Attualità | Coronavirus

Non se ne può più

Dopo un anno di pandemia la prospettiva della zona rossa ci coglie ancora impreparati, soprattutto dal punto di vista psicologico: semplicemente, non ne possiamo più.

di Clara Mazzoleni

(William West/Afp tramite Getty Images)

Anche se non credo in Dio, e tantomeno nella serenità, ho scritto la preghiera della serenità su un foglio e l’ho appesa sul mobiletto della cucina: «Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza». Nelle ultime settimane, dopo averla letta, nella mia mente hanno iniziato a prendere forma, in automatico, le bestemmie più fantasiose. Cosa cazzo posso cambiare se sono chiusa in casa da un anno? Non se ne può più. Dio benedica gli esseri umani, diceva la stanca caricatura di Achille Lauro (ah, era lui?) a Sanremo. Sì, siamo veramente arrivati al punto di rivolgerci a Dio, che sia per insultarlo o pregare. Va bene. Siamo stanchi. Postiamo sui social cose a caso, tanto ormai chissenefrega. Alle 2 di notte scrivo “mi manchi” al mio ex. L’ho lasciato io. Ma sì, perché no? Almeno abita vicino. Scivoliamo verso il delirio. Di tanto in tanto la chat di lavoro impazzisce di confessioni tragiche, arginate dai colleghi con un po’ di imbarazzo e un’inedita empatia. Cerchiamo disperatamente di tenere insieme i pezzi ma ogni tanto cade tutto e bisogna ricominciare daccapo.

Ho iniziato a frequentare le riunioni degli Alcolisti Anonimi perché in un anno di pandemia il mio problema con l’alcool ha fatto in tempo a sparire, ricomparire e peggiorare. Gli alcolisti anonimi esistono dal 1935, le loro riunioni non si sono mai interrotte, tranne che nel 2020. Ora ci si connette con il pc e il cellulare e si fissano i quadratini con le facce nello schermo. Dopo aver partecipato alle riunioni in presenza è difficile farsi andar bene i quadratini. Ieri mi sono vista da fuori: da sola in cucina, un asciugamano buttato sopra alla lampada per rendere l’illuminazione sul mio viso meno impietosa, il cellulare sostenuto da una bottiglia di detersivo per i piatti, le potentissime voci di questi sconosciuti che uscivano dall’iPhone e salvavano la mia giornata.

Nel nostro gruppo io sono l’unica a vivere da sola. Tutti hanno fidanzate o fidanzati, mariti o mogli, figli e figlie, genitori di cui prendersi cura. È difficile per tutti. Nella gara a chi soffre di più non ci sono vincitori. O forse questo è quello che ci raccontiamo noi che siamo soli per consolarci. Andare a letto da soli, dormire soli, svegliarsi da soli, trascorrere la giornata da soli. Mentre mangio penso: “perché sto mangiando?”. È la solita storia dell’albero che cade nella foresta e non fa rumore se nessuno lo sente. Sono ancora viva? Mi faccio un selfie e lo pubblico, nel disperato tentativo di acquisire concretezza.

Tinder esplode di ventenni: mi metto a chattare con loro per passare le serate, sono molto più divertenti dei miei coetanei, ma quando mi chiedono di incontrarci tolgo il match. «Secondo te posso partecipare alle riunioni degli Alcolisti Anonimi anche se non sono alcolizzato?», mi chiede un architetto quarantenne – sempre Tinder – dopo che gli ho raccontato delle riunioni AA. Vive da solo anche lui. Potremmo congiungerci e sopportare insieme questa situazione. Lo incontro fuori, nel primo pomeriggio, camminiamo nel centro semi-deserto di Milano con la mascherina, un poco distanti. È un bell’uomo, intelligente anche, ma non mi piace la sua voce. Nei giorni successivi insiste per rivedersi. La mia reazione decisa – no – è incoraggiante, penso: vuol dire che dentro di me c’è ancora un po’ di attaccamento alla vita. Nel mio corpo dimenticato da Dio e da me stessa, c’è ancora un po’ d’istinto.

La sciatteria non mi ha ancora travolto del tutto. Ha travolto questo articolo, però: non ho neanche la forza di raggruppare dei dati, simulare serietà. Riassumiamo stancamente, a spanne: la pandemia è arrivata ormai più di un anno fa. Nel primo lockdown facevamo gli scemi per sdrammatizzare, stringevamo i denti pensando che poi saremmo tornati alla normalità. Ci sentivamo eroici ripercorrendo i primi tre mesi di Coronavirus. Sacrificio limitato nel tempo, premio finale. Come una dieta. Un concetto sportivo. L’allenamento, la scalinata da fare di corsa, metti la cera e togli la cera, proiettato verso la vittoria. Che in effetti è arrivata con l’estate: liberi tutti. Qualcuno pensava: “ah, di già?”. Poi, sorpresa: il nauseante ritorno dell’uguale, la confusione, la melma, la palude, il dubbio, le diramazioni, le varianti, un passo avanti e due passi indietro. All’inizio era un film di fantascienza, adesso è la replica di una serie tv che abbiamo già visto troppe volte e che qualcuno ci costringe a guardare di nuovo: non fa più piangere né ridere. È una tortura. Dopo un po’ che ti torturano forse smetti di dimenarti e gridare. Siamo svenuti e non ce ne rendiamo conto?

