Via Alessandro Manzoni il 12 marzo 2020, Milano, Italia (Foto di Vittorio Zunino Celotto / Getty Images)
Attualità | Coronavirus
Tre mesi di Coronavirus
Da quando si è preso le prime pagine dei giornali a oggi: cosa è cambiato, cosa abbiamo capito e cosa ricorderemo.
L’ultimo giorno del mondo prima, in Italia, è stato il 21 febbraio, quando i principali quotidiani avevano in prima pagina notizie di importanza relativa, se guardate a distanza di tre mesi: Mario Draghi e Matteo Renzi, la tenuta del governo Conte, e un attentato fascista in Germania di cui non ricordavo più niente. Sulle edizioni di sabato 22 febbraio i titoli erano invece più grandi del solito, e tutte parlavano del nuovo Coronavirus ormai sbarcato nel Nord Italia: nel corso delle 24 ore precedenti un uomo di 78 anni era stato registrato come il primo decesso italiano, e 17 persone erano risultate positive tra Veneto e Lombardia. Nelle prime ore della mattina, a Milano, la settimana della moda si copriva delle prime mascherine, e alle sfilate non ancora cancellate ci si salutava, per la prima volta, da lontano. Ci si scherzava ancora, su questo reciproco imbarazzo.
La settimana successiva ci lavammo molto le mani, le farmacie terminarono le prime modeste scorte di igienizzanti, sui mezzi pubblici ci sistemammo, per quando possibile, un po’ più distanti gli uni dagli altri. Il weekend successivo, l’ultimo di febbraio, in Lombardia pioveva a dirotto, i bar avevano già chiuso ma poi riaperto. Circolò molto il famoso video “Milano non si ferma”. Non c’erano ancora limitazioni agli spostamenti personali, per cui di questa nuova situazione, inedita e in divenire, si parlò, il venerdì e il sabato sera, nei ristoranti e nei bar, nelle cene a casa di qualcuno. Come avevamo sempre fatto.
In un solo giorno 500 nuovi contagi: succedeva il 3 marzo, e guardando ora il Google Calendar di quei giorni ritrovo gli appuntamenti delle diverse riunioni dell’epoca, in ufficio e fuori. Furono tutte rinviate. Fu la settimana in cui iniziammo a renderci conto, soprattutto in Nord Italia, che qualcosa stava succedendo e per la prima volta nelle nostre vite non succedeva a qualche centinaio di chilometri da noi, ma davanti ai nostri occhi. Nel panico, arrivarono le prime disposizioni di social distancing, anche se non si diceva ancora così: salutatevi da lontano, niente baci e abbracci, titolava la Repubblica il 4 marzo. Per la prima volta il governo si impicciava di come dovevamo disporre non solo del nostro corpo, ma addirittura di come potevamo dirci ciao buongiorno arrivederci. Fu l’ultimo giorno dell’anno scolastico 2019/20, anche se non lo si decise subito. Eravamo straniti più che impauriti, e ci sembrò meglio obbedire senza fare domande. Il panico arrivò pesante la notte tra l’8 e il 9 marzo, quando venne imposta, in notturna, la chiusura dell’intero Paese. I voli, in entrata e uscita, cancellati. I confini, blindati. Riuscii ad atterrare a Milano la mattina di lunedì 9 marzo, dopo una notte quasi insonne. Le strade verso casa erano vuote come un giorno d’estate, il tassista mi offrì delle salviette igienizzanti, ma risposi che ne avevo già in abbondanza. Il pomeriggio, la dentista mi chiamò per avvisarmi che avremmo dovuto cancellare tutti gli appuntamenti, e ne fui sollevato.
A inizio aprile metà della popolazione del Pianeta Terra era stata messa in isolamento. Ancora più straordinariamente, metà della popolazione del Pianeta Terra riusciva, con pochissime eccezioni, a rispettare obbediente questo isolamento.
Negli anni ’60 un libro pubblicato dal chirurgo Maxwell Maltz proponeva una teoria – presto smentita – che ebbe così largo successo che rimbalza ancora in giro, a distanza di 60 anni: quella per cui ci vogliono 21 giorni per un essere umano per formarsi una nuova abitudine. In una situazione come quella che iniziammo a chiamare quarantena, o lockdown, imparammo che ci sono funzionamenti psicologici d’urgenza, e che una nuova azione o un nuovo stato mentale, se sviluppato in una situazione di emergenza, diventa automatico nel giro di poche ore. Già nella prima settimana di reclusione, mi accorsi con piacere, diventai molto bravo a tossire nell’incavo del gomito.
Le cose accelerarono per certi versi, e rallentarono per altri: in molti fummo travolti dalla paura della solitudine più che dalla solitudine vera e propria, e ci affannammo a costruire una routine di relazioni sociali a distanza utilizzando per lavoro e per piacere – aperitivi e cene virtuali – le applicazioni di videoconferenza come Zoom, che videro il prezzo delle proprie azioni esplodere, sfiorando aumenti del 50 per cento. La prima metà di marzo fu un adattamento faticoso: le code ai supermercati, i servizi di delivery, le spese recapitate a casa. I corsi di fitness, quelli di yoga, le dirette su Instagram. Cannibalizzammo così ferocemente il nostro stesso tempo libero che gli psicologi dovettero spiegarci sui quotidiani che era normale non riuscire a leggere finalmente Dostoevskij, recuperare quella serie tv lasciata indietro, o mancare di concentrazione. Iniziammo a sentirci meno soli, mano a mano che il virus si diffondeva in Spagna, poi in Francia e Germania e Inghilterra. Le settimane passavano veloci come in vacanza, i concetti di settimana iniziarono a perdere le loro rigidità, le giornate erano scandite soltanto dall’appuntamento delle 18, dal lunedì alla domenica: il conto dei nuovi contagi, dei morti, le immagini delle terapie intensive piene e sconvolte come gli ospedali da campo allestiti dopo una calamità naturale, un terremoto.
Lo sport nazionale diventò quello: concentrarsi in analisi epidemiologiche, statistiche e di gestione ospedaliera. Gli statistici sviluppavano modelli che venivano smentiti dai virologi, i virologi litigavano tra di loro, i giornalisti tuttologi facevano un po’ di testa loro, i giornali populisti tornarono finalmente a fare le loro becere prime pagine populiste ed era chiaro a pochi, in questo fracasso di opinioni tutte così ben titolate, che nessuno ci stava capendo niente. A inizio aprile metà della popolazione del Pianeta Terra era stata messa in isolamento. Ancora più straordinariamente, metà della popolazione del Pianeta Terra riusciva, con pochissime eccezioni, a rispettare obbediente questo isolamento.
Cannibalizzammo così ferocemente il nostro stesso tempo libero che gli psicologi dovettero spiegarci sui quotidiani che era normale non riuscire a leggere finalmente Dostoevskij.
A questo punto le cose accelerarono: arrivò il 3 aprile, la data inizialmente indicata dal Governo come primo check point, e nessuno si stupì di veder prolungate tutte le misure. Tutti si ritrovarono, invece, più o meno concordi nel sopportare sempre meno volentieri le conferenze stampa istrioniche del Presidente del consiglio, la mancanza di una visione, di strategia di contenimento, di gestione delle Regioni più colpite, sempre quelle lì iniziali, da qualche parte nel Nord Italia, come dicevano i titoli di testa di Chiamami col tuo nome, che ne frattempo aveva fatto la sua comparsa su Netflix.
La primavera è la stagione in cui si lavora meno, una festa che solitamente inizia con Pasqua e con i primi caldi, e iniziammo a pensare alle vacanze che non avremmo fatto. Un mese era volato, tutto si faceva più compresso in quella che era diventata ormai una nuova normalità: le misure vennero estese fino al 3 maggio, Boris Johnson in terapia intensiva, l’obbligo di portare le mascherine, i litigi sul MES, l’America in ginocchio, Boris Johnson fuori dalla terapia intensiva, la morte di Sepúlveda. In ogni situazione straordinaria si crea come per magia un equilibrio di routine: così i giornali ricominciarono a essere più noiosi che angoscianti, con le previsioni su una fantomatica fase 2, le riaperture, la vaghezza dei come e dei quando. La notizia più grande passò più inosservata della app Immuni: il petrolio era crollato a un valore negativo per la prima volta nella storia del capitalismo.
La temuta ondata di fughe dal Nord al Sud, ormai era chiaro, non portò nessun boom di contagi. Anzi, l’Italia meridionale continuava a passarsela relativamente bene, se confrontata con il macello del Nord. I rapporti di forza si erano ribaltati, e come sempre succede in questo caso, un po’ di cattiveria e revanscismo si diffusero, silenziose. Fu l’aprile più bello, meteorologicamente parlando, delle nostre vite, e lo guardammo dai balconi da cui avevamo imparato a salutare i vicini di casa. I nostri capelli continuavano a crescere e gli impasti a lievitare, le conferenze stampa delle 18, con numeri leggermente più positivi che in passato, si trasformarono in tradizione e come tutte le tradizioni persero importanza. Le scuole, ormai era chiaro, erano diventate il grande dimenticato d’Italia. Il 25 aprile, per la prima volta, non ci fu nessun allarme revisionismo. La fase 2 iniziò come una fase 1 più confusa.
Dal 4 maggio e per i dieci giorni successivi, in attesa di una riapertura quasi totale, vivemmo all’insegna della confusione. Confusi sul perché i contagi non rallentassero al Nord e soprattutto in Lombardia, confusi sul perché non fosse stata ancora messa in pratica una massiccia campagna di tracing, confusi sulla definizione di “congiunti” e su altri pasticci linguistici di un governo di burocrati e ciarlatani, confusi perché spaventati dalla possibilità della libertà, e quindi iniziammo ad accusarci l’un l’altro, siete in troppi in quel parco, la mascherina va messa per bene fino al contorno occhi. Poi ce la prendemmo con i teleobiettivi, ed eravamo tutti diventati esperti di fotoritocco, un attimo prima di diventare abili diplomatici internazionali grazie alla liberazione di Silvia Romano dalla Somalia. Lei è tornata con la testa coperta e l’abbiamo trovata cambiata, ma è probabilmente lei quella che avrà trovato più cambiati noi, non in quanto più cattivi, quello lo eravamo sempre stati, ma antropologicamente diversi: chiusi in casa, panificatori, senza manicure né parrucchieri, feste del cinema o settimane della moda, scioperi del trasporto pubblico né campionati di Serie A. Sono passati tre mesi da quando il virus si è preso le prime pagine dei giornali, e tutto quello che sappiamo è che non sappiamo ancora niente.