere che cosa fare, ma intanto Cruz, il secondo, quello che nessuno vuole, si sta organizzando. Il senatore del Texas è uno che non lascia nulla al caso. In questa campagna elettorale ogni sua mossa, ogni sua uscita, ogni sua email sono state il frutto di una precisa analisi di dati e di risultati. Cruz è un calcolatore: la sua immagine di paladino vociante dei Tea Party che sta le ore a parlare al Senato per fare ostruzionismo, i suoi stivali da cowboy e quell’aria invariabilmente corrucciata sono soltanto la superficie di un candidato che in realtà non ha nulla di improvvisato.

Cruz è un ideologo conservatore, che si è formato a Princeton e alla scuola di legge di Harvard. Suo padre, gran protagonista della sua campagna elettorale, il pastore Raphael, ha incoraggiato fin da piccolo il bambino a leggere i testi giusti, conservatorismo classico con venature libertarie. Alla scuola di Legge, era molto noto. Il professore liberal Alan Dershowitz ha detto che era uno studente bravissimo, «aveva intuizioni brillanti ed era tra i migliori della classe, sempre molto attivo». Negli anni Novanta Cruz ha lavorato con l’ex presidente della Corte Suprema William Rehnquist e quando è diventato il Solicitor general del Texas, dal 2003 al 2008, ha imparato a mettere la retorica al servizio dei suoi valori. Non si è mai tolto di dosso l’etichetta di “nasty”, ma intanto ha imparato a coniugare valori, parole e dati. È quasi un unicum in questa campagna elettorale di caos e improvvisazione.

GOP Presidential Candidate Ted Cruz Holds Primary Night Gathering In Houston, Texas

Ora che il Partito deve decidere che cosa fare, Cruz si sta già muovendo. Ha lanciato una campagna «aggressiva, ambiziosa e Stato per Stato», scrive Politico, per influenzare i partiti repubblicani a livello locale dove vengono selezionati i delegati per la convention. L’obiettivo è far sì che siano inviati delegati “Cruz-friendly”, che a Cleveland, in caso di convention negoziata, siano disposti a sostenerlo (al primo voto, i delegati devono votare per il candidato che ha vinto il loro Stato; dal secondo sono liberi). La selezione dei delegati è una manna per Cruz, che è fortissimo proprio con il micro-targeting: il capo delle ricerche del team del senatore, Chris Wilson, ora lavora con Saul Anuzis, un ex presidente del Partito repubblicano del Michigan che è famoso nell’arte ora attualissima delle convention aperte. Il lavoro di micro-targeting è già iniziato in Georgia e in Virginia, è molto complicato e soprattutto si scontra con le direttive a livello nazionale, che sono ancora confuse. All’incontro dei big donors qualcosa potrebbe essere più chiaro, ma il fronte #NeverTrump non accenna ancora a compattarsi.

Se si guardassero soltanto i numeri, scrive Nate Silver, guru dei big data elettorali (che ha però già preso una scoppola nelle previsioni in Michigan), non ci sarebbero dubbi: Cruz è l’unico che può dare qualche problema a Trump, impedendogli di ottenere il quorum di delegati necessario per la nomination. Per vincere ora, Trump deve ottenere circa il 50 per cento dei delegati ancora da assegnare. I sondaggi negli Stati che vengono sono molto vaghi, ma tutti sono attenti a quel che accadrà in Arizona, Delaware, Nebraska, Montana, New Jersey e North Dakota, dove sono in palio 217 delegati, tutti da assegnare al primo arrivato (winner-take-all). Cruz non deve perdere il passo, ma soprattutto deve cercare di convincere il Gop di essere un antidoto buono al trumpismo. A differenza di Trump, per quanto i repubblicani non vogliano ammettere, Cruz è uno di loro.

Il suo problema semmai è che nell’eventuale scontro con Hillary Clinton, è il più debole di tutti. Con l’etichetta di “preferito dai liberal”, perché è fragilissimo non certo per le sue inclinazioni, con quella di “nasty” e con Trump che ripete che uno nato in Canada non può fare il presidente degli Stati Uniti, la vita di Cruz non pare facile. Noi intanto stiamo comodi, c’è ancora da aspettare.

Fotografie Getty Images
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