Nessun combattimento finale e nessuna gloriosa vittoria, ma tante infinite sfiancanti simulazioni e prove, un susseguirsi di tentativi ed errori. Richiudono le scuole, tornerà la zona rossa. La nostra vita è un pendolo tra fissare il muro sconcertati e provare dei picchi di rabbia. Certe mattine ci svegliamo e vorremmo urlare. Perché non lo facciamo? Si sentirebbe da fuori se urlassimo tutti, alla stessa ora, mentre siamo ancora nel letto? Cosa potremmo urlare? Di sicuro abbiamo smesso di pensare che “ce la faremo”. Ho scoperto su Instagram una ragazza che ricama bestemmie a punto croce. Splendida idea.

Nella gara a chi soffre di più non ci sono vincitori. Forse è vero, forse non è una cosa che diciamo noi soli per consolarci. Perché anche chi ha la fortuna di non essere solo sta patendo. Forse non soffre di solitudine, ma di preoccupazioni. Le persone intorno che si ammalano. La confusionaria gestione dei vaccini. Il posto di lavoro traballante (o l’azienda intera, il sistema, che scricchiola). I progetti di vita andati a farsi fottere. La scuola: non si tratta più dello shock di qualche mese di sospensione, è una grave interruzione del normale flusso dell’istruzione scolastica che fluiva indisturbato da decenni. Le scelte dall’alto sembrano folli o incomprensibili: centri commerciali aperti, scuole chiuse. All’inizio i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze hanno cercato di prenderla bene, con creatività, con l’entusiasmo che contraddistingue gli anni dell’infanzia e l’ironia che accompagna quelli dell’adolescenza. Iniziano ad averne piene le palle anche loro. Schermo del pc, schermo del cellulare, schermo della tv. Il cervello in pappa. Se avevano in mente di fare un Erasmus o studiare all’estero, non potranno farlo. Intrappolati in questo Paese, in tuta. Interrotti.

La nostra vita è cambiata e non tornerà mai più come prima. Chi sta cercando di reagire, in qualsiasi modo, merita un applauso. Chi si è sdraiato sul divano e non riesce più ad alzarsi, merita una carezza. Per una volta, non è colpa nostra. Il nostro cervello sta andando a puttane, lo dice anche una giornalista dell’Atlantic (ha scritto un articolo molto personale su come la pandemia la sta facendo impazzire). Mesi fa ci chiedevamo come avremmo potuto reagire psicologicamente a un secondo lockdown, ora siamo alla vigilia del terzo. La nostra psiche è ormai compromessa. Siamo bolliti. Fate di noi ciò che volete. Zona rossa, gialla, viola, rosa, azzurra, nera, bluastra. Arcobaleni. Galassie. I nostri sogni sono strani, lunghi, vividi e insensati in modo inquietante. Dopo un’intera vita vissuta, e una sacrosanta stanchezza, chi ha più di 70 anni si ritrova a dover fare i conti con tutta ‘sta roba: loro meritano una standing ovation con tanto di fischi, gridolini e gente che urla: “Bravo!”, un po’ come si era fatto all’inizio con gli infermieri. E poi c’è un’altra categoria: i fortunati. Coloro che non stanno subendo gravi danni e continuano a vivere tutto sommato bene: grazie al loro lavoro viaggiano, possono spostarsi in città non troppo colpite dalla crisi, oppure sono molto ricchi e si sono rifugiati in qualche luogo ameno. Continuano la loro vita mentre il mondo intorno crolla e si sentono in imbarazzo, a disagio, ancora più sconnessi del solito. Le loro stories su Instagram suonano sempre più stonate. Lo sfoggio della loro fortuna non suscita la nostra invidia, come succedeva prima, ma un forte senso di nausea e di rifiuto. Clicchiamo in coro: “Smetti di seguire”.

Il bello di essere disperati è che sì, è proprio vero, nella gara a chi soffre di più è difficile sentirsi vincitori. Siamo tutti insieme in questo disastro. Possiamo litigare sulla scuola, sulla necessità della zona rossa, sul governo: ognuno cerca di portare avanti una determinata battaglia a seconda di cosa gli conviene nella quotidianità. Ma siamo tutti disgraziati, e in questo uguali, come un’immensa riunione di Alcolisti Anonimi. Siamo i Superstiti del Coronavirus Anonimi. Eccoci qui a lamentarci, a guardarci negli occhi, a ripetere la preghiera tutti insieme: «Dio, concedici la serenità di accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare le cose che possiamo, e la saggezza per conoscere la differenza». E vai anche un po’ affanculo, magari